Stati Uniti vs. Cina: si sgretolano i pilastri della globalizzazione

La guerra in Ucraina ha ridisegnato la mappa delle materie prime

Negli anni Settanta del secolo scorso il termine ‘globalizzazione’ — per la Francia e l’Italia, nonché per il mondo ispanico, veniva usata la parola ‘mondializzazione’  mentre ‘globalizzazione’ era appannaggio del mondo anglofono — tendeva ad assumere una tonalità politica di sinistra, soprattutto di quella radicale come i gruppi trotzkisti e maoisti. Nella concezione marxista Il processo di accumulazione del capitale si articola su scala mondiale come sottolineato dal principale autore di tale corrente di pensiero ancora vicino ai nostri giorni, Samir Amir nel suo L’accumulation à l’échelle mondiale apparso in Francia e pubblicato in italiano nel 1971 dalla Jaca Book. Amin criticava giustamente la visione del sottosviluppo come risultante da un ritardo storico rispetto alla crescita capitalistica sostenendo invece che uno era la valenza della seconda.

Negli Stati Uniti le tesi di Amin vennero tradotte, assorbite e fatte proprie da Paul Sweezy e Harry Magdoff direttori della rivista Monthly Review. Il pensiero liberale non parlava di mondializzazione bensì dei vantaggi che sarebbero derivati dall’adozione di politiche di libero scambio, una posizione che originava nella teorie della concorrenza perfetta sviluppatesi a partire dall’ultimo quarto del diciannovesimo secolo. La posizione liberale risultava analiticamente coerente una volta accettate tutte le premesse circa il funzionamento della teoria della concorrenza perfetta.

Il cambiamento del termine da mondializzazione a globalizzazione avvenne negli anni Ottanta del Novecento ed originò dagli Stati Uniti. Non fu un caso, bensì un capovolgimento consapevole in positivo del contenuto critico della pubblicistica concernente la mondializzazione del capitale. La nuova visione — fortemente propagandata da organi come l’inglese The Economist e la Harvard Business Review — era incentrata soprattutto sulla libertà assoluta riguardo i movimenti di capitale sia all’interno di ciascun paese che internazionalmente. Il tutto ovviamente iniziò negli Stati Uniti e da essi, perno del sistema monetario internazionale, prese forma l’intero quadro mondiale.

L’attuazione politica di queste idee, ricevette una forte spinta dalla recessione inflitta al paese dal presidente della Federal Reserve Paul Volcker nei primissimi anni Ottanta, si svolse però prevalentemente a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso. Bisogna tener presente che se nel periodo 1980-90 venne messa in piedi l’ideologia della globalizzazione nota come neoliberismo, ciò accadde all’insegna di un rinnovato intervento dello Stato federale in campo fiscale e monetario, allora guidato da un presidente, Ronald Reagan, che faceva del neoliberismo la sua bandiera. Paul Volcker, presidente della Federal Reserve dal 1979 al 1987, ammise molto candidamente che la politica monetaria antinflazionstica di alti tassi di interesse aveva come obiettivo la caduta dei salari.

Osteggiato dai produttori dagli industriali per la profonda recessione che egli causò, Volcker ottenne il pieno appoggio del settore finanziario. La politica fiscale fu invece improntata ad un massiccio deficit di bilancio a favore della spesa militare. permettendo all’economia di uscire dallo shock prodotto da Volcker a prezzo di un grande deficit estero per via dell’elevato valore del dollaro causato dagli alti tassi di interesse. Il mutamento di rotta nella collocazione mondiale degli USA si stava quindi realizzando ma ancora mancavano due elementi per garantirne la durata: lo sbocco internazionale e la liberalizzazione finanziaria; quest’ultima fu completata dal Presidente Clinton nel 1999 con la legge che aboliva il Glass Steagal act rooseveltiano che separava nettamente le banche commerciali, cui veniva proibito di operare in borsa, dalle banche di investimento. Lo sbocco lo creò la Cina che diventò dagli anni Novanta in poi il terreno sul quale si materializzò la sistematica deindustrializzazione statunitense, non a caso iniziata con la recessione Volcker, la quale, assieme alle spese pubbliche internazionali di Washington, ha trasformato gli USA nel più grande debitore estero netto del pianeta. Infatti Giappone e Cina sono diventati di gran lunga i maggiori detentori stranieri del debito pubblico statunitense.

La deindustrializzazione non indebolì il potere delle grandi società USA ma sfilacciò completamente il tessuto produttivo nazionale rendendo i consumi ed anche molti settori di beni di investimento, punti di arrivo di manufatti prodotti in Cina oltre che dal Giappone e dalla Corea del sud. Il nesso, imperniato sulla Cina, tra deindustrializzazione e crescenti importazioni globali da parte degli USA è l’asse portante della mondializzazione del capitale dagli anni Novanta al 2019. In tal senso c’è stata certamente una globalizzazione determinata in massima parte dai gruppi sociali e politici che controllano le economie e le istituzioni dei rispettivi paesi, i cui interessi sono profondamente diversi per storia, concezione dell’economia industriale e posizione geografica.

Tra il 2016 ed il 2019 per ragioni interne agli Stati Uniti l’intesa con la Cina riguardo i processi tecnologici si è rotta, nel 2020 a causa della pandemia si sono alterate in maniera assai strutturale le concatenazioni produttive e distributive che dalla Cina portavano i prodotti negli USA. In questo contesto Pechino ha iniziato a ridurre sistematicamente l’ammontare di debito pubblico statunitense detenuto dalla sua Banca Centrale. Infine la guerra in Ucraina e le sanzioni alla Russia hanno ridisegnato completamente la mappa dei flussi delle materie prime, a favore della Cina e dell’India e quindi della Russia cui si è aggiunta la decisione dell’ Arabia Saudita, patria dei petrodollari, di non trattare il greggio unicamente nella moneta americana. E’ evidente che i circuiti che collegavano la Cina agli Stati Uniti ed il dollaro a tutte le transazioni di materie prime si sono rotti ed è improbabile che si riaggiustino. Le modalità delle relazioni internazionali saranno alquanto diverse. Probabilmente il meccanismo basato sul finanziamento internazionale del deficit statunitense tramite l’acquisto di buoni del tesoro americani sembra stia arrivando al capolinea e questo rappresenterebbe un fatto epocale.

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