Anniversari: Beppe Fenoglio uno scrittore partigiano

Nel centenario della nascita l’opera completa pubblicata da Einaudi

Non si è ancora spenta l’eco della monumentale commemorazione del settimo centenario della morte di Dante Alighieri (1321), a cui si è aggiunta, sempre nello scorso anno, quella della nascita di Leonardo Sciascia (1921) che una serie di altri anniversari hanno invaso il panorama culturale italiano: la morte di Giovanni Verga (1922), la nascita di Pier Paolo Pasolini e di Beppe Fenoglio, entrambi nati nel 1922.

Per il centenario di quest’ultimo Einaudi ha riproposto l’intero corpus dello scrittore con nuove introduzioni d’autore: Il partigiano Johnny (a cura di Gabriele Pedullà), Una questione privata (a cura di Nicola Lagioia), I ventitre giorni della città di Alba (Davide Longo) e l’edizione ampliata delle Lettere a cura di Luca Bufano. Sempre da Einaudi, una nuova edizione di Questioni private di Piero Negri Scaglione, la prima biografia dello scrittore. Il Centro Studi Beppe Fenoglio di Alba ha inoltre organizzato un vasto programma di eventi intitolato “Beppe Fenoglio 22: Cent’anni di Beppe”, iniziato lo scorso mese di marzo.

In una pagina del suo Diario lo scrittore piemontese scriveva a proposito della sua sepoltura: “basterà il mio nome, le due date che sole contano e la qualifica di scrittore e partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello”. Previsione eccessivamente pessimista: a distanza di tanti anni, Beppe Fenoglio, nonostante la sua scomparsa prematura ed il suo carattere umile e schivo, è considerato uno degli scrittori italiani più importanti del secolo scorso e soprattutto quello che ha saputo offrire della Resistenza l’immagine meno stereotipata.

Dopo la sua morte sono stati i filologi ad occuparsi delle opere che lo scrittore non se l’era sentita di pubblicare e che aveva lasciato incompiute, come il romanzo Il partigiano Johnny. Si tratta di un voluminoso scartafaccio a cui aveva lavorato, facendone diverse stesure, nel decennio degli anni cinquanta, in cui si narrano le vicende, di chiaro sapore autobiografico, di un giovane studente di letteratura inglese che nel 1943 decide di unirsi, come fece appunto lo scrittore, ai partigiani che combattono sulle colline delle Langhe. Con il nome di battaglia di Johnny (era il soprannome che aveva dato a Fenoglio la professoressa di inglese del liceo) partecipa alla Resistenza contro le bande della Repubblica di Salò che volevano ripristinare la dittatura di Benito Mussolini.

È un’epopea, la sua, costellata di incursioni, di agguati, di fughe, di lunghe veglie all’addiaccio per sorprendere il nemico. Uno dei nuclei narrativi più consistenti (ben 4 capitoli) riguarda la conquista di Alba, la città natale di Fenoglio, che i partigiani non sanno però mantenere e che sono costretti a cedere dopo appena 23 giorni alle milizie fasciste. L’episodio era già apparso in uno dei pochi racconti pubblicati in vita, appunto I ventitre giorni della città di Alba, il cui tono ironico e disinibito, tutto concentrato sull’azione, aveva allarmato i quadri del Partito Comunista che accusarono Fenoglio, sul quotidiano L’Unità, di aver compiuto una “cattiva azione” nei confronti della Resistenza che andava trattata, a loro avviso, con ben altro rispetto. Il fatto è che il racconto della guerra partigiana di Fenoglio è assai lontano dall’agiografia ufficiale in voga nel dopoguerra: è un’epica narrata con schiva sobrietà e soprattutto con il ritmo incalzante di un romanzo di azione. Un modo ‘laico’ di affrontare la Resistenza privilegiando la trama anziché l’ideologia, e senza fare ricorso, fatto pressoché inedito nella letteratura italiana, ai miti della memoria e dell’infanzia come aveva fatto il suo conterraneo Cesare Pavese che aveva trasformato le Langhe in territorio mitico del passato.

La vera novità del romanzo è comunque il linguaggio. Occorre tenere presente che Fenoglio apparteneva ad una generazione di italiani la cui lingua d’uso era il dialetto, in questo caso il piemontese; l’italiano era un idioma artificiale, appreso sui libri e per di più, durante il “ventennio”, era stato strumento della propaganda e della mistificazione fascista. Fenoglio aggira l’ostacolo in modo assolutamente originale come confidò in una giornata non meglio precisata del 1956, in un bar di Alba, all’amico Italo Calvino: “Adesso ti dirò una cosa che tu non crederai: io prima scrivo in inglese e poi traduco in italiano”.

Il romanzo sarebbe quindi una ‘traduzione’ dall’inglese, con tutti i benefici di sobrietà e di agilità narrativa che garantisce un’operazione del genere. Il fascino per l’inglese lo aveva sedotto già prima di studiarlo all’università. Scrive Dante Isella che “l’incontro con l’inglese, sui banchi di scuola, ha per lui il valore di una rivelazione; è la scoperta […] di una lingua magica, di un «apriti Sesamo» con cui avventurarsi in un mondo tutto suo, più affascinante e più degno della realtà che gli sta intorno”. Lo stesso clima di libertà che aveva respirato, anni prima, Cesare Pavese nelle pagine degli amati scrittori americani, consentendogli di evadere dalla asfittica autarchia letteraria dell’epoca.

Essendo, come si è detto, Il partigiano Johnny  un romanzo incompiuto, è impossibile immaginare la configurazione definitiva che gli avrebbe dato l’autore: la lingua, comunque, così come è arrivata a noi, è effettivamente una lingua “magica”, inventata, dove affiorano ‘macchie’ costanti dell’inglese, sopravvissute probabilmente dalla redazione originale: a volte si tratta di brevi inserti per fissare una sensazione (vedi il  “Johnny fell in abstraction” in procinto di ricordare un episodio del passato), ma anche di  lunghi periodi come il monologo del protagonista (di cui citiamo soltanto l’esordio) in un momento di abbandono: “Enough, enough, today I’ve had enough […]. Il risultato è una lingua scomponibile che gli consente una grande libertà espressiva. Una lingua, ha scritto Pepa Linares, responsabile della traduzione spagnola del romanzo, promiscua, ottenuta “intercalando frasi o espressioni inglesi (non sempre grammaticalmente corrette) o attraverso la fusione del lessico inglese con il lessico italiano, il cui risultato è un gran numero di ibridi che acquistano significato solo se inseriti in quel particolare contesto”.

Nel 1960, quando inizia a scrivere Una questione privata, Beppe Fenoglio lavora in una azienda enologica di Asti, come responsabile, vista la sua conoscenza delle lingue, dei rapporti commerciali con l’estero. Si considera- sono parole sue- un “narratore piemontese noto solo a ristretti circoli culturali” che aspira, probabilmente, a chiudere il ciclo narrativo sulla Resistenza. Non che la sua scrittura non si fosse cimentata anche in altre tematiche, non belliche, ma comunque sempre legate agli ambienti rurali delle Langhe, come nei bellissimi Racconti del dopoguerra o nei Racconti del parentado e del paese, dove dimostra la sua abituale maestria ed agilità della scrittura. In quest’ultima raccolta vi sono veri e propri capolavori di narrativa breve come Un giorno di fuoco, Ma il mio amore è Paco, Pioggia e la sposa, ecc. Alcuni di questi furono inseriti in una famosa antologia intitolata Letteratura dell’Italia Unita (1861-1968) in cui Gianfranco Contini, uno dei maggiori critici del Novecento, fissò quello che era, a suo avviso, il canone letterario del primo secolo di vita dell’Italia unificata.

