È trascorso più di un decennio da quando Greenpeace promosse una campagna di denuncia contro la distruzione delle foreste indonesiane – perpetrata per fare spazio alle coltivazioni di palme da olio – e delle sue gravi conseguenze, a cominciare dall’estinzione degli ultimi oranghi fino all’aggravamento dei già preoccupanti sintomi di cambiamenti climatici.
La campagna si distingueva per i contenuti cruenti, pensati per stimolare la sensibilità delle popolazioni occidentali consumatrici dei prodotti che per la loro preparazione richiedevano consistenti quantità di olio di palma. Il risultato fu deludente, la campagna non sortì l’effetto aspettato sulle masse che continuarono ad acquistare prodotti da forno la cui fragranza era assicurata dalla presenza, appunto, dell’olio di palma fra gli ingredienti. Detta in altre parole, perché l’Occidente avrebbe dovuto preoccuparsi degli oranghi? E poi l’Indonesia è così lontana… un problema che non lo riguarda.
Invece era necessario rallentare i consumi e quindi la domanda di olio di palma, intervenire diventava prerogativa inderogabile. Ma bisognava cambiare il messaggio rivolto ai consumatori: per scuotere le coscienze – o, forse, le coscienze no – fu necessario ricorrere a uno stratagemma di puro stampo individualista. L’olio di palma fa male alla salute, ed ecco che il gioco era fatto: adesso, se un’azienda vuole vendere i propri prodotti da forno, deve evidenziare bene sulla confezione che “non contiene olio di palma”. Senza preoccuparci se gli oranghi vivano ancora oppure no, preoccupiamoci solo della nostra salute. Anzi, no, del nostro benessere. A questo individualismo è corso il pensiero, ascoltando l’antropologo Andrea Staid durante un incontro coi giovani – preparatorio ai Dialoghi di Pistoia – che ha evidenziato come dai semi caratterizzanti la cultura antropocentrica del nostro Occidente “civilizzato” la vita sul pianeta abbia generato il proprio malessere.
L’Occidente, in nome di una verità che si è costruito nel tempo, ha pensato bene di “scoprire” il mondo (puntando in realtà le prue dei vascelli sì verso lidi ignoti, ma approdando a terre ben note da chi da sempre le abitava e le sapeva ascoltare) con la presunzione di imporre ovunque ciò che riteneva giusto per sé. E come oggi è vero per gli oranghi, le popolazioni locali venivano massacrate in nome di una verità che non potevano riconoscere, in quanto riferita a mondi, tradizioni, realtà a loro ignote. Si tratta del colonialismo, ovvero l’autorizzazione che le popolazioni “occidentali” si sono date per sfruttare la Natura, asservendola alla logica del profitto stabilita da una cultura che eleva il Sapiens al di sopra di ogni altro vivente.
Per come stanno andando le cose, però, è tassativo porsi alcune domande e, ancor di più, trovare delle risposte immediate. Se non vogliamo cadere nel baratro.
Andrea Staid si è posto – e ci sottopone – un quesito su cui ragionare: “Cosa significa sentirsi parte della natura?”, e propone anche delle soluzioni secondo una chiave di lettura che passa per “Uno sguardo antropologico”. Coinvolgente, intanto perché il suo approccio consente di approfondire la comprensione di una disciplina come l’antropologia che – da alcuni limitatamente collocata al pari di una raccolta folkloristica sulle umane vicende – attraverso la trattazione di Staid traspare invece in tutta la propria valenza di disciplina completa, compenetrante la valenza etnografica.
Quella di Staid sul tema Natura è infatti una conversazione ad ampio spettro, articolata su vari livelli così da permettere una comprensione approfondita e chiara, per la cui comprensione è necessario prima di tutto accettare la relatività del termine “Natura” quale contesto di costruzione culturale per tutti non uguale: qui – ovvero nella cultura cosiddetta occidentale, antropocentrica – siamo abituati a considerarla come qualcosa di esterno a noi, quindi la viviamo in chiave dicotomica, relativamente al mondo che ci circonda. Altrove, invece – è per esclusione questo “altrove” è ovunque, fuori dall’occidente – la Natura prende forme diverse, assecondando relazioni che vanno oltre l’umano, vissuta non come un “oggetto diverso” dal sé, bensì come un unicum di esseri. Di tutti gli esseri: popolazioni animali (di cui il Sapiens rappresenta una piccolissima parte), vegetali e ogni altra entità vivente componga il pianeta Terra, assumendo la visione cosmica di relazioni fra loro strettamente interconnesse. Una chiave interpretativa che depone l’umanità dal piedistallo e la pone al pari di ogni altro essere. Il Sapiens diventa parte attiva che integra la propria animalità con il resto del mondo, di cui è – o deve imparare a essere – solo una piccola componente all’interno del grande ingranaggio che genera l’equilibrio vitale. Quello stesso equilibrio che il “poco Sapiens” ha devastato.
Stabilito questo, la domanda successiva è: ma possiamo ancora salvarci? La risposta è ovviamente incerta, anche se palesemente certa è invece la necessità di cambiare la rotta, e di farlo pure in fretta se vogliamo avere qualche chance di porre qualche rimedio al collasso climatico.
La ricchezza degli studi antropologici dimostra qui tutta la sua valenza strategica, perché può indicare alcune vie da percorrere attingendo alle esperienze di popolazioni che hanno soggettivizzato il rapporto con la Natura, ignorando i condizionamenti di “specie” in quanto capaci di ascoltare, interpretare, condividere e vivere i significati del diversamente umano, rinegoziando il rapporto con la Natura.
Il primo passo è cominciare a rispettarne le molteplicità di esistenza, secondo una visione che ci trova figli – tutti allo stesso modo – degli stessi genitori, parte paritaria che discende della grande famiglia dell’Universo. Sentirsi parte di una stessa famiglia, sentirsi quindi Natura, ci porta a mettere in pratica piccoli gesti quotidiani che, apparentemente irrilevanti, sono invece fondanti un nuovo ordine di idee: e si tratta di proposte allo stesso tempo concettualmente rivoluzionarie ma di semplicità quasi imbarazzante, che mette a disagio per non averci pensato prima, azioni da mettere in pratica nella quotidianità del “qui e ora”. Prendiamone coscienza.
I temi trattati durante la lezione che Staid – anzi, in realtà molto di più – sono contenuti nel libro “Essere Natura” pubblicato nel 2022 da UTET nella collana dedicata ai “Dialoghi di Pistoia”
Andrea Staid è docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba di Milano, di Antropologia culturale all’Università statale di Genova, di Letterature comparate all’Università Insubria e ricercatore all’Universidad de Granada. Dirige per Meltemi la collana Biblioteca/Antropologia.
Ha scritto: I dannati della metropoli (Milieu, 2014), Gli arditi del popolo (Milieu, 2015), Le nostre braccia (Milieu, 2015), Abitare illegale (Milieu, 2017), Senza Confini (Milieu, 2018), Contro la gerarchia e il dominio (Meltemi, 2018), Dis-integrati (Nottetempo, 2020), La casa vivente (ADD, 2021), Essere natura (UTET, 2022). I suoi libri sono tradotti in Grecia, Germania, Spagna, Cina, Portogallo, Cile. Collabora con diverse testate giornalistiche tra le quali Il Tascabile e Left.
In foto Andrea Staid