Il carcere mondo senza luce: l’esperienza dei cappellani di ieri e di oggi

Nessun errore può diventare sostanza della persona, il cui valore è immutabile

Don Danilo Cubattoli, meglio don Cuba, come da sempre è stato conosciuto dai fiorentini e da tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo, è un personaggio simbolo di Firenze; si potrebbe dire, con un termine divenuto di moda in questi tempi, un personaggio identitario della città. Il suo impegno per gli ultimi, la sua avventura umana, la grande attività per i carcerati, hanno avuto un’influenza duratura nel forgiare il sentimento collettivo cittadino verso una Chiesa vissuta nello sfondo totalizzante di un grande impegno sociale e di una testimonianza nella società al fianco di coloro che non hanno voce o visibilità. Una lunga schiera, quella dei “preti di strada”, come vennero presto chiamati, che in tanti incrociarono le loro esistenze con Don Cuba, come gli amici seminaristi Lorenzo Milani, Renzo Rossi, silvano Piovanelli, Ernesto Balducci, Raffaele Bensi e Bruno Borghi. Erano momenti di rinnovamento della Chiesa, quelli che ebbero protagonisti una nuova generazione di sacerdoti che videro alterne fortune, alcuni, come don Mazzi e don Sergio della comunità dell’Isolotto, allontanati dalla chiesa, mentre altri, come don Renzo Rossi, il “prete operaio”, inviati in altre zone del mondo (nello specifico, in Brasile). 

Il 30 giugno scorso, un’iniziativa si è svolta a Palazzo Incontri a Firenze per ricordare e sottolineare la figura di Don Cuba. A farlo, un suo compagno di strada, un prete che ha condiviso con lui l’esperienza dell’attività in carcere, il combattimento contro la riduzione della persona fatta  a immagine divina in un corpo abbruttito, dove alla pena comminata dalla legge si aggiungono le mortificazioni della carne e dello spirito dovute alle condizioni terribili delle carceri italiane, ben esemplificate nella struttura fiorentina di Sollicciano. Si sta parlando di don Vincenzo Russo, carismatico cappellano delle carceri (incarico lasciato da pochi mesi) successore di un altro grande sacerdote della Chiesa fiorentina, don Corso Guicciardini, alla guida dell’Opera della Madonnina del Grappa. Un’occasione per parlare di don Cuba, ma anche per fare un punto su una realtà complessa e in evoluzione come quella carceraria, che sta segnando nuovi momenti di abbandono, indifferenza, respingimento sia culturale che fisico.

“Ho avuto il privilegio di conoscere don Cuba di persona e di condividere con lui alcuni momenti della mia vita, compresa l’esperienza di cappellano a Sollicciano – ricorda don Russo – fra gli aspetti di don Cuba che mi hanno sempre colpito, la sua sorprendente capacità di comunicare, entrando in relazione con l’altro mettendolo a proprio agio, con lui era impossibile trovarsi in imbarazzo, per chiunque lo avvicinasse. Ricordo poi con grande piacere la sua grande vitalità, la sua passione per la natura, per lo sport”. L’attività di don Cuba si è concentrata nel quartiere di San Frediano, e furono proprio i ragazzi del quartiere a dargli il soprannome con cui è conosciuto da tutti. “Era uomo dell’incontro – continua don Russo – sapeva incontrare e farsi incontrare. Era facile approcciarsi a lui perché il linguaggio che usava era sempre adeguato alla persona che aveva davanti”. Era molto vicino anche alla realtà dell’Opera della Madonnina del Grappa e al suo presidente, don Corso Guicciardini, oltre a essere in contatto “col carisma di don Giulio Facibeni, al quale senza dubbio ispirava la sua vita di uomo e sacerdote.  Don Facibeni, infatti, era diventato per tutti i preti fiorentini e non solo un esempio di ciò che significa essere “per i poveri e dei poveri””.

L’attività del carcere ben corrispondeva a questa premessa, ovvero di trovarsi nei luoghi più bui e privi di speranza, dove si trovano gli ultimi degli ultimi, che vengono dimenticati e ignorati. 

“La sua esperienza presso le Murate si ricollega alle visite che in quello stesso Istituto, tempo prima, aveva fatto don Facibeni – dice il presidente dell’Opera don Russo – in entrambi, con tutte le dovute differenze, vi era la profonda partecipazione all’umanità sofferente che vi abitava, dalla quale non potevano distogliere in alcun modo la loro premura ed attenzione.

Di ritorno da una visita al reparto minori alle Murate don Facibeni scriveva:

 “Troppo la società dimentica le sue responsabilità nel naufragio di tante giovani vite; nel loro pianto e nella loro imprecazione non sente più l’accusa inesorabile a tutto il suo egoismo, alla sua incoscienza, alla sua superficialità (29 febbraio 1948 – Il Focolare). Affermare oggi una cosa del genere, dirlo ad alta e chiara voce, è molto rischioso eppure tanto vero”.

“Ho provato a farlo anch’io – dice don Russo – credendo fermamente che in tale affermazione risieda il principio di ogni concreto cambiamento, anzitutto culturale, intorno al silenzio indifferente che avvolge la realtà carcere e le storture che la caratterizzano. Ho provato, sperimentando sulla mia pelle tutte le conseguenze di esclusione e diffidenza e un costante tentativo di soffocamento di tale voce”. Ed ecco cosa accomuna molti dei “nuovi” evangelizzatori della Chiesa: l’esperienza fra i detenuti, nella parte della società più lontana dai riflettori, dai microfoni, dalle inchieste giornalistiche, dalle denunce, che spesso passano senza che nulla muti.

Ma il carcere non è un pianeta immutabile, come dice l’ex cappellano delle carceri fiorentine, mettendo sul tavolo alcuni punti chiave.

“Il carcere è un luogo che ieri come oggi presenta molte criticità, ma che allo stesso tempo, nel passare degli anni ha conosciuto trasformazioni. I cambiamenti intervenuti all’interno della nostra società hanno infatti inevitabilmente coinvolto anche questa realtà”.

“Al tempo di don Cuba, nelle carceri era accolta un’umanità piuttosto omogenea come origini e condizioni, quasi tutta proveniente dalla comunità locale – continua don Russo – oggi invece si affollano culture e storie diverse, molto distanti fra loro, che pongono questioni complesse quali quella dell’integrazione, della conoscenza reciproca, della convivenza fra culture ed etnie differenti. Anche la povertà che riempie densamente gli ambienti del carcere e che accompagna la storia di quasi tutti i reclusi, appare diversa da quella del passato perché conosce più sfumature e coinvolge maggiormente una condizione di profondo disagio psicologico e di frantumazione dell’identità”. Una maggiore complessità dunque, che rende più complessi anche i rapporti, le possibilità di mettersi in relazione, le ricadute psicologiche e sociali del pianeta carcere.

“Purtroppo, ad accogliere una situazione molto più complessa di quella del passato, vi è di contro una struttura fisica e organizzativa carceraria non adeguata che non sempre è stata capace di accompagnare queste trasformazioni e che, talvolta, appare non in grado di rispondere ai reali bisogni e di garantire così vero rispetto della persona e dei dettami costituzionali”, dice ancora il presidente dell’Opera.

Una chiave fondamentale per capire chi si trova nel luogo-non luogo “carcere” è la comprensione della “pesantezza del tempo vuoto che si vive in carcere, l’insopportabilità del “nulla” sia nel fare che nel sentirsi considerati – dice don Russo – una comprensione che era piena e genuina da parte di don Cuba, che aveva infatti organizzato l’ormai famoso “cineforum” per i carcerati, cercando così di rispondere al vuoto con un “pieno” di presenza gratuita, di legami e relazioni. Aveva capito che nulla serve se dietro non vi è un’autentica relazione, un essere accanto ed in concretezza, un vero condividere.  Se manca questo, se manca “il cuore” e se prende il sopravvento il meccanico dovere di ufficio o peggio ancora l’indifferenza, allora tutto si spenge e si consegna al nulla e all’insensatezza”.

Tirando le fila, qual è la situazione che attualmente caratterizza la realtà del carcere?

“Tante cose sono cambiate e non solo rispetto alla composizione della popolazione carceraria – dice don Russo – purtroppo però, lo dico con l’esperienza di chi per decenni ha svolto servizio in quei luoghi, sono cambiate in peggio, mentre ancora non si scorgono i segni veri di una volontà innovatrice”. Pur parlando tanto di innovazioni, in concreto non si raggiungono “risultati che realmente portino un concreto miglioramento delle condizioni, sia rispetto agli ambienti degli istituti sia rispetto alla qualità di vita delle persone detenute. Oggi, varcando quei cancelli, si entra in un mondo senza luce e con poche tracce di senso e speranza.  Un posto triste, cupo, chiuso oltremodo, dimenticato da molti e destinato ad assolvere all’ingrato compito di escludere, attraverso il contenimento di coloro che la società respinge. All’interno condizioni di vero disagio, sovente di insalubrità, nel quale le esigenze organizzative e le strutture del sistema finiscono per dimenticare i veri bisogni delle persone e, soprattutto, la loro non cancellabile dignità.  Nessun errore, anche il più grave, può diventare sostanza della persona, il cui valore è immutabile e indiscutibile.  Senza contare che le persone accolte fra quelle mura portano con sé storie di grande disagio, di estrema miseria, di abbandoni”.

Per quanto riguarda la presenza di associazioni e diverse sovrastrutture che erano completamente assenti ai tempi di don Cuba, “con tutto questo, si sperimenta una condizione di crescente spersonalizzazione, di distanza con le persone detenute. La solitudine è l’impronta più evidente che lascia traccia sul loro animo. Nel passato molto si fondava sulla relazione. Non c’era il fiorire odierno di associazioni ed altri attori deputati al compito educativo e di assistenza, ma esisteva solo la figura del Cappellano.  Un cappellano che, nel caso di Cuba, in condizione di estrema libertà di azione, poteva e sapeva parlare al cuore delle persone che incontrava, alle quali non offriva un servizio religioso formale ma una concreta presenza umana che diventava vicinanza e percorso condiviso”.

Il carcere dei nostri giorni, che ho personalmente conosciuto, è luogo dove spesso si vive incomprensione, apatia, indifferenza, abbandono – continua l’ex cappellano – molto procede a colpi di circolari e disposizioni. Ogni aspetto della vita quotidiana, nel suo essere spesso davvero pesante da sopportare, conduce ad una prevalente presenza del valore punitivo e afflittivo della carcerazione a discapito di quanto sancito dall’art. 27 della Costituzione. Quando il carcere non uccide, comunque, così come è oggi concretamente strutturato, lede gravemente i diritti. Non è affermazione esagerata dire che di carcere si muore: si contano infatti 84 suicidi nell’anno 2022, dei quali 6 nel nostro carcere fiorentino.  Vite avvolte in un’insopportabile solitudine, inascoltate, schiacciate da pesanti vissuti. Esclusi prima, esclusi ancora; questo il sentire dei detenuti i quali, in queste condizioni, difficilmente possono dare senso alla loro situazione”.

Una delle prerogative dell’azione di don Cuba era interpretare una “vera umanizzazione all’interno del carcere e, in una condizione di possibilità espressiva e operativa reali, faceva molto per alimentare la costruzione di vere relazioni, per accompagnare, per rispondere ad ogni solitudine e vuoto”.

“Oggi c’è poca attenzione alla relazione e la presenza di chi vuole reagire a tutto questo è sempre più resa difficile, quasi ostacolata da un sistema che fa fatica a cambiare o che segue altre priorità – continua don Russo – ho conosciuto tante storie in quel mondo, ho toccato l’estrema sofferenza e la solitudine affettiva. I detenuti di oggi sono sempre più soli e non possono nemmeno contare, come un tempo, su una famiglia vicina all’esterno. Intorno a loro si staglia una realtà dove manca anche quella dimensione comunitaria, che un tempo caratterizzava ancora la vita del carcere”.

La testimonianza resa da don Cuba, conclude Vincenzo Russo, è vitale per tutti coloro che vogliono ripercorrere la sua strada, pur in condizioni mutate, dal momento che “Cubattoli si  muoveva secondo le indicazioni del cuore e della fede in Gesù Cristo. Guidava le persone a cogliere la loro situazione di sofferenza e in ciò li accompagnava alla scoperta di sé e del loro essere amati. Sapeva vivere e far vivere la CARITA’, che è il sale della vita per ognuno. Una carità non calata dall’alto ma incrocio con la sofferenza e il dolore: un abbraccio fraterno capace di diventare forza di vita”.

In foto Vincenzo Russo

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