Portnoy, Inga e gli altri: il laboratorio creativo di Philip Roth

La biografia scritta da Blake Bailey e pubblicata da Einaudi

La biografia di Philip Roth scritta da Blake Bailey[1] ha rischiato di naufragare nelle acque procellose del #MeeToo e della “Cancel culture” che imperversa negli Stati Uniti: nel 2021 all’apparire sui social media di accuse, non suffragate finora da riscontro legale, di molestie sessuali nei confronti di ex studentesse, la W.W. Norton & Company che l’ aveva già pubblicata (una tiratura di 50.000 copie), decise di ritirarla dal mercato.[2] Il libro fu mandato al macero nonostante avesse già raccolto apprezzamenti assai lusinghieri, tra cui quello della scrittrice Cynthia Ozick che sul New York Times lo definì “un capolavoro narrativo sia per completezza sia per precisione”.[3] Come se non bastasse, Bailey fu pure scaricato dal proprio agente letterario. La Norton ritirò anche dal proprio catalogo la divertente autobiografia di Bailey apparsa qualche anno prima, The Splendid Things We Planned: A Family Portrait, che fu successivamente ripubblicata dalla Skyhorse Publishing,[4] la stessa casa editrice che riscattò dall’ostracismo anche la biografia di Philip Roth che oggi possiamo finalmente leggere nella impeccabile traduzione italiana.

Quando fu contattato dallo scrittore, nel 2012, Bailey aveva al suo attivo le biografie di John Cheever con cui vinse il National Book Critics Circle Award e fu finalista al Pulitzer, inoltre quelle di Richard Yates e di Charles Jackson. Roth gli mise a disposizione il suo archivio di documenti personali e riservatissimi conservati nella Library of Congress (saranno resi pubblici soltanto nel 2050), tra cui anche un fascicolo che poteva dare l’idea di un controllo che Roth aveva intenzione di esercitare sulla biografia, dal titolo “Note per il mio biografo (manoscritto inedito di PR)” ed anche una sorta di ‘memoriale’ pure inedito in cui ribatteva le accuse della seconda moglie, Claire Bloom, contenute nel libro Leaving a Doll’s House del 1996. Ma fortunatamente gli rivolse anche l’invito a cui Bailey si è mantenuto fedele e che scelto come esergo del libro: “Non voglio che mi riabiliti. Solo che mi rendi interessante”.  

Al termine della sua fatica durata nove anni può dichiarare che la “collaborazione è stata onorevole e assoluta. Mi ha fornito quasi ogni singola informazione potenzialmente utile, per quanto intima fosse, e mi ha permesso di farne quel che volevo (dopo avermi spiegato, spesso in modo più che esaustivo, cosa sarebbe stato opportuno che ne facessi)”.[5] Ma Bailey è riuscito a resistere alle pressioni e a fare, fin che ha potuto, di testa sua. L’agiografia non rientra del resto nei canoni della tradizione biografica anglosassone assai vicina alla storiografia ed anche Bailey si è dimostrato all’altezza: si è limitato a raccogliere empiricamente le prove, che sono in questo caso sterminate.

Oltre ai documenti che gli ha fornito Roth, Bailey ha realizzato una miriade di interviste sul campo (circa 200), contattando le persone che lo avevano conosciuto, gli amici, i parenti, i colleghi e soprattutto le numerose amanti dello scrittore che era, com’è noto “un artista dagli appetiti titanici”[6].  Sulla sua irrefrenabile vocazione per il sesso che ha provocato in certi settori accuse sempre più numerose di misoginia, Bailey ricorda che “verso la fine fu assistito da un numero sorprendente (tanto più per un uomo di cui si diceva che avesse problemi con le donne) di ex amanti”.[7] In un’intervista apparsa sul Corriere della sera nell’aprile del 2021, precisa inoltre che molte delle amicizie più durature di Roth erano “con donne formidabili e brillanti: Judith Turman, Hermione Lee, Claudia Roth Pierpont. I suoi avvocati erano donne, la sua editor preferita era una donna, la sua prima agente, la sua storica mentore”.

