Questo lavoro del lettone Gines Zibalodis , 30 anni, che a Cannes 2024 (preceduto nel 2019 dal suo già apprezzato Away) è stato proiettato con grande ammirazione nella sezione Un Certain Regard , è un film che spettina e pone interrogativi non da poco, lasciandoli “fluttuare” ((flow appunto) liberi e inquietanti nelle pieghe del nostro immaginario e simbolico. Con spunti impensabili prima di accostarvisi. A cominciare dal fatto se Flow possa ancora considerarsi un film di animazione o se il termine per esso è ormai riduttivo sia per il modo che per i contenuti con cui è fatto. Disney o Marvel, o il canone stesso del genere, definiva infatti un’animazione antropomorfa degli animali e se l’animazione era invece precipuamente umana, neanche questa qui avviene, perché gli umani sono scomparsi, come pure gli animali non scimmiottano gli uomini. Anzi non vi sono proprio parole , nessun dialogo, ma la comunicazione e i suoni sono solo quelli dei versi degli animali che miagolano , o abbaiano, squittiscono o sono fermi nella loro postura regale per prendere il volo verso l’infinito. E questi versi sono riprodotti inseguendo caparbiamente il massimo di fedeltà , anche se si intuisce la magnifica elaborazione della postproduzione. Ma sia in questo che negli effetti visivi si è lavorato in modo artigianale, e comunque geniale, come le cuciture volutamente in evidenza di certi capi firmati.
Venendo ai protagonisti , non a caso quello principale è il gatto, un comune gatto nero. E la figura del gatto è davvero qui onnipresente, in statue enormi come colline , o più piccole, in pitture , disegni, o bassorilievi. Perché Zibalodis ha scelto questo felino ? E’ un fatto che nella famosa “mezzaluna fertile”- culla primaria della civiltà umana irradiatasi dall’ Egitto a Libano, Siria, Mesopotamia e ai popoli semitici ed aramaici che l’hanno abitata- il gatto non a caso era adorato come divinità. Il gatto è l’unico animale domestico che si muove nella casa in cui entra come un padrone. E’ l’animale più ulisside che ci sia, col suo adattamento e le sue cadute dove non si sfracella mai, che è piccolo , ma si gonfia a dismisura, che è elegante, ma anche buffo, nelle sue centinaia di espressioni, non sopporta l’acqua , ma è capace non solo di fluttuarvisi, ma di immergervisi prendendo pesci e scoprendo nuove realtà, e diventa pure molto empatico (provare per credere).
E proprio il gatto diviene egemone felpato di un particolare quintetto di animali in un’affascinante odissea , dove non a caso si utilizza l’unico manufatto che rimane della specie umana nello scenario del film , la barca ( anch’essa qui in tante versioni) che salva dai flutti e fornisce riparo Ma l’ interessante vis etologica di Zibalodis si evidenzia nell’assemblare i compagni d’ avventura del micio nero. Il suo partner più attivo si dimostra un lemure femmina, endemico del Madagascar, ci torneremo alla fine, ma intanto cominciamo a osservare che appartiene alle specie dei progenitori degli attuali primati più evoluti da cui discende l’uomo, e non a caso è il primo animale che il gatto trova nella barca quando vi approda fortunosamente , e lo trova con uno specchio in mano (sul cui significato ci si interrogherà alla fine) e con altri manufatti che conserva e prova , riprova e manipola. Il terzo partner è un golden retriever che si comporta come tale : socievole, un po’ giocoso, a volta ingenuo, ma fedele. Il quarto è un uccello, imponente bianco elegante sagittarius serpentario, endemico dell’Africa Centro-meridionale, simile a un gabbiano più potente, quasi un’aquila, dalle lunghe gambe da trampoliere ma costretto a cercare riparo nella barca, in quanto, ferito , non può ancora volare col suo stormo e cacciare. Il quinto è un capibara tutto musone piatto, areale del Sud America, simile al porcellino d’India, roditore pigro e gregario, anzi il più grande roditore vivente sul pianeta : anch’esso sarà evidentemente utile per l’equipaggio in partenza.