Il protagonista di Una questione privata, romanzo che apparirà nel 1963 pochi mesi dopo la morte dello scrittore, è ancora un partigiano, Milton, che si potrebbe definire come la variante sentimentale ed emotiva del protagonista della saga anteriore. Siamo nell’autunno del 1944. Ci viene presentato all’inizio del romanzo “con la bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi [mentre] guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba. Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo”. In quella villa “solitaria”, aveva conosciuto, un paio di anni prima quando non era ancora partigiano, Fulvia, una giovane torinese venuta a trascorrere le vacanze in collina, e se ne era innamorato. I ricordi si intensificano via via che entra in quelle stanze in cui ancora echeggiano le loro lunghe conversazioni sul divano, le note delle canzoni americane degli anni trenta che avevano ascoltato insieme come Deep Purple[1] o Over the Rainbow[2] , e le traduzioni di poesie inglesi che le leggeva sperando, inutilmente, di far colpo su di lei.

Neppure Milton, infatti, come già il suo ‘collega’ Johnny è immune dal fascino anglofilo che subiva Fenoglio. Quel nostalgico flashback si interrompe bruscamente quando viene a sapere dalla custode della casa che Fulvia si era invaghita dell’amico, Giorgio, con cui condividevano spesso quei pomeriggi in collina. Tra i due le cose erano andate più avanti di quanto Milton potesse immaginare: Giorgio “veniva troppo spesso, e quasi sempre di notte”, gli rivela la donna a cui i padroni, rimasti in città, si erano raccomandati di tenere d’occhio la figlia. “A me francamente quelle ore non piacevano. […] Si misero a far tardi”. Per il giovane è un colpo durissimo: “Eccolo lì, che tremava verga a verga nella sua fradicia divisa cachi, con la carabina che gli sussultava sulla spalla, la faccia grigia, la bocca semiaperta e la lingua grossa e secca. Finse un accesso di tosse, per darsi il tempo di ritrovare la voce”. In quel momento i doveri di partigiano passano in secondo piano e la sua unica preoccupazione è di trovare Giorgio, pure lui arruolato ma in un’altra brigata di stanza in una collina vicina, per chiedergli spiegazioni.

Nel contesto della guerra partigiana si snoda così la “questione privata” di Milton che vuole scoprire la verità. “Il fatto è che più niente m’importa. Di colpo, più niente. La guerra, la libertà, i compagni, i nemici. Solo più quella verità”. Poi ci ripensa e ammette che, una volta chiarite le cose, forse “qualcosa sarebbe stato nuovamente capace di fare per i suoi compagni, contro i fascisti, per la libertà”.  La lotta partigiana si arricchisce così di una nuova epica, privata, che spinge Milton su e giù per le Langhe, nella nebbia e nel fango, alla ricerca di una conferma che purtroppo non arriverà mai in quanto Giorgio dopo essere stato catturato dai fascisti viene passato per le armi. Le peripezie di Milton che una volta saputo della cattura dell’amico si lancia in una forsennata ed ambigua (vuole salvare l’amico o soltanto conoscere la verità?) ricerca di un fascista con cui realizzare uno scambio di prigionieri secondo quanto pattuito fra i due bandi, e le conversazioni con i partigiani a cui si rivolge, sono narrate con una maestria inconsueta per l’epoca e attraverso una scrittura vertiginosa che non da’ tregua come la corsa frenetica del protagonista.

Il grande merito di Fenoglio è quello di aver saputo inserire una storia privata in un contesto fino ad allora dominato da altre aspettative e di aver trasformato la Resistenza oltre che in una missione etica, in una splendida occasione narrativa. Italo Calvino percepì per primo la grande novità del romanzo di Fenoglio. Nel prologo all’edizione del 1963 del suo primo romanzo, pubblicato però nel 1947, Il sentiero dei nidi di ragno, di ambiente partigiano, così si esprime nei confronti del collega: “Fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata”. Nel libro “c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali […] e la commozione, e la furia”.


[1] Lanciata da Bing Crosby.

[2] La cantava Judy Garland nel film The Wizard of Oz (1939) di Victor Fleming.

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