Il carattere del biografato, per Bailey non è comunque al di sopra di ogni sospetto: così si evidenzia il cinismo con cui si liberava di certi rapporti sentimentali ormai scomodi oppure l’arroganza di una lingua tagliente che lasciava spesso il segno. Il “lato perentorio della natura di Roth”, come succede spesso in questi casi, era andato in crescendo man mano che aumentava il suo prestigio letterario. Per non parlare della grande abilità, ma anche arroganza, nel contrattare gli anticipi sui diritti d’autore (in qualche caso riuscì ad ottenere persino il 30%) e sugli interessi nelle vendite. Si tratta anche qui di cifre da capogiro. Nelle schermaglie editoriali in cui avanzava richieste sempre più pressanti, non guardava in faccia a nessuno. La natura di Roth aveva però, fortunatamente, anche molti versanti più gradevoli. “Roth – dice Bailey in una nota finale- era una persona verso cui era difficile non provare tenerezza”. Era un uomo simpaticissimo in grado di far sbellicare dalle risa gli amici durante una cena o nelle diverse occasioni conviviali nelle quali metteva in atto delle vere e proprie performance comiche che sarebbero poi andate a beneficio anche della sua scrittura. E da non sottovalutare la sua generosità nell’aiutare economicamente gli amici in difficoltà.

Il libro scorre piacevolmente per circa mille pagine che raccontano la vita e la carriera letteraria di Roth. Bailey riesce a diluire nel racconto brani e citazioni provenienti dalle numerose conversazioni con lo scrittore, dai suoi romanzi, dai documenti che lo stesso gli ha messo a disposizione, anche quelli che, sia detto come prova del suo disinteresse per essere ‘riabilitato’, lo mettevano in cattiva luce, e dalle numerose interviste, in un montaggio perfetto e con uno stile illuminato dalle frasi ad effetto e dall’ironia dello scrittore. Fra i documenti utilizzati vi sono anche altri approcci biografici, seppur parziali, come quelli di Claudia Roth Pierpont,[8] Lisa Halliday,[9] Benjamin Taylor,[10] e opere varie (pare che negli Stati Uniti si stia preparando un’alluvione di scritti del genere) che evocano degli incontri con Roth: è il caso di Gaia Servadio[11] e di Livia Manera Sambuy.[12]

Uno dei percorsi più affascinanti del libro è quello in cui Bailey illustra il laboratorio creativo dello scrittore ed il modo con cui questi ‘saccheggia’ il proprio passato (a volte anche quello degli altri) e della propria memoria per alimentare la finzione. Bailey è un’ottima guida in quanto ha accesso alle fonti biografiche di personaggi ed episodi di molti romanzi. Bisogna dire comunque che alcuni meccanismi di questo particolare aspetto della scrittura, Roth li aveva già svelati in altre opere, quali I fatti. Autobiografia di un romanziere[13], Perché scrivere ?,[14] che riunisce saggi, conversazioni e altri scritti non di finzione dal 1960 al 2013, e lo splendido Patrimonio. Una storia vera.[15]

Il ‘saccheggio’ della scrittura inizia dalla propria famiglia. Roth  amava ripetere una frase del poeta polacco Cezlaw Milosz: “Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è rovinata”. In realtà alla sua famiglia non andò poi tanto male. Erano orgogliosi del successo del figlio pur sapendo di essere stati utilizzati qua e là nel ruolo di genitori. Il padre, Herman, di professione assicuratore a domicilio, definito da Philip “il classico rompiscatole”, finisce per essere addirittura protagonista di uno dei più bei libri del figlio, Patrimonio. Una storia vera, in cui si descrive la malattia e la morte dell’anziano genitore e soprattutto la dedizione con cui il figlio lo assiste nell’ultimo periodo della sua vita. In una lettera a John Updike, scriveva che accudire il padre anche nello sconquasso fisiologico provocato dalla malattia, “era stata una delle cose più straordinarie e meravigliose che mi siano mai capitate”.