Zibalodis descrive un diluvio universale distopico, posteriore a una già avvenuta scomparsa della specie umana, autodistruttasi con le proprie mani probabilmente per via nucleare e/o da totale catastrofe climatica e desertificazione delle risorse necessarie alla vita della specie. Gli animali su quest’ Arca post- homo-sapiens hanno nella loro natura una valenza simbolica assegnata loro dall’ autore in base alla sua particolare visione. Tanto per cominciare sono qui davvero “sulla stessa barca”. E , prima decisiva innovazione, sono rappresentati non nella prospettiva antropomorfa delle altre animazioni, ma come veri animali , e assoggettati quindi alla “struggle for life” in cui prevarrebbe solo l’istinto di sopraffarsi l’uno l’altro.
E infatti agli inizi della sua avventura il micio s’imbatte in un branco enorme di cani ululanti che lo vogliono sbranare a tutti i costi e si salva per un pelo , come poi , in una scena perturbante che si replicherà anche alla fine, incorre in un’orda dirompente di alci che percorrono in modo tellurico la pianura prima e dopo l’alluvione. travolgendo tutto e tutti , funesto inquietante segnale degli spiriti animali più feroci e distruttivi. Lo stesso uccello sagittario è ferito per un’aggressione del suo capo stormo con cui ha lottato , e avuto la peggio , mentre cercava di dare il suo pesce al micio, e l’istinto della specie invece glielo negava. Ma pur nei loro condizionamenti di specie , questi compagni di viaggio così eterogenei, sembra che mettano in atto, per prove ed errori, invece proprio un’ eterogenesi dei fini , nella ricerca di unico vero possibile istinto di sopravvivenza per tutti loro : o ci si salva tutti assieme o si affonda tutti. Quel vero necessario istinto che l’ homo sapiens non è stato in grado di seguire ed applicare.
Davanti allo sguardo dello strano quintetto sulla barca, trascorre via via un paesaggio in cui tracce di umano , oltre ai simulacri di gatti e centinaie di barche alla deriva o appese nei punti più alti – forse segnali di boe estreme- sono architetture che richiamano lo stile bizantino -veneto, assieme a monoliti totemici e a colonnati con capitelli greco-romani, qualche guglia di campanile spunta dall’ acqua. Ogni tanto, dalla quasi totale sommersione, emergono con balzi improvvisi e violenti che terrorizzano il micio, enormi e spaventose orche che poi si rituffano presto in profondità.
C’è poi un momento cruciale quando la barca entra in una tempesta tremenda e si rovescia , e qui Zibalodis , s’inventa , senza affidarsi a sofisticati effetti speciali – ma con efficacia visionaria e poetica- una specie di Odissea nello spazio terraqueo, al suo acme in un tunnel spazio-temporale analogo al capolavoro di Kubrick del 1968. In Flow il tunnel si manifesta con una serie di spirali alla Vertigo, in cui, invece dell’astronauta risucchiato nello spazio oscuro, il sagittarius, l’animale dai tratti e postura più nobilmente distintosi nella barca, entra come in una dimensione di arcobaleni sovrapposti , ora di nuovo capace di volare, libero verso dimensioni vocazionali alla sua essenza di creatura d’aria.
In aggiunta avviene un altro colpo di scena grandioso , reso con effetti che , pur guadagnando in espressività , vogliono mantenere la loro onestà artigianale d’autore : le acque del diluvio cominciano a defluire ed emergono così prepotenti le cime degli alberi più alti coi rami protesi a magiche braccia che si son fatte largo dal profondo. E’ un tripudio di efflorescenza spettacolare, che evoca il ritorno della natura al suo cuore verde più profondo, quello della foresta che riprende a pulsare nel suo insostituibile respiro e linfa vitale.
