Nel 1969 lo scrittore argentino Adolfo Bioy Casares compiva 55 anni, un’età che ai nostri giorni non avrebbe allarmato nessuno ma che in quegli anni lontani, soprattutto a un seduttore com’era lui, sportivo incallito, abile giocatore di tennis, doveva forse suggerire qualcosa. Fu allora che mise per iscritto le sue perplessità sull’invecchiare nel romanzo Diario della guerra del maiale (in Italia pubblicato dalla Giunti, nel 1997), la cronaca di una caccia agli anziani che vengono stanati ed eliminati, appunto come “maiali”, da misteriose pattuglie che scorrazzano per la città di Buenos Aires.
Si tratta di un curioso incubo porteño sognato da chi aveva una grande dimestichezza con la dimensione onirica: non a caso era l’inseparabile amico e socio di Jorge Luis Borges, e circa quindici anni prima aveva sperimentato ne Il sogno degli eroi, attraverso il personaggio di Emilio Gauna, la possibilità di sognare la propria morte. I protagonisti del romanzo sono un gruppo di “muchachos” che si riuniscono ogni sera per giocare a carte in un caffè della Plaza Las Heras, a Buenos Aires. Bisogna precisare, avverte lo scrittore, che “il termine ‘ragazzi’, da loro usato non presupponeva una complicata e inconscia intenzione di passare per dei giovanotti, come assicurava Isidorito, il figlio di Vidal, ma ubbidiva piuttosto alla casualità del fatto che un tempo lo erano stati e che allora si erano designati in quel modo”.
La partita è improvvisamente interrotta da rumori indistinti che provengono dall’esterno ma che si trasformano a poco a poco in “ingiurie, colpi, gemiti, un rumore di ferraglia e di lamiere, di un respiro affannoso. Dalla penombra sorgevano, in un chiarore biancastro, ragazzotti irrequieti e urlanti, armati di randelli e di spranghe che infliggevano un castigo frenetico a una massa informe che giaceva in mezzo ai secchi e ai mucchi di immondizia”. La “massa informe”, si scopre dopo, risponde al nome di Don Manuel, proprietario dell’edicola dell’angolo. Una frase pronunciata da una ragazzina che assiste al pestaggio, “i provocatori hanno quel che si meritano!”, cade come una doccia fredda su Isidro Vidal, il protagonista del romanzo, che da tempo aveva notato intorno a sé ed agli amici un clima di diffidenza e di crescente ostilità.
Spesso la parola “vecchio” gli era stata scagliata addosso con disprezzo, come una colpa, anche da persone insospettabili, addirittura nella cerchia dei parenti. Don Manuel è una delle tante vittime di squadracce di energumeni, i famigerati “gruppi di repressione”, comandati da un certo Arturo Farrel, che hanno la missione di ripulire la città dagli anziani, un po’ come avevano fatto, scrive Bioy Casares, “i giovani turchi” con il popolo armeno.
Che fare? I “muchachos” prima cercano di fare il punto sulla situazione riflettendo sulla vecchiaia: “Gli anni, vecchio mio [dice uno del gruppo], gli anni. Un uomo furbo dovrebbe mettere a punto al momento giusto una strategia contro la vecchiaia. Se ci pensa troppo, si rattrista, perde coraggio, gli si legge la vecchiaia in faccia, la gente dice che si arrende troppo presto”. “Sciocchezze [risponde un altro]. E’ che non c’è posto per i vecchi, perché non è stato previsto niente per loro. Nella vecchiaia tutto è triste e ridicolo: persino la paura di morire”. Poi cercano di sottrarsi alla caccia tingendosi i capelli o frequentando ragazzine di dubbia reputazione. Isidro Vidal ottiene buoni risultati, contando sul fisico ancora accettabile e su residui di fascino che esercita sul gentil sesso.
