Filosofia e Pittura: