
Landi Renzo, l’azienda del presidente dell’Associazione industriali, condannata per condotta antisindacale. Il giudice ha dato ragione alla Cgil, assistita dall’avvocato Bruno Pezzarossi: il decreto scardina la strategia delle trattative separate. Il sindacato vince una battaglia contro Stefano Landi, ma la partita supera i confini reggiani e non è ancora finita. Ecco perché sul piatto c’è molto di più di una vittoria in tribunale.
C’è innanzitutto da sgombrare il campo da un equivoco relativo al braccio di ferro che ha contrapposto il principale sindacato italiano al presidente dell’Associazione industriali: Stefano Landi non è più “colpevole” degli altri imprenditori che applicano indistintamente il contratto in vigore. La Cgil ha scelto di trascinare lui e non altri davanti al giudice per una ragione politica. Non lo hanno nascosto i vertici del sindacato, spiegando che si è scelto come “obiettivo” proprio Landi per la carica che ricopre, quindi per ciò che rappresenta. “E’ insostenibile che il presidente degli Industriali reggiani subisca una condanna del genere” ha detto Valerio Bondi, segretario provinciale della Fiom, chiedendo subito dopo di aprire un tavolo di confronto.
Il giudice del lavoro Alessandro Gnani ha ritenuto antisindacale l’applicazione agli 85 lavoratori iscritti alla Fiom del contratto nazionale di lavoro del 2009. Contratto che, a differenza di Fim (Cisl), Uilm (Uil) e Ugl, non è stato sottoscritto dalla Fiom. Il giudice ha “censurato” anche il principio del silenzio-assenso relativo alla quota-contratto: salvo esplicito diniego, i lavoratori non iscritti ad alcuna organizzazione sindacale si vedevano prelevare dalla busta paga 30 euro da devolvere a Fim e Uilm. L’azienda si trova ora in una situazione obiettivamente molto difficile: come gestire dipendenti che svolgono la stessa mansione con contratti, quindi con diritti diversi? Con il decreto, infatti, il giudice non ha stabilito che tutti i lavoratori devono avere il contratto di lavoro del 2008.
Cosa accade ora? Landi può impugnare il decreto e avrebbe davanti a sé non tre ma quattro gradi di giudizio. Il problema è che da Reggio partito un effetto valanga: la Fiom in tribunale ha vinto battaglie analoghe a Modena, a Torino, a Tolmezzo. E, tornando a casa nostra, la Comer del vicepresidente nazionale di Federmeccanica Fabio Storchi è al centro di un caso molto simile. Il problema non è di natura esclusivamente normativa, è molto più complesso: sul tavolo ci sono le norme che regoleranno di qui ai prossimi anni i rapporti di lavoro, le tutele dei lavoratori, la competitività delle imprese, i livelli occupazionali.
Le sentenze di oggi sono l’ultimo capitolo di un decennio che ha visto andare in crisi l’unità sindacale: gli anni 2000 hanno inaugurato la stagione dei contratti separati e il settore metalmeccanico è stato quello lacerato dagli scontri più aspri, ma anche altri settori tradizionalmente unitari (come quello dei chimici) sono diventati terreni di scontro.
C’è un dato sul quale sono quasi tutti concordi: il mondo del lavoro è cambiato. La crisi, la sfida costante dei Paesi emergenti, i limiti del sistema-Italia hanno messo di fronte organizzazioni sindacali e imprenditori a problemi enormi. I contratti collettivi sono adeguati ai tempi? Quali diritti sono negoziabili e quali non possono essere gettati sul tavolo della trattativa?
Sono interrogativi che riguardano il mondo del lavoro in generale, non solo le tutte blu. Il caso Teleperformance, di cui si è parlato molto in questi giorni, mostra come il problema del lavoro sia vasto e complesso: la multinazionale francese dei call center ha varatro un piano di ristrutturazione aziendale, che prevede 1.464 esuberi tra le filiali di Roma e Taranto. Contemporaneamente verranno aperte 700 nuove postazioni in Albania, che svolgeranno attività su commesse italiane. Lo spettro della delocalizzazione è stato agitato anche dall’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne quando in ballo c’era il voto dell’accordo per lo stabilimento Fiat di Mirafiori: “Produrre in Italia? Non conviene più” dice Marchionne.
Le aziende di casa nostra non sfuggono alla tendenza a portare la produzione all’estero, nei Paesi dove il costo del lavoro è inferiore oppure più vicino ai mercati di riferimento per abbattere i costi di trasporto: un esempio per tutti, la Graniti Fiandre di Castellarano – azienda leader nella produzione di grès porcellanato, che esporta in tutto il mondo – nel 2003 ha aperto uno grosso stabilimento a Brandeburgo, in Germania, che servirà l’Est e il Nord Europa; la stessa azienda negli ultimi anni ha concluso accordi di joint-venture in Brasile ed Egitto. Altre aziende del distretto ceramico e non solo quelle hanno adottato politiche analoghe.
Allo stesso tempo permane in Italia un gravissimo problema occupazionale e non mancano in alcune realtà situazioni ai limiti della legalità: si tratta di comportamenti – in aumento a causa della crisi e di organi di controllo non sempre attenti – che vanno a danneggiare sia i lavoratori che i concorrenti che rispettano le regole.
“La strategia degli accordi separati porta in un vicolo cieco anche le imprese,” dice il segretario provinciale della Cgil Mirto Bassoli e l’esito della causa a Landi sembra dargli ragione. Ma non sarà una sentenza a sciogliere le questioni epocali che stanno interessando il mondo del lavoro.