L’intervento del presidente Stefano Landi all’Assemblea generale di Assindustria

Autorità, Signore e Signori, Colleghe e Colleghi,
apro i lavori di questo nostro appuntamento con un quesito rivolto a tutti.
Può un territorio cullarsi nella continuità, mentre il mondo cambia radicalmente e a grande velocità?
La nostra risposta è no.
E questo, oggi, è il problema.
Nello stato d’animo dei reggiani mi pare assente quella forza che sta trainando l’economia globale fuori dalla crisi.
La forza di milioni di persone – in gran parte giovani – che vedono nel cambiamento in corso la possibilità non solo di uscire da una condizione di miseria, ma anche di costruirsi una nuova prospettiva di vita.
Attenzione!
Oggi, qui – nel nostro bellissimo Teatro Valli – siamo inconsapevole parte di un enorme “cantiere” nel quale va in scena la costruzione del mondo di questo secolo.
Dobbiamo farcene una ragione e, soprattutto, decidere che ruolo intendiamo avere in questa grande impresa.
Dodici mesi fa – quando ho assunto la guida di Industriali Reggio Emilia – avevo ricordato tre diverse condizioni che distinguono l’umanità.
C’è chi si stupisce che il mondo cambi.
Ci sono coloro che osservano il mondo cambiare.
Infine, c’è chi – come noi imprenditori – agisce affinché il mondo cambi.
Una interpretazione, quest’ultima, che ben esprime lo spirito delle quattro linee guida con cui ho scelto di caratterizzare il mio quadriennio di presidenza.
La prima, è la visione di un sistema industriale che deve rimanere il motore dello sviluppo locale.
La seconda, è la centralità del capitale umano che, per essere perseguita, richiede investimenti sul sapere, sulle nuove competenze e, soprattutto, sui giovani.
La terza, è il ruolo delle idee e dell’innovazione in ogni sua forma.
La quarta, infine, è la necessità di “pensare” lo sviluppo locale e il nuovo ruolo di Reggio Emilia, a partire da una visione di Area vasta.
Quattro obiettivi che convergono su un unico risultato: interpretare le discontinuità imposte dalla crisi e dalla globalizzazione.
Gli anni che viviamo richiedono coraggio non solo agli imprenditori, ma anche alla nostra comunità e alla politica che la governa.
L’intera società deve mettersi in marcia condividendo, con passione, valori, obiettivi, sacrifici e azioni di solidarietà.
Ne abbiamo bisogno.

UN MONDO CHE CONTINUA A CAMBIARE

La crisi, infatti, ha cambiato la mappa planetaria dell’industria manifatturiera.
Dal 2007 al 2010 l’Italia è rimasta schiacciata tra recessione violenta e ripresa lenta.
La nostra economia è passata dal quinto al settimo posto nella classifica mondiale.
Corea del Sud e India ci hanno ormai superati.
Ecco cosa accade quando non si fanno riforme strutturali capaci di sostenere la produttività e, con essa, la competitività.
Il mondo corre, e noi perdiamo posizioni che sono costate ingegno, capitali e fatica.
Il nostro Paese ha chiuso il 2010 con una crescita del Prodotto Interno lordo pari a 1,3%.

L’INDUSTRIA A REGGIO EMILIA

A Reggio Emilia, il 2010 è stato ancora condizionato dall’onda lunga della crisi esplosa quasi tre anni fa.
Nell’ultimo anno il sistema produttivo reggiano ha esportato beni per 7,3 miliardi di euro.
Siamo di fronte a dati positivi, ma ancora lontani dai volumi del 2008 quando – con 8,4 miliardi – toccammo il record storico delle nostre esportazioni.
All’appello, dunque, manca ancora un miliardo.
Ciò significa che siamo tornati ai livelli del 2006.
Nonostante questo, possiamo affermare che il sistema industriale reggiano ha “tenuto”.
Quella che abbiamo affrontato è, infatti, una stagione senza precedenti, riassunta da due dati.
Il primo, è il raggiungimento del massimo storico di ore di Cassa integrazione, che ci ha assegnato un non invidiabile primato a livello nazionale.
Il secondo, è l’aumento della disoccupazione che ha raggiunto il valore del 5,4%.
In poco più di due anni ci siamo allontanati di due punti dalla piena occupazione e abbiamo cosi visto crescere apprensione e difficoltà presso un numero significativo di famiglie reggiane.
Il calo dell’occupazione si è realizzato in maniera contro-intuitiva.
In altri termini, nonostante la durezza della crisi che ha colpito l’industria, la perdita di lavoro si è manifestata pressoché interamente nell’ambito dei servizi, che hanno subito ancora più duramente la riduzione dell’attività economica e la contrazione dei consumi.
Se l’occupazione industriale ha sostanzialmente retto, ciò è dovuto non solo alle politiche del governo a sostegno della Cassa integrazione, ma anche alla decisione delle imprese di farvi ricorso.
Il nostro sistema produttivo, ancora una volta, ha dimostrato la sua solidità fondata su imprese e reti di sub-fornitura ancorate a grandi filiere globali.
Non affermiamo che l’industria reggiana è ormai fuori dalla crisi, ma evidenziamo i suoi saldi legami con la ripresa internazionale.

BANCHE E IMPRESE

Una prospettiva, quest’ultima, che stiamo affrontando ricorrendo a un credito troppo selettivo.
Comprendiamo le ragioni delle banche, ma siamo molto preoccupati di fronte al disegno di Basilea 3.
Ci sentiamo pertanto di chiedere agli istituti di credito di evitare l’uso meccanico e astratto dei modelli di rating, sviluppando, al contrario, forme di analisi qualitative e, soprattutto, prospettiche.
Per fare questo è indispensabile che le banche migliorino la loro capacità di comprendere i progetti aziendali.
Valutare la componente qualitativa del credito significa comprendere le scelte e le strategie che determinano il futuro di ogni impresa.
Riferendoci ancora al rapporto con le banche, non condividiamo la norma del Decreto Sviluppo che consentirebbe loro di modificare – unilateralmente – i tassi e le condizioni applicate sui mutui per le imprese.
Si tratta di una disposizione sbagliata che deve essere cambiata.
All’interno del quadro sin qui delineato un dato emerge con chiarezza: il nostro sistema produttivo sta uscendo dalla crisi profondamente trasformato.

UNA CONTINUA TRASFORMAZIONE

Per prima cosa, la recessione ha ricollocato l’impresa al centro della considerazione sociale, riconoscendone il ruolo di primo attore dello sviluppo.
In una prospettiva come questa, Industriali Reggio Emilia vede confermata quella sensibilità verso il bene comune che da anni rappresenta uno dei cardini della propria azione associativa.
Alla nostra comunità confermiamo che in numerosi settori sono ormai evidenti solidi segnali di ripresa.
Un dato che non ci stupisce.
In questi anni, infatti, le nostre aziende hanno perseguito l’efficienza in ogni ambito, hanno investito, hanno creato nuovi prodotti e nuovi servizi.
Un processo evolutivo trainato dalle medie imprese leader mondiali nelle produzioni medium tech.
Aziende che non solo hanno continuato a investire sulla presenza commerciale nei mercati esteri, ma che hanno progettato di spostare la propria attenzione dal Vecchio Continente ai diversi Paesi emergenti.
A Reggio Emilia primeggiamo nelle “innovazioni d’uso” rivolte a mercati di nicchia ai quali offriamo flessibilità, personalizzazione e servizio, declinati a scala globale.
Siamo – più ancora della Germania – un popolo di innovatori capaci di applicare le nuove tecnologie alle produzioni tradizionali.

“CONOSCERE PER DELIBERARE”

Comprendere questa realtà industriale, individuarne le traiettorie, coglierne il processo evolutivo è ormai una necessità imprescindibile per la nostra comunità.
In tale prospettiva abbiamo avviato un nuovo corso associativo il cui fine è contribuire a trasformare problemi frammentati in possibili soluzioni condivise.
Ci proponiamo, in altri termini, di offrire, all’insieme degli attori locali, analisi, idee e proposte.
Nei mesi scorsi la nostra Associazione ha avviato, con la collaborazione di Prometeia, una ricerca il cui fine è l’individuazione delle prospettive a medio-lungo termine del nostro sistema produttivo.
Una grande indagine – che tra poco commenteremo in sintetica anteprima – dedicata al futuro dei principali settori dell’industria locale.
Nel prossimo autunno la presentazione della ricerca nella sua completezza fornirà l’occasione per un confronto con gli Enti locali, la Camera di Commercio, le Associazioni e i Sindacati.
Siamo sostenuti – in questo nostro impegno – dalla consapevolezza che il futuro della comunità reggiana dipende in maniera rilevante dalle imprese, dalle loro filiere e dalla produttività del sistema nel suo complesso.
Un indicatore, quest’ultimo, che rimanda ad un mix formato da capitale umano, innovazione, logistica, servizi, relazioni industriali e, non certo da ultimo, un ambiente competitivo e non parassitario.

CAPITALE E LAVORO

Per capirlo non serve andare lontani: basta guardare ancora una volta alla Germania.
Un Paese che traina l’Europa ed esporta prodotti tecnologici e di qualità nei paesi low cost che ne hanno sempre più necessità o desiderio
Per raggiungere obiettivi come questi è indispensabile poter contare, tra le altre cose, su relazioni industriali di qualità.
Ma attenzione, il lavoro in Italia non è più quello cristallizzato nello Statuto dei lavoratori, che fu certamente una pietra miliare, ma che risale ormai a molti decenni fa.
Non solo, dopo dieci anni di globalizzazione il sistema delle relazioni industriali deve essere riformato.
Confindustria ritiene – e noi condividiamo – che le regole possano e debbano essere negoziate, modificate e integrate, se ciò è indispensabile per accrescere – nel rispetto delle fondamentali tutele dei collaboratori – la produttività e con essa la competitività delle imprese.
La divisione tra le Organizzazioni sindacali, l’irrompere delle sentenze nelle relazioni tra aziende e sindacati, il ritorno di un antagonismo fuori dalla storia, sono, nel loro insieme, l’esatto contrario di ciò di cui le nostre imprese, i nostri collaboratori e la nostra comunità hanno bisogno.
Gli accordi – per forza di cose, non per interesse di parte – devono proporsi di migliorare le performance aziendali e, con esse, i riconoscimenti economici correlati ai risultati di maggior produttività, redditività ed efficienza.
La Fiom ci chiede di aprire una trattativa.
Ebbene, rivolgendoci proprio a questa Fiom ci permettiamo di far notare un dato incontrovertibile.
La negoziazione, gli accordi, le mediazioni, la capacità di occuparsi delle questioni del lavoro, le nostre aziende l’hanno sempre avuta e continuano ad averla.
L’hanno dimostrato, nei fatti, tutti i giorni, anche in questo difficile momento.
L’hanno dimostrato nella sede propria e deputata –
quella aziendale – quella della contrattazione di secondo livello.
I Contratti nazionali, invece, non si conquistano, come è stato urlato, ma si raggiungono negoziando, ragionando, procedendo attraverso faticose e alla fine fruttuose mediazioni.
Ci auguriamo sia finito il tempo dei veti di una parte sola, convinta di poter imporre anziché negoziare,.
Allo stesso modo, le azioni antagoniste e aggressive non determinano vinti o vincitori, ma mortificano la negoziazione, avvelenano i rapporti, rallentano lo sviluppo e scoraggiano le iniziative economiche.
Quando la qualità delle relazioni sindacali distingue negativamente un territorio: tutti hanno perso.
Riteniamo perciò indispensabile arrivare, in tempi brevi, a un accordo nazionale sulla rappresentanza e sull’esigibilità dei contratti.
Lo riteniamo importante nell’interesse del sistema perché oggi, la concorrenza vera non è tra aziende europee e aziende “cinesi”.
Le imprese, infatti, sono mobili e possono andare a cercare, altrove, le soluzioni idonee e l’ambiente migliore.
Nei fatti, chi si trova di fronte a una competizione senza precedenti sono i lavoratori e i territori.
Per questo, insistiamo sull’urgenza di un profondo rinnovamento del Paese, delle relazioni industriali e, naturalmente, del sistema locale.

REGGIO EMILIA

Un ambito che continua ad evidenziare luci e ombre.
Sono trascorsi oltre dieci anni da quando gli industriali reggiani lanciarono la proposta “imprese e territorio alleati per competere”.
Una visione che, a conti fatti, non solo si è rivelata profetica, ma è diventata, nel tempo, un patrimonio condiviso dall’intero sistema locale.
Riferendoci proprio a quest’ultimo, ci limitiamo a richiamare due temi di grande rilievo.
Il primo, è costituito dalla stazione “mediopadana” e dal ruolo che essa può avere nel riposizionamento strategico del nostro sistema territoriale.
Il secondo, è l’innovazione, intesa come processo che produce idee capaci, a loro volta, di trasformarsi in prodotti e servizi ancor più competitivi.

LA STAZIONE DELL’ALTA VELOCITÀ

Se consideriamo il nostro territorio possiamo affermare che il suo futuro è strettamente legato a quello dell’area vasta che si snoda lungo l’asse Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna.
Un ambito locale la cui impressionante crescita, industriale, economica e demografica, ha determinato una conurbazione che supera, di fatto, l’architettura istituzionale delle province.
Se non si considera questo quadro di riferimento non si può comprendere la realtà locale e l’impatto che le nuove reti infrastrutturali hanno già avuto su di essa.
Ci riferiamo prima di tutto all’alta velocità.
Una realtà che, attraverso il “nodo” nazionale di Bologna e il futuro “nodo” interprovinciale di Reggio Emilia, ha ridefinito la mobilità regionale.
Nella consapevolezza di ciò abbiamo promosso la realizzazione di una ricerca per approfondire il ruolo di questa infrastruttura e della sua nuova stazione.
Ci siamo concentrati su un tema di grande rilievo: l’accessibilità, l’individuazione del bacino di utenza potenziale e l’impatto che la stazione avrà su di esso.
Nel corso dei prossimi mesi saranno disponibili i risultati che costituiranno la base per un confronto con gli Enti e con i principali attori economici locali.
Lo faremo a partire da un preciso dato di fatto: il nuovo ruolo “mediopadano” del nostro Capoluogo.

COMPRENDERE IL RUOLO MEDIOPADANO

Guardate, sbaglia chi si ostina a vedere la nuova stazione Tav come una sorta di cattedrale nel deserto, così come sbaglia chi ritiene che la sua sola presenza possa garantire un “vantaggio” alla nostra città.
Due errori, per altro diffusi, che evidenziano l’urgenza di comprendere cosa significa, per il nostro Capoluogo, l’inedita funzione di “nodo” mediopadano.
Un destino che possiamo anche rifiutare, ma che la posizione, le grandi reti della mobilità e le dinamiche di sviluppo economiche, sociali e demografiche ci assegnano indipendentemente dalle nostre intenzioni.
Siamo davanti a una sfida che impone il ripensamento radicale del ruolo della nostra città.

LA PROGETTAZIONE DEL FUTURO

A questo riguardo dobbiamo dire le cose come stanno.
Sono troppi i segnali che indicano un disassamento tra l’obiettivo di ripensare il nostro Capoluogo e il comportamento del sistema locale nel suo complesso.
Sono passati dodici anni dalla decisione di realizzare la fermata della Tav e, nonostante il tempo trascorso, ragioniamo in maniera ancora troppo frammentata.
In altre parole, continuiamo a riferirci all’Area Nord, alle ex Reggiane, al centro storico, alla nuova stazione, all’Università, al palazzo dello sport, ai caselli autostradali o a un centro commerciale, come se si trattasse di singole realizzazioni.
Manca la consapevolezza che ciascuno di questi interventi – insieme a molti altri – deve fare parte di un più grande, ambizioso e condiviso progetto volto a fare della nostra città una capitale mediopadana.
Si ripropone la necessità di quella pianificazione strategica indispensabile per realizzare una visione capace di legare tra loro: cultura, industria, mobilità, turismo, patrimonio artistico, ambiente, eccellenze alimentari, facendoli diventare, nel loro insieme, un nuovo motore di sviluppo.
Questo è ciò che siamo chiamati a fare, ricordandoci che nella crescita territoriale, come nelle imprese e nell’agire umano, la risorsa più scarsa è costituita sempre dalle idee, mentre abbondano l’inerzia nei confronti del nuovo e quella paura di rischiare che mortifica l’intraprendenza.
Un grande scrittore tedesco amava ripetere: “chi non osa nulla, non speri in nulla”.
Ebbene, noi dobbiamo osare di più.
Dobbiamo, tra le altre cose, desiderare un futuro capace di misurarsi con quella innovazione diventata ormai il vero fattore di crescita.