A questo punto gli ex compagni di queste peripezie sulle acque del diluvio si ritrovano sulla terraferma . Il sagittario è volato via verso i suoi cieli elettivi , ora sono rimasti in tre : il micio, il golden retriever, il capibara. Manca il lemure femmina. La ritrovano ai piedi delle rovine di un immenso teatro romano , ha sulle spalle un cucciolo, che è come una sua minuscola miniatura pelosa, e attorno una folla di centinaia e centinaia di lemuri , a maggioranza anch’esse con cuccioli sulle spalle, con le stesse tinte grigie e la coda ad anelli neri e grigi, grande e vaporosa come la sua, con la quale il micio giocava sulla barca. Questa popolazione di proto-primati, tra le prime comunità sulla terra a dominante matriarcale, ora abita quelle vestigia come fossero la loro dimora da sempre. La loro città. Forse anche necropoli. O tempio.
Il lemure teneva sempre lo specchio, come già sulla barca. Ora questo si è incrinato. Non sappiamo se Zibalodis abbia letto Lacan , la sua fase dello specchio. Né sappiamo se fosse a conoscenza della grande scoperta dei primi anni ‘90 , fatta dal neuro-scienziato Giacomo Rizzolatti e della sua equipe parmense , dei neuroni specchio. Ma questa insistenza sulla fase dello specchio è troppo forte e ricorrente per tutto il film perché non trapeli un’idea -guida alla base di questa insolita innovativa creazione per immagini in movimento. Non conosciamo se ci sia una particolare ispirazione filosofica o scientifica nel giovane autore lettone, ma possiamo pensare che quella artistica lo ha condotto , come succede, ad essere il mediatore intuitivo , antenna sensibilissima che capta una realtà affascinante e feconda in divenire, o una possibilità, per riflettere attorno a una nostra evoluzione o involuzione alternativa e come può intrecciarsi a quella delle altre specie animate in un futuro lontano e vicino. Specie che possono rimettere in moto un processo evolutivo, con un’intelligenza e una creatività indipendenti dall’ homo sapiens e dall’ intelligenza artificiale da lui fin qui creata ed applicata. E magari l’embrione di una spiritualità e visione panteistica, forse di un nuovo deus, sive natura . O forse una specie di viventi senza storia e memoria. Magari qui il brillio indistinto di una luce inattesa , e possibilità di usare la mdp. per aprire a una dimensione inesplorata di immaginario e simbolico di fare un cinema al di là della I.A. e degli effetti speciali tonitruanti. E cominciare a guardarci dentro l’essenza profonda e non virtuale della nostra realtà. Questa faccenda dello specchio viene ancor più avvalorata e ci interroga proprio dalle ultime sequenze del film : il micio vede all’ultimo il lemure con lo specchio, ma ora lo osserva dal basso in alto stare in cima all’enorme scultura totemica di gatto , ben seduto su una piega di essa, ed è contornato ai suoi due lati da una schiera di lemuri come lui, che hanno tutti uno specchio in mano e vi si riflettono con molta concentrazione. E infine il micio e i suoi due compagni di avventura giungono per bere a un piccolo laghetto d’acqua dolce piovana, siamo in piena luce e bevendo vedono riflessa nitida la loro immagine, vedono i loro occhi, e vedono che ognuno guarda tutti e viceversa. E si stupiscono grandemente. E rimangono così fissi, concentrati per tutti i titoli di coda.
1968 : Stanley Kubrick , l’alba dell’uomo. 3.068 : L’alba di………..?.
P. S. : Flow ha vinto nel 2024 ad Annecy, il più grande festival internazionale del cinema di animazione, i seguenti premi : Premio della Giuria; Premio del pubblico; Premio per la miglior musica originale a Gints Zibalodis e Rihards Zalupe ;
La Lettonia lo ha selezionato per concorrere al Premio Oscar 2025 come miglior film internazionale , quindi di fatto superando la riduzione di Flow alla sola categoria di “film d’animazione”.