Dopo l’insuccesso del romanzo Senilità, pubblicato nel 1898, che segue il destino analogo di Una vita (1892), Italo Svevo (nom de plume di Ettore Schmitz) decide di accantonare le aspirazioni letterarie e di dedicarsi completamente al nuovo lavoro nella ditta dei suoceri. In quegli anni di silenzio, comunque, continua a “scribacchiare”, come confessa nel suo diario: “Io credo […] che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente. […] Insomma fuori della penna non c’è salvezza”.
Nel primo decennio del Novecento, si verificano due avvenimenti che avranno una grande ripercussione sulla sua vita e sulla sua scrittura: la conoscenza della psicanalisi attraverso la lettura delle opere di Sigmund Freud ancora sconosciute in Italia ma che lui aveva la possibilità di leggere nella lingua originale. Nel 1918 provò addirittura a tradurne una in italiano, Über den Traum che è un compendio semplificato della più nota L’interpretazione dei sogni. Ed il rapporto, iniziato nel 1906, con James Joyce che si trovava in quegli anni a Trieste dove esercitava la professione di “mercante di gerundi” alla Berlitz School.
Tra i suoi alunni si da’ il caso che ci fosse anche Ettore Schmitz: tra i due si stabilì presto una cordiale amicizia al punto che Joyce gli leggeva i Dubliners via via che li stava componendo e Svevo ricambiò facendogli omaggio dei due libri pubblicati. Per Senilità, soprattutto, Joyce ha parole molto lusinghiere che rassicurano naturalmente l’amico sulle sue qualità letterarie: “Lo sa che lei è uno scrittore ignorato? Ci sono dei passi […] che neppure Anatole France avrebbe saputo scrivere meglio”, gli disse un giorno prima di cominciare la lezione e poi, con grande sorpresa di Svevo, gliene citò alcuni passi a memoria. Qualche anno dopo, com’è noto, sarà proprio Joyce, grazie alle sue conoscenze, l’artefice, del successo internazionale de La coscienza di Zeno.
Il ‘letargo’ creativo si interrompe nel 1919, probabilmente pochi mesi dopo l’arrivo delle truppe italiane a Trieste, fino ad allora facente parte dell’Impero austro-ungarico. In quindici giorni “di forte travolgente ispirazione” Svevo scrive la storia di Zeno Cosini che poi riscrive, lavorandoci fino al 1922. La coscienza di Zeno è così pronta per la pubblicazione che avverrà, come per gli altri romanzi, a spese dell’autore.
L’editore bolognese, Licinio Cappelli a cui invia il romanzo per la pubblicazione si mostra interessato anche se lo giudica un po’ prolisso e quindi bisognoso di qualche ritocco. C’era poi il problema della lingua che aveva già sollevato, in occasione dei due romanzi precedenti, numerose perplessità. L’italiano di Svevo era una lingua di frontiera, ben lontano dalle norme dell’accademia e dai modelli in voga all’epoca, basti pensare ai toni altisonanti dello stile di Gabriele D’Annunzio. “La mia lingua – scrive nel Profilo biografico- non poteva adornarsi di parole [che] non sentivo. Non si può raccontare efficacemente che in una lingua viva e la [mia] lingua viva non poteva essere altra che la loquela triestina […]”.
Il gusto dell’editore che proprio in quegli anni stava pubblicando l’opera omnia di , Alfredo Oriani, curata nientemeno che da Benito Mussolini, andava naturalmente in un’altra direzione. Suggerisce a Svevo una “limatura accurata” del romanzo che lui, per la fretta di vederlo pubblicato (“sono molto vecchio e vorrei arrivare a vedere un po’ del mio successo”), accetta umilmente. Gli propone come correttore, Attilio Frescura, consulente letterario della casa editrice e giornalista del quotidiano bolognese il Resto del Carlino, avvertendolo però di stare in guardia perché il soggetto era “un critico dei più terribili”. “Al nome di un simile, severo e implacabile revisore – afferma Mario Lavagetto, uno dei più autorevoli esperti dell’opera di Svevo – non si può reprimere un brivido pensando che qualche anno dopo lo stesso Frescura scriverà un libro in cui indicherà il modello più compiuto, elegante e moderno di prosa italiana nello stile di Benito Mussolini”.
Svevo accetta obbediente “la limatura”, anzi, per snellire l’edizione, propone addirittura di togliere l’episodio della casa di cura (nel capitolo intitolato “Il fumo”) in cui il protagonista, Zeno, si fa rinchiudere per smettere di fumare. L’editore fortunatamente si oppone. Il dieci gennaio 1923 Svevo scrive a Frescura una lettera che a distanza di tanti anni intenerisce ancora per la sua umiltà e per l’atteggiamento remissivo nei confronti dell’interlocutore. In essa, tra le altre cose, si rammarica di “non conoscere meglio la mia madre lingua” e di non essere mai stato a Firenze dove avrebbe potuto perfezionarla. Con il risultato – conclude – che “la lingua italiana per me restò definitivamente quella che si muove nella mia testa isolata”.
Non poteva prevedere allora che anche grazie a quella lingua così agile ed originale aveva scritto uno dei romanzi più importanti del Novecento. La risposta di Attilio Frescura è all’altezza della fama di ‘critico terribile’. Esordisce riconoscendo a Svevo “il diritto di scrivere […] il che – precisa con spavalderia – io riconosco a pochi, oltre che a me stesso”. Poi passa ad esporre “con franchezza rude” le sue perplessità. Per quanto riguarda la trama, la giudica prolissa e “senza una conclusione logica”. Il protagonista, poi, gli sembra un uomo normalissimo, protagonista di “casi normalissimi, prolissimamente narrati, a scapito della snellezza del racconto” e non un nevrotico perennemente afflitto da dubbi esistenziali come vorrebbe farlo apparire l’autore. Per rimediare suggerisce di rimaneggiare l’ultimo capitolo, o addirittura di sostituirlo con un altro in cui si sminuisca l’attendibilità degli “alienisti” nelle cui grinfie è finito il personaggio.
Anche il finale lascia molto a desiderare: “Insomma – scrive Frescura- ci pensi su, e dia una conclusione logica al racconto, che così ne è senza”. Per la lingua, dice di aver fatto il possibile, ma con scarsi risultati, il romanzo sarebbe stato meglio riscriverlo di sana pianta. In realtà, come lo stesso Frescura avrebbe confessato ad un collega del Resto del Carlino incaricato di recensire La coscienza di Zeno, il suo intervento sulla lingua sarebbe stato del tutto inconsistente, il che a noi lettori, fa tirare un respiro di sollievo. Più preoccupante invece il consiglio di rifare l’ultimo capitolo ed il finale, possibilità auspicata anche dall’editore Cappelli in una lettera successiva in cui informa Svevo che il romanzo è già in tipografia ma che ci sarebbe stato comunque ancora il tempo per apportare dei cambiamenti “negli ultimi capitoli”.
A questo punto la situazione si fa più complicata perché l’apparente silenzio di Svevo ed i toni umili e remissivi delle lettere precedenti farebbero pensare al peggio: quelle che leggiamo sono le pagine originali scritte dall’autore o quelle rifatte secondo il suggerimento del correttore? Nell’ultimo capitolo, intitolato “Psico-analisi”, il protagonista, adottando probabilmente la strategia prevista e codificata da Sigmund Freud come “resistenza” del paziente all’analisi, spara a zero sui protocolli della terapia. Dice di averla interrotta perché la considera nient’altro che “un trucco buono per commovere qualche vecchia donna isterica”. Di quel “bestione” del dottor S. poi, che gli aveva consigliato di scrivere un diario come “preludio alla psico-analisi”, Zeno dice di averlo abbindolato con dei sogni fittizi, costruiti appositamente per fargli credere che aveva azzeccato la diagnosi edipica, quella individuata “a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: Avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre”.
Qualche critico ha visto in questo sberleffo di Zeno nei confronti della scienza freudiana, la volontà dell’autore di assecondare le indicazioni di Frescura circa l’opportunità di mettere in ridicolo la pratica psicanalitica. Si può obbiettare, comunque, per confutare tale sospetto, che l’atteggiamento dissacrante non è esclusivo dell’ultimo capitolo ma è una costante di tutto il romanzo. Basti ricordare la famosa Prefazione in cui il dottor S., violando tutte le leggi della deontologia, dichiara di pubblicare il diario del suo paziente per vendicarsi del fatto che aveva interrotto le sedute ma di essere disposto “a dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura”.
Frescura nella lettera accenna anche al finale del romanzo che non assolve, a suo giudizio, alla funzione di dare “una conclusione logica al racconto”. La Coscienza di Zeno come è arrivata sino a noi, si conclude con le elucubrazioni del protagonista riguardo alla “malattia” che non è, a suo avviso, prerogativa del singolo individuo ma della vita intera. È la vita stessa ad essere malata: “la vita attuale è inquinata alle radici” e “qualunque sforzo di darci la salute è vano”. L’unico rimedio potrebbe essere “una catastrofe inaudita” in cui vada distrutto l’intero pianeta, dopo la quale la terra “ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.
