Biden, Trump e l’immigrazione: la posta in gioco è la Casa Bianca

Saggio di Stefano Luconi e Matteo Pretelli sui rischi della “fortezza America”

La mamma di Donald Trump era originaria di Tong, un minuscolo villaggio scozzese, e il nonno era nato a Kallstadt in Baviera. Gli antenati di Joe Biden provenivano,invece, dalle isole britanniche: “In America ognuno viene da qualche altro posto, persino i nativi americani, anche se da molto più tempo rispetto agli altri”.

Questo  l’attacco molto efficace di un recente editoriale dell’Economist,  che qualche mese fa ha dedicato una copertina al ruolo cruciale del tema immigrazione alle elezioni presidenziali americane del 5 novembre 2024. Tutti sono immigrati nel Paese dell’accoglienza, e almeno 160 milioni sono gli adulti che in tutto il mondo dichiarano che ci andrebbero, se avessero la possibilità di farlo, calcola ancora il settimanale britannico: “Cioè molti milioni più di quelli ai quali  la maggioranza degli americani sono disposti ad aprire le porte”.

Al di là dei guai giudiziari di Trump e di quelli geostrategici di Biden, i due contendenti si giocheranno la Casa Bianca anche su come bloccare la massa degli arrivi illegali.  Il primo vinse le elezioni del 2016 promettendo interventi draconiani.  Cominciò accelerando  la costruzione del muro e degli sbarramenti al confine con il Messico avviata con il Secure Fence Act del 2006 e andò avanti  infittendo i ranghi della polizia di frontiera e degli altri, più o meno privati, vigilantes, separando i figli dai genitori, introducendo rapide procedure di arresto e deportazione per gli illegali, rendendo più difficili e infinitamente più lunghe le procedure per le richieste di asilo, promuovendo la politica del “remain in Mexico” con le autorità locali. Senza parlare delle misure al limite della violazione dei diritti civili decise durante la pandemia. La più importante pressione migratoria veniva dai paesi centro e sud-americani e riguardava prevalentemente persone che fuggivano alla violenza e alla repressione. Come tanti venezuelani colpiti dagli eccessi della dittatura.

Joe Biden conquistò la Casa Bianca nel 2020 con l’idea di smontare tutti i provvedimenti del predecessore, contando sul 66% degli americani che allora consideravano l’arrivo degli immigrati una opportunità per l’economia americana. Poi però si accorse che la situazione  ai confini meridionali diventava del tutto ingestibile, se non si scoraggiavano le masse dei richiedenti asilo. Il consenso dell’elettorato dipendeva dalla capacità del governo di regolare, ridurre, mettere in sicurezza l’immigrazione.  

La situazione è andata sempre più complicandosi. L’illegalità è cresciuta (via via che si profilava la candidatura del tycoon  e  il suo vantaggio nei sondaggi) e le richieste pendenti hanno raggiunto quota 400mila, così l’inquilino democratico della Casa Bianca è diventato più prudente. Il muro non era più da smantellare, semmai da completare, e le concessioni ai rifugiati si sono assottigliate.

Di fronte alla paralisi del Congresso, incapace di modificare la legislazione in modo bipartisan (l’ultimo tentativo fallito nel 2013) , prima è riuscito a far passare nuove misure inserendole nel piano di aiuti all’Ucraina: 118 milioni di dollari per una legge che prevede regole più rigide sulle richieste d’asilo. “Renderà gli Stati Uniti più sicuri, i confini più sicuri e le persone più tutelate e trattate in modo più umano – ha commentato Biden – e allo stesso tempo preserverà l’immigrazione legale secondo i valori del nostro Paese”.   

All’inizio di giugno, ha poi ordinato  il blocco dei richiedenti asilo che hanno superato il confine illegalmente, a meno che non abbiano fatto prima richiesta di appuntamento attraverso l’app CBP One o siano passati attraverso altri canali legali. “Il governo fa ciò che non fa il Congresso e cioè una riforma sostanziale dell’immigrazione”, questa la giustificazione ufficiale.  Biden è stato drastico: non bisogna trasformare il problema in arma elettorale.

Sono gli ultimi episodi di una storia dell’immigrazione negli Usa  che ha visto alternarsi posizioni securitarie e aperturiste, xenofobe e compassionevoli, in un conflitto permanente fra gli Stati del Sud e il governo federale. Tutto questo in un Paese che ha fatto dell’accoglienza la sua bandiera e la sua fortuna.

In generale, “se risulta assai intransigente la posizione dei repubblicani, con tutti i distinguo del caso i democratici si sono posti in termini più concilianti rispetto alla presenza di immigrati , anche in virtù del fatto che il loro elettorato è in maniere crescente costituito proprio da “non bianchi”, scrivono Stefano Luconi e Matteo Pretelli, docenti di Storia degli Stati Uniti rispettivamente a Padova e a Napoli, autori di un saggio “Nazione di immigrati” o “fortezza America” – Gli Stati Uniti e le minoranze etniche del XXI secolo, edito da Mondadori Università.

Il saggio ricostruisce in modo approfondito le politiche dei presidenti americani negli ultimi vent’anni, da George W.  Bush a Joe Biden e costituisce un contributo prezioso per capire la società americana e i suoi umori alla vigilia del voto di novembre.“Il mutamento della posizione di Biden sul cosiddetto muro era la manifestazione più appariscente e recente del continuo oscillare degli Stati Uniti tra il ritenersi una “nazione di immigrati” o il volersi  trasformare in una “fortezza chiusa” ai nuovi arrivati”, scrivono i due storici.

Una dato di fatto che emerge dall’ analisi statistica, politica e sociologica è che l’aumento del nativismo e del restrizionismo segue l’andamento del ciclo economico, che in periodi recessivi alimentano paure di perdere il posto di lavoro a favore di nuovi venuti. O è la conseguenza di emergenze nazionali, come quella del terrorismo, che spingono i cittadini a considerare i nuovi arrivati come potenziali minacce. Così come risentono degli atteggiamenti xenofobi che riemergono in occasione di conflitti come il massacro di Hamas  e la guerra a Gaza.

Oggi – spiegano i due autori – si aggiunge l’impatto di una situazione, quello dei profughi in fuga dalla repressione politica, che aumenta il problema degli ingressi illegali a fronte di “limiti di politiche securitarie che non tengono conto della trasformazione del fenomeno nel corso dei decenni”.  Tuttavia  proprio l’assenza di una normativa più aggiornata e la xenofobia – concludono – può  avere effetti controproducenti perché blocca anche l’arrivo di forza lavoro intellettuale e qualificata giovane, che aiuta a frenare l’invecchiamento della nazione e permette di restare competitivi soprattutto nei confronti dei  paesi asiatici”.  

Foto: il viaggio di Trump in Texas

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