L’ INNOVAZIONE COME PRODOTTO SOCIALE

Riferendoci proprio all’innovazione e alla conoscenza che la determina, rileviamo una radicale discontinuità.
Cresce, infatti, la consapevolezza che gli investimenti necessari per produrre e propagare la conoscenza non sono più delegabili alla singola impresa, meno che mai se di piccole o medie dimensioni.
Si è ormai affermata l’idea che la conoscenza è – a differenza del capitale o dei beni materiali – una risorsa sociale.
Oggi, l’imprenditore che vuole innovare si rende conto che la generazione del valore non sta solo in quello che faranno lui e quanti dipendono da lui.
Diventa sempre più manifesto il ruolo dei tanti che investono per portare a compimento, all’interno di una “filiera”, una innovazione che incorpora contributi autonomi, interdipendenti e complementari.
In tale prospettiva si può affermare che le innovazioni scaturiscono da una sorta di “processo produttivo” nel quale l’input è dato dal capitale umano e l’output è costituito dalle nuove idee.
A Reggio Emilia operano diversi soggetti impegnati, direttamente o indirettamente, in questo processo che richiede di essere affinato e valorizzato attraverso azioni e iniziative mirate.
Per prima cosa, è indispensabile perfezionare il modello di trasferimento tecnologico.
L’obiettivo è aumentare non solo i contatti tra aziende e Università, ma anche la capacità di sostenere la nascita di imprese innovative e l’avvio di spin-off.
Dobbiamo migliorare la nostra capacità di ideare e realizzare progetti di ricerca collaborativa e laboratori dedicati ad applicazioni avanzate non solo per la meccanica, per i nuovi materiali, per la robotica e per la mobilità, ma anche per l’agroalimentare.
Infine, dobbiamo promuovere progetti condivisi – tra istituti tecnici, università e imprese – in ambiti come la meccatronica e l’orientamento.
Riferendoci, in particolare, all’Università, ricordiamo che l’abbiamo voluta e sostenuta non come esito di un decentramento, ma come progetto di lungo periodo volto a radicare, localmente, una politica formativa coerente con le esigenze produttive del territorio.
Un impegno che richiede un rinnovato coinvolgimento degli attori locali a sostegno sia delle attività didattiche, sia della ricerca.
Il giro di boa del primo decennio ci impone non solo di sottoporre a verifica quanto è stato fatto, ma, anche e soprattutto, di considerare sia gli elementi di novità introdotti dalla recente riforma, sia le diverse aree di miglioramento.
Tra queste ricordiamo la necessità di completare il campus San Lazzaro e di incrementare non solo il numero degli iscritti, ma anche i progetti condivisi con singole aziende o con Reti di imprese.
Infine, richiamiamo l’attenzione sul fatto che la realizzazione del Tecnopolo non dovrà essere solo una operazione immobiliare, ma il radicamento a Reggio Emilia della ricerca e del trasferimento tecnologico in favore delle imprese e a vantaggio del territorio.
Un ambito – quello del Tecnopolo – nel quale Reggio Emilia Innovazione può e deve avere un ruolo.
La nostra Associazione è oggi impegnata non solo nel perseguimento di questi obiettivi, ma anche in un’attività di analisi e mappatura delle competenze esistenti, realizzata da un’equipe di ricercatori coordinati dal Club Meccatronica.