Pure interessante il caso della madre Bess, a cui si ispira per il personaggio di Sophie, l’apprensiva mamma del protagonista del Lamento di Portnoy,[16] il libro che darà fama e ricchezza allo scrittore. Bess è comunque un prototipo di mamma ebrea o di mamma tout court, che troviamo anche in altre opere. Mentre Roth cerca di presentare un quadro piuttosto idillico della loro relazione contrassegnata da una ‘grande tenerezza’, il Dottor Hans Kleinschmidt, “l’ultimo freudiano di New York”, che lo ebbe in cura, con intervalli più o meno lunghi, per circa trent’anni a causa delle frequenti depressioni, gli affibbia una diagnosi ben più preoccupante: Philip è afflitto da “ansia di castrazione al cospetto di una figura materna fallica”. Questa ed altre diagnosi che gli vengono inflitte nel corso degli anni vanno a costituire quella “merda freudiana” (sono parole sue) verso la quale lo scrittore non esita a manifestare la propria insofferenza. Significativo l’episodio in cui l’analista attribuisce un malessere del paziente ad una manifestazione psicosomatica causata dall’invidia per il successo del romanzo di un amico mentre invece si trattava di un attacco di peritonite in seguito al quale fu ricoverato d’urgenza.

Quando gli chiesero i benefici che aveva tratto dalla psicoanalisi, rispose con la consueta impudenza: “Mi ha trattenuto dall’uccidere la mia prima moglie”. Il rapporto con l’analista entrò in crisi quando si accorse che il Dott. Kleinschmidt lo aveva utilizzato, cambiandogli naturalmente i connotati, in un articolo su una rivista scientifica per illustrare un caso di narcisismo. Roth, infuriato, gli rinfacciò “la caricatura psicanalitica” a cui lo aveva sottoposto, e per di più pubblicamente. L’analista reagisce minacciandolo di interrompere la terapia, al che lo scrittore obbedisce rientrando in ragione, in quanto “ne avevo bisogno”. E, dice Bailey, “non era certo la prima né l’ultima volta in cui, nonostante le sue reiterate professioni di autonomia, sarebbe rimasto dipendente (per quanto di malavoglia) da una persona che si prendeva ambiguamente cura di lui”.

Roth, comunque, non poteva lasciarsi scappare un’occasione così succulenta. Il Dott. Kleinschmidt, ribattezzato  Dott. Spielvogel, entra nel cast letterario del romanzo La mia vita di uomo[17] come titolare della stessa operazione poco deontologica del predecessore, spifferando i segreti della coscienza del proprio paziente, Peter Tarnopol. Per dir la verità il debutto di Kleinschmidt/Spielvogel era avvenuto anni prima nei panni dell’analista che ascolta, in silenzio, le confessioni di Alex Portnoy, limitandosi a pronunciare, alle fine del libro, con inconfondibile accento teutonico, le fatidiche parole: “Alora. Forse noi adeso potvemmo di incominciare. No?”. Il Lamento di Portnoy è infatti un lungo monologo psicoanalitico durante il quale il paziente confessa all’analista la sua vocazione onanistica, a cui fa seguito l’attrazione ossessiva per le “shikses” (le ragazze gentili, non ebree).

L’accorgimento consente a Roth di aggirare la struttura tradizionale del racconto e di procedere appunto, come vuole la prassi analitica, a ruota libera, per associazioni di idee e per “blocchi di coscienza”, come li definisce l’autore, senza rispettare l’ordine cronologico. A parte il fatto che il romanzo nasce in effetti come assemblaggio di blocchi narrativi diversi ed autonomi, che vengono via via pubblicati su importanti riviste. Portnoy scatena un’ondata di critiche dell’establishment ebreo a cui non andava quel prototipo onanista e lussurioso così lontano da altri modelli edificanti incarnati, ad esempio, da Anna Frank o dagli eroi del romanzo Exodus (1958) di Leon Uris. Tra le reazioni più accese, Bailey cita quella di del grande studioso di misticismo ebraico Gershom Scholem, secondo il quale Portnoy era “il libro per cui tutti gli antisemiti continuavano a pregare” mentre altri si spingevano ancora più in là, annunciando che avrebbe scatenato un secondo olocausto. L’intellettuale sionista Marie Syrkin considerava il romanzo “come il tipo di propaganda che avrebbe scaldato il cuore a Goebbels e Streicher”. Poi nel corso degli anni il rapporto si addolcì fino all’imprevedibile dichiarazione che apparve nel 2012 su un importante organo di stampa ebreo: “Oggi gli ebrei americani sono gli eredi più di Portnoy che della sua rigida comunità d’appartenenza. […] Oggi possiamo ridere perché non siamo più costretti a piangere”.