Quando confessa ad un giovane interlocutore: “Sono ormai vecchio, o sto per diventarlo”, si sente rispondere: “Secondo me, questo è uno sproposito. Vecchio, no. Io la situerei in una zona che quel ciarlatano di Farrel descrive come terra di nessuno. Non si può dire che lei sia giovane, ma vecchio, senz’altro no”. La risposta non può che riempire di orgoglio Vidal e soprattutto Bioy Casares che in quell’epoca stava ancora facendo la sua parte nei tornei di tennis e nelle schermaglie sentimentali. Ma evidentemente qualcuno dei nemici non ha le idee altrettanto chiare e Isidro Vidal è preso a bottigliate da una pattuglia di esaltati: viene salvato da una giovane vicina, Nelida [guarda caso è il nome del primo amore di Adolfito], una sorta di “Beatrice” porteña che lo salverà dalle botte e dalla senilità incipiente, rifugiandolo a casa sua.
Meno fortunato qualche altro dei “muchachos”: Arevalo cade in un’imboscata e finisce all’ospedale con le ossa rotte e Nestor viene linciato allo stadio mentre assiste ad una partita di calcio. La città è in subbuglio: si parla di “vecchi che erano stati scaraventati nei falò dei Santi Pietro e Paolo. Si sapeva di quattro o cinque incinerazioni parziali entro il perimetro del quartiere. Si parlò anche dei sequestri, il nuovo metodo di quella guerra, la cui nuova componente, disse Vidal, era l’attrattiva del guadagno”. Per non parlare delle esecuzioni domestiche, come quella di un nonno che era diventato un peso per la famiglia e che era stato “eliminato da due nipotine di sei e di otto anni”. C’è persino un attentato in un ospizio, in cui perdono la vita decine di anziani.
In una conversazione con due giovani che non approvano quanto sta succedendo, Isidro Vidal viene a sapere che Farrel non agisce da solo: “Ci sono degli studiosi. Dietro tutto ciò, ci sono molti medici, sociologi, molta pianificazione. E, detto tra noi, c’è anche gente di chiesa”. E anche del governo, come si deduce da certe trattative in corso: si parla di un “piano di compensazione” che consiste nell’ “offrire alle persone anziane delle terre nel Sud”. “Piano di compensazione” sul quale uno dei “ragazzi”, Dante, non ha dubbi: “Diciamo chiaro e tondo che vogliono deportare i vecchi in massa”. Nel frattempo si infittiscono le riflessioni: “non voglio lasciare a questi cretini l’iniziativa della mia morte. Ti confesso che non mi tenta neppure una malattia. E se ti tiri un colpo o ti butti dalla finestra, l’urto dev’essere sgradevole. In quanto alle pillole, se poi hai voglia di svegliarti, come fai?”. Il problema, suggerisce un altro, tagliando corto, è “che non siamo schedati come vecchi”.
I superstiti del gruppo si riuniscono per accompagnare il feretro di Nestor al cimitero ma vengono sorpresi da una pattuglia che cerca di linciarli prendendoli a sassate, una vera e propria lapidazione: “La macchina frenò bruscamente. In una bianca effervescenza, il parabrezza si scheggiò, si fece opaco. Vidal aprì la portiera, scese per verificare cosa stesse succedendo. Notò uno strano silenzio, come se non solo il corteo, ma il mondo intero si fosse fermato. Dalla prima automobile scese il signore dalle mani grandi, con le quali, in una sorta di patetica pantomima, si coprì la faccia. Più in là, oltre il carro funebre carico di fiori, un gran numero di persone ridevano, ballavano, si piegavano contorcendosi per poi raddrizzarsi di colpo. Allora, Vidal vide la faccia del signore dalle mani grandi ricoperta da un velo di sangue e capì subito dopo che le contorsioni di quella gente lontana erano movimenti per prendere lo slancio e tirare le pietre”. Isidro Vidal si rifugia dietro una lapide e poi corre come un disperato, sotto la pioggia battente, verso la casa di Nelida, compiacendosi del suo stato fisico che gli aveva consentito di mettersi in salvo: “Per fortuna non sono ancora vecchio. Un altro, per molto meno, si sarebbe buscato una polmonite doppia o una bronchite cronica”.
Poi, un bel giorno, le ostilità cessano misteriosamente e gli anziani possono tirare un respiro di sollievo. I “muchachos” riprendono le vecchie abitudini, tra cui quella di ritrovarsi ogni sera al caffè della plaza Las Heras per giocare a carte.
Foto: Adolfo Bioy Casares