Purtroppo del romanzo non esistono manoscritti o dattiloscritti originali che ci possano chiarire la questione dell’integrità dell’ultimo capitolo: Svevo, racconta la moglie Livia Veneziani, “a mano a mano che correggeva, distruggeva la prima stesura” e poi la casa della famiglia a Trieste, dove era pensabile che lo scrittore conservasse le sue carte, andò completamente distrutta nel 1945 in un bombardamento dell’aviazione alleata. Ad ipotizzare l’ipotesi di un cedimento dello scrittore ci sarebbe purtroppo anche il caso, questo ahimè reale e documentato dall’epistolario, dell’atteggiamento di Svevo di fronte alla decisione presa nel 1926 dall’editore (Gaston Gallimard) della versione francese del romanzo di tagliare un centinaio di pagine. Svevo, sempre impaziente e preoccupato di non vivere abbastanza a lungo per vederlo pubblicato, fece, come si suol dire, buon viso a cattiva sorte. Scrisse al traduttore, Paul-Henri Michel, che gli aveva comunicato la volontà dell’editore, di accettare, pur a malincuore, i tagli convinto che “dalle Sue mani una cosa mutilata uscirà tuttavia intera e anzi migliorata”. Va detto comunque che la fretta di Svevo era in questo caso giustificata in quanto questa volta le sue funeree ed ipocondriache previsioni si sarebbero avverate nel giro di un paio di anni, esattamente il 12 settembre 1928.
Il mistero sull’autenticità dell’ultimo capitolo è stato svelato, nell’aprile del 2021 da una autorevole studiosa di Svevo, Beatrice Stasi, che ha scoperto nell’archivio della Fondazione Primo Conti di Fiesole il tassello mancante allo scambio epistolare fra lo scrittore ed il revisore: una lettera del 15 febbraio 1923, sfuggita fino ad allora alle ricerche in quanto catalogata erroneamente fra la corrispondenza di un altro destinatario, in cui Italo Svevo risponde a quella precedente, del 9 febbraio, di Frescura. Chi scrive è, sorprendentemente, una persona del tutto diversa: più sicura e decisa e soprattutto più consapevole del valore della sua opera messo in discussione dall’interlocutore.
Svevo esordisce, diplomaticamente, assicurando di non sentirsi offeso dalle critiche ricevute, ma subito dopo inizia a smontarle. La sua lingua, afferma, è quella che il “destino” gli ha assegnato in quella lontana periferia del paese ma che la considera comunque una varietà di italiano con altrettanta dignità delle altre. Vi sono scrittori, continua, che si spacciano per puristi, e poi “vivono di francesismo” utilizzando cioè locuzioni transalpine. L’accenno è una probabile allusione a Frescura che nel suo romanzo, Diario di un imboscato, che Svevo aveva letto per ingraziarselo, fa abbondante uso di gallicismi.
Ma dove lo scrittore reagisce più energicamente, diventando addirittura aggressivo, è alle critiche espresse sulla costruzione narrativa della Coscienza. “Non sono assolutamente convinto – scrive- ch’Ella abbia ragione circa lo svolgimento del romanzo. Mi resta il dolore che un italiano della Sua levatura l’abbia frainteso. Non è un malato il mio, ma un tipo. Però il suo sentimento di essere malato è più vero di quanto possa sembrare a chi non conosce gli studi del Freud e della sua scuola”. Un’altra frecciata rivolta, in questo caso esplicitamente, all’ignoranza di Frescura sull’argomento. Così è lo stesso Svevo che è costretto a fornirgli la chiave di lettura del romanzo che evidentemente all’altro era sfuggita: la perenne ambiguità del protagonista, definito dall’autore come “uno strano uomo che senz’accorgersene (nel penultimo capitolo) spinge alla morte un suo amico dopo averlo spinto alla rovina”. Il ‘doppio gioco’ praticato abitualmente dalla coscienza di Zeno, ha in questa occasione come destinatario il cognato, Guido Speier, che il nostro personaggio, forse senza esserne pienamente consapevole, detesta perché gli ha soffiato Ada, la donna di cui era innamorato. Questa, dopo il suicidio del marito, si fa portavoce dello scrittore spiegando a Zeno, che ascolta stupefatto, come stavano realmente le cose, cioè che aveva sempre “odiato Guido e [gli era] stato accanto, assiduo, in attesa di poter colpirlo”.
L’autodifesa di Svevo si conclude con una dichiarazione perentoria, “Pubblico risolutamente il romanzo come sta. Sono vecchio e desidero di spingerlo all’aria per non pensarci più”, che mette a tacere ogni sospetto (qualche studioso lo aveva avanzato) sull’integrità testuale dell’ultimo capitolo e soprattutto affranca lo scrittore, afferma Beatrice Stasi, “dalla scomoda posizione genuflessa nei confronti del suo più giovane correttore in cui il testo della prima lettera lo aveva immortalato”. La lettera, pubblicata inizialmente sul Corriere della Sera, è apparsa, qualche mese dopo, in un contesto filologicamente più pertinente, il Giornale storico della letteratura italiana, inserita in un articolo di Beatrice Stasi, intitolato appunto “Pubblico risolutamente il romanzo come sta”: tre lettere inedite di Svevo e il finale della Coscienza di Zeno, corredata da un esauriente ricostruzione di tutta quella curiosa vicenda epistolare.
Foto: Italo Svevo