Tra le altre ragioni per cui Roth ammirava il collega Saul Bellow c’era appunto quella di aver emancipato gli ebrei dal clima  pietistico in cui erano di solito rappresentati. Mentre Bernard Malamud, l’altro rappresentante di quella che Truman Capote con l’abituale cinismo definì come la “mafia letteraria ebrea”, si era fermato a mezza strada creando, nei suoi romanzi, una sorta di manicheismo che Roth riteneva artificiale, in base al quale “l’ebreo è innocente, passivo, virtuoso” mentre il gentile è “corrotto, violento e lascivo”. Inutile dire che sia Bellow che Malamud finirono anch’essi nel laboratorio creativo del collega: entrambi nello stesso romanzo, Lo scrittore fantasma[18] nei panni rispettivamente di Abravanel (Bellow) e di Lonoff (Malamud).

Il rapporto con loro fu compromesso dall’eccessiva franchezza di Roth e dai giudizi taglienti sui loro romanzi che pure ammirava. Mentre con Bellow riuscì bene o male a salvare la situazione grazie ad un articolo molto elogiativo che gli dedicò sul “The New Yorker”, con Malamud la rottura fu definitiva, come dimostra la lettera che questi gli scrisse nel 1974: “Quando un uomo che sa leggere fraintende in modo così grave il lavoro e gli intenti di un altro scrittore allo scopo di giustificare i propri, quell’uomo ha un problema. Ora dubito seriamente che tu sia in grado di parlare della mia opera in modo onesto. È questo il tuo problema”. Quella lettera nasceva da una delusione talmente cocente che ebbe bisogno di diverse stesure prima di venire alla luce. Bailey le ha analizzate minuziosamente spulciando nel fondo “Bernard Malamud Papers” dell’Università di Austin (Texas), e ne trascrive le perle che vi si trovano, tra cui la seguente: “Come si suol dire, dagli amici mi guardi iddio, che dai nemici mi guardo io”. Le schermaglie fra colleghi non impedirono comunque allo scrittore di riconoscere l’influsso che due loro romanzi, in particolare, Le avventure di Augie March (Bellow)[19] e Il commesso (Malamud)[20] ebbero sulla conquista della ‘voce’ narrativa: “un miscuglio di linguaggio di strada e sofisticatezza letteraria” che avrebbe utilizzato, da Portnoy in poi, in tutti i suoi romanzi.

L’altro grande scrittore ebreo a cui Roth fu molto legato è Primo Levi. Si conobbero nel 1986 all’Istituto Italiano di Cultura di New York ove Levi si era recato per dare una conferenza. Dice Bailey che fra i due si stabilì subito una corrente di simpatia: “si intesero a meraviglia”. Pochi mesi dopo Roth si recò a Torino per un’intervista per il “The New York Times” e vi rimase per tre giorni. Levi accompagnò il collega a visitare la fabbrica di vernici dove aveva lavorato per tanti anni. L’intervista che sarebbe apparsa anche nella silloge Perché scrivere?, contiene delle annotazioni che denotano le singolari qualità di osservatore di Roth. Ne cito un paio. Ce n’è una che si riferisce all’aspetto esile e minuto di Levi, definito come una sorta di “brioso elfo”: “Nel suo corpo, e nel suo viso, si intravedono -a differenza di quanto accade nella maggior parte degli uomini- il viso e il corpo del bambino di un tempo”. Ed anche: “Non deve sorprenderci troppo il fatto che gli scrittori, come il resto del genere umano, si dividano in due categorie: quelli che ti sanno ascoltare e quelli che non ne sono capaci”.[21] Levi, precisa Roth, ma la constatazione vale per entrambi, appartiene alla prima. Al momento di congedarsi, si legge in Bailey, Levi abbracciò emozionato l’amico, dicendogli: “Non so quale di noi due sia il fratello minore e quale il maggiore”. Pochi mesi dopo, la notizia della morte lo colse come un fulmine a ciel sereno e gli causò un grande dispiacere.

Tornando ai personaggi della vita reale che Roth trasferisce nel terreno della finzione, il primato, quanto alla frequenza di apparizioni, spetta alla prima moglie, Maggie Martinson, il personaggio che ha lasciato più tracce nella sua scrittura. La donna si era insediata subdolamente nella sua vita grazie ad un diabolico stratagemma: gli fece credere di essere incinta, convincendolo così a farsi sposare, ricorrendo all’analisi dell’orina ottenuta a pagamento da una donna incinta conosciuta al Central Park. È l’episodio biografico riprodotto con maggior fedeltà; ritoccarlo, sostiene lo scrittore, avrebbe costituito un danno estetico ed un’offesa alla creatività di lei. Il ‘curriculum’ letterario di Maggie è di tutto rispetto: debutta, sempre con il suo fardello di falsa maternità, come Lucy in Quando lei era buona[22] e con lo stesso nome nella pièce teatrale The Nice Jewish Boy, a cui fa seguito la Josie de I fatti. In La mia vita di uomo compare addirittura nella duplice veste di Lydia Ketterer e di Maureen Johnson.

Se a Maggie spetta il primato statistico, quello poetico appartiene, a mio avviso, a Inga Larsen, la fisioterapista norvegese che si occupò dei terribili mal di schiena di cui soffriva lo scrittore e che lui non si poteva di certo far scappare. La loro relazione durò per ben diciotto anni e le valse il ruolo indimenticabile dell’“insaziabile Drenka” una sorta di fata del sesso che illumina quello che Roth ritiene, con ragione, il suo capolavoro, Il teatro di Sabbath. Lo scrittore conferma che Drenka è il ritratto fedele della fisioterapeuta e che il romanzo è un poema d’amore scritto in suo onore. Bailey afferma che durante le loro conversazioni, Roth accennava spesso alla grande libertà sperimentata nello scriverlo “nei suoi andirivieni dentro e fuori i pensieri di Sabbath, nel suo oscillare fra la prima e la terza persona, nel suo danzare sul filo tra pathos e ilarità”.

Il ‘saccheggio’ praticato così spesso sulle vite degli altri avrebbe potuto anche procurargli delle noie legali, il che fortunatamente non avvenne mai, anzi, nel caso di Portnoy, i suoi compagni di scuola furono entusiasti di debuttare come comparse, in un romanzo così famoso. Comunque prima di pubblicare Ho sposato un comunista dove appariva la seconda moglie Claire Bloom nel ruolo di Eva Frame, un’attrice fallita, fece controllare per precauzione le bozze da uno studio legale, allegando una “dettagliata disanima” della relazione esistente tra i personaggi del libro e quelli reali a cui si era ispirato, per sapere se era tutto in regola. Con Claire Bloom che tanti guai gli aveva procurato con Leaving a Doll’s House (secondo Harold Bloom gli fece perdere il Nobel) era meglio andare con i piedi di piombo.

Non poteva mancare nella biografia la sezione dedicata all’impegno politico a cui Roth riuscì a dedicarsi nonostante il tempo che occupavano la scrittura (trentun libri che gli valsero importanti riconoscimenti tra cui il National Book Award, per due volte, ed il Pulitzer) e le donne. Nel 1967 partecipò alle manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Nei primi anni settanta creò un fondo per aiutare gli scrittori dissidenti dell’antica Cecoslovacchia ed una collana (“Writers from Other Europe”) per far conoscere i loro libri negli Stati Uniti. In uno dei suoi viaggi a Praga fu fermato dalla polizia insieme ad un amico che lo accompagnava: nell’interrogatorio, questi, alla domanda perché Roth si trovava da quelle parti, rispose: “Non li leggete i suoi libri? Viene per le ragazze”.

Nelle primarie del 2008 dette il suo appoggio a Barak Obama: “È un uomo attraente, è intelligente e si dà il caso che sappia parlare benissimo”. Di tutt’altro genere le parole che dedicò a Donald Trump in un’intervista sul “The New Yorker” del 2017: “incompetente in fatto di governo, storia, scienza, filosofía, arte, incapace di esprimere o riconoscere qualunque sfumatura o sottigliezza, privo del benché minimo decoro, e in possesso di un vocabolario di settantasette parole di una lingua che, più che inglese, dovrebbe essere chiamata stronzese”. Diversi anni prima, nel 2004, nel romanzo Il complotto contro l’America, sembrava aver prefigurato, attraverso la distopica elezione nel 1940 di Charles Lindbergh come presidente (nella realtà le elezioni le vinse Franklin D. Roosvelt), l’avvento di un’epoca di demagogia, di manipolazione dei mass media e di isolazionismo (come non ricordare l’“America first” che Trump pronunciò più volte durante il suo insediamento nel gennaio del 2017?).

La foto è tratta dalla copertina della biografia di Bailey pubblicata dall’Editore Einaudi


[1] Blake Bailey, Philip Roth. La biografia, trad.  di Norman Gobetti, Einaudi, Torino 2022, pp. 1045.

[2] Sulla “shitstorm” che si è abbattuta su Bailey, vedi il capitolo intitolato Philip Roth e Blake Bailey. Due settimane di follia ad aprile e un libro al macero, nel libro di Costanza Rizzacasa d’Orsogna appena uscito, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana (Laterza, Bari 2022).

[3] C’era anche stata, a dir la verità, qualche recensione negativa: Laura Marsh, ad esempio, sul New Republic, scriveva che Roth aveva trovato in Bailey “un biografo straordinariamente allineato con la sua misoginia e che raramente ne mette in discussione la morale”.

[4] La Skyhorse rilevò l’autobiografia di Woody Allen, Apropos of nothing, dopo che Hachette vi aveva rinunciato in seguito ad una protesta dello staff.

[5] Vedi: Ringraziamenti, B. Bailey, cit., p. 954.

[6] Vedi a questo proposito il divertente libro di memorie di una ex coniglietta di Play Boy, Alice Denham, che in  Sleeping with Bad Boys (un elenco delle sue conquiste sessuali fra i più importanti scrittori americani del dopoguerra)  dice di Roth che era un “assatanato” e “un vero demonio sessuale”.

[7] Einaudi, p. 942.

[8] Claudia Roth Pierpont, Roth scatenato. Uno scrittore e i suoi libri, trad. di Anna Rusconi, Einaudi, Torino 2015.

[9] Lisa Halliday, Asimmetria, trad. di Federica Aceto, Feltrinelli, Milano 2018. È il racconto romanzato della relazione tra una giovane che lavora in una casa editrice ed un anziano scrittore di successo, relazione dietro cui si cela quella reale fra l’autrice e Philip Roth.

[10] Benjamin Taylor, Siamo ancora qui. La mia amicizia con Philip Roth, trad. di Nicola Manuppelli, Ed. Nutrimenti, Roma 2020. Taylor è l’amico che assistette Roth nelle ultime fasi della sua vita.

[11] Gaia Servadio, Raccogliamo le vele, Feltrinelli, Milano 2014.

[12] Livia Manera Sambuy, Non scrivere di me. Racconti intimi di scrittori molto amati: Roth, Ford, Wallace, Carver, Feltrinelli, Milano 2015. In occasione dell’ottantesimo compleanno dello scrittore, Livia Manera girò insieme a William Karel il documentario Philip Roth: Unmasked che fu proiettato nel 2013 con enorme successo per una settimana, al Film Forum di Soho (N.Y.), con la presenza dello scrittore e di un numeroso pubblico che gli fece gli auguri in diretta.

[13] Philip Roth, I fatti. Autobiografía di un romanziere, trad. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2013.

[14] Philip Roth, Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti. 1960-2013, trad. di Norman Gobetti, Einaudi, Torino 2018.

[15] Philip Roth, Patrimonio. Una storia vera, trad. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2007.

[16] Lamento di Portnoy, trad. Roberto C. Sonaglia, Einaudi, Torino 2005.

[17] Philip Roth, La mia vita di uomo, trad. di Norman Gobetti, Einaudi, Torino 2015.

[18] Lo scrittore fantasma, trad. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2015.

[19] Saul Bellow, Le avventure di Augie March, trad. di Vincenzo Mantovani, Mondadori, Milano 2020.

[20] Bernard Malamud, Il commesso, trad. di Giancarlo Buzzi, Minimun Fax, Roma 2017.

[21] Philip Roth, Chiacchiere di bottega, in Perché scrivere?, cit., p. 200.

[22] Quando lei era buona, trad. di Norman Gobetti, Einaudi, Torino 2012.

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