IMPRESE E CAPITALE UMANO

Le idee e le risorse umane che le producono sono ormai il binomio indispensabile per “creare” valore.
Nella consapevolezza di ciò Industriali Reggio Emilia opera per contribuire a migliorare la coerenza tra il sistema dell’education e la realtà produttiva locale.
Per mantenere la nostra vocazione manifatturiera è indispensabile investire maggiormente nella scuola.
Un buon esempio è la costituzione e l’avvio – nel nostro Capoluogo – del nuovo Istituto Tecnico Superiore per la meccanica-meccatronica.
Un’iniziativa scaturita dalla collaborazione – anche economica – tra il pubblico e le imprese con le loro associazioni.
Accanto a questa importante novità voglio ricordare anche il progetto, nato dalle intese tra il nostro Gruppo Gomma e Materie Plastiche e l’Istituto Einaudi di Correggio, per la formazione di figure professionali coerenti con le attuali esigenze delle imprese di quel settore.
Allo stesso tempo, è forte la necessità di ridefinire la strategia dei diversi soggetti, pubblici e privati, che si occupano di formazione e i cui programmi didattici vanno adeguati alle esigenze di un sistema produttivo in profonda trasformazione.
Dobbiamo non solo formare di più chi lavora, ma anche attrezzarci per accompagnare la riqualificazione di quelle risorse mature che devono essere reinserite all’interno di sistemi produttivi, logiche e tecniche in continua evoluzione.
Infine, siamo impegnati nelle attività di orientamento rivolte ai giovani.
Per noi si tratta di una vera e propria missione sociale.
Un impegno che sta iniziando a dare i suoi frutti.
Le iscrizioni agli istituti tecnici industriali per il prossimo anno scolastico sono aumentate dell’8%.
Continueremo dunque ad impegnarci per far conoscere le trasformazioni di un settore, la manifattura, e di un luogo, la fabbrica.
Sarà questo, infatti, il vero campo di gioco nel quale si misureranno le idee che ci permetteranno di competere anche negli anni a venire.
Un obiettivo praticabile, ma reso più difficile da un Paese sempre più in affanno.

UN PAESE CHE HA SMESSO DI SOGNARE IL FUTURO

Scontri tra Istituzioni, crisi del sistema bipolare, antipolitica, interessi corporativi e illegalità, rischiano di produrre un’irreversibile crisi nazionale.
La continua esaltazione della contrapposizione porta gli italiani a dividersi su tutto: dalla politica energetica a quella estera; dal federalismo ai contratti di lavoro; dal futuro della Fiat alle festività nazionali; dalle municipalizzate alla Tav.
Non se ne può più!
Nello stesso tempo, gli imprenditori subiscono quella vischiosità fiscale, burocratica e amministrativa che li frena e li frustra nel loro agire quotidiano.
Lo affermo con grande serietà: gli industriali reggiani non hanno le pile scariche, ma hanno sicuramente le tasche piene di un Paese nel quale faticano a lavorare.
Diciamo le cose come stanno.
Le imprese straniere, se devono scegliere, preferiscono – al nostro Paese – la Slovenia, la Cechia o la Polonia perché lì le condizioni generali sono migliori.
Si badi bene che non ci riferiamo ai salari.
La preferenza è motivata da ben altri fattori.
In quei Paesi, infatti, uno stabilimento si realizza senza dover investire 5 o 10 anni in uno snervante slalom tra autorizzazioni, pareri e veti, come è accaduto e accade anche nella nostra provincia.
Ma non si tratta solo di questo: conta, e molto, una giustizia che funziona; le regole certe; l’imposizione fiscale minore e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Non è un’affermazione da anti-italiano sostenere che per gli operatori internazionali il nostro Paese non è un luogo nel quale investire.
Chi può dare loro torto?
Che si tratti di sicurezza, di impatto ambientale, di norme urbanistiche, di privacy o di Sistri, non ci sono dubbi: l’impresa può attendere e, in ogni caso, deve sempre pagare.
Troppe cose si perdono nel porto delle nebbie della burocrazia.
Sulla carta sono molti i progetti già approvati dal Governo o dal Parlamento che dovrebbero migliorare la vita alle imprese.
La realtà racconta una storia diversa, fatta di attese e rinvii troppo spesso incomprensibili.
Non ci siamo.
La via per lo sviluppo passa attraverso una grande prova di responsabilità nazionale.
Per sconfiggere 15 anni di crescita quasi impercettibile la politica – tutta la politica – deve trovare la forza e il coraggio non solo per contenere la spesa corrente ma, anche e soprattutto, per ridefinire dalle fondamenta la macchina pubblica e i suoi costi.
Questa è l’unica politica industriale di cui abbiamo bisogno e che ci aspettiamo.
L’agenda – come ha ricordato Emma Marcegaglia il mese scorso a Roma – è concentrarsi su una sola priorità: la crescita.
Ciò significa:
semplificazioni e liberalizzazioni subito!
Infrastrutture subito!
Riforme fiscali subito!
Lo affermiamo nella consapevolezza di quello che ciascuno di noi, con la propria impresa, con i propri familiari e con i propri collaboratori, fa per un Paese che festeggia in questi mesi 150 anni di Unità.

CONCLUSIONI

Autorità, Signore e Signori,
un secolo fa il futuro della nostra comunità dipendeva dalla terra e dalla capacità di lavorare il ferro.
Oggi, il nostro futuro dipende dalla capacità di elaborare idee in grado di soddisfare le attese e le emozioni di milioni di clienti in tutto il mondo.
Reggio Emilia, pur nella consapevolezza della propria dimensione, deve ambire a diventare un nodo di quella rete mondiale in cui si formano e viaggiano le idee.

LA CITTADELLA DELLA CONOSCENZA

Per questo, la nostra città dovrebbe realizzare una vera e propria “Cittadella della Conoscenza”.
Ci riferiamo a un “luogo” nel quale concentrare tutto ciò che si occupa di cultura tecnica, formazione, istruzione e trasferimento tecnologico.
Un progetto da realizzarsi, negli anni, sull’asse delle ex Reggiane e del San Lazzaro.
Una “Cittadella” facile da raggiungere, organizzata sulla base di un preciso piano urbanistico che, a regime, dovrà essere frequentata da migliaia di studenti e centinaia tra docenti e ricercatori.
Una proposta che implica il progressivo trasferimento in questa realtà di scuole, enti, consorzi pubblici e privati o, ancora, di imprese del terziario innovativo.
Nella convinzione della necessità di unire tutte le energie disponibili, proponiamo un’ulteriore idea: la costituzione di una Fondazione per la promozione della conoscenza tecnica.
Un soggetto che non solo aiuti a coordinare le diverse iniziative presenti a Reggio Emilia, ma che elabori progetti, piani e attività in un’ottica integrata e di sistema, impegnandosi, tra le altre cose, nella regìa per la realizzazione della “Cittadella della conoscenza”.
Diamo la nostra disponibilità alla costituzione di questa Fondazione alla quale invitiamo a partecipare, attivamente e finanziariamente, tutti i principali attori locali.
Care Colleghe e cari Colleghi,
il capitalismo è un’evoluzione economica costante e, dunque, non è e non può mai essere immobile.
È un dinamismo capace anche di “distruzione creativa”.
Ciò che viene distrutto per essere ricreato è – ogni volta – il mondo della produzione, i suoi modelli, le sue idee e le sue tecnologie.
Oggi, questa forza che “distrugge creativamente” ha assunto le sembianze della competizione globale.
Un sommovimento che colpisce – inesorabilmente – i nostri settori a basso valore aggiunto e ad alta intensità di lavoro.
Non potendo competere sui costi, il nostro futuro va ricercato, necessariamente, nelle cose in cui siamo più bravi, perché abbiamo più storia, più idee, più creatività, più know how e dunque più esperienza.
A queste qualità dobbiamo aggiungere il coraggio.
Avere coraggio significa rifuggire da ciò che è facile, da ciò che è comodo, dagli alibi, dalla lamentela o, ancora, dalle accuse rivolte al destino, agli altri o alle imprese.
Il coraggio non sta nelle nuove idee, ma nella forza di lasciare quelle vecchie.
Questo significa cambiare ciò che deve essere cambiato nel nostro modo di pensare, nella nostra vita, nel nostro lavoro e nella nostra comunità.
Questo è quello che ciascuno di noi è chiamato a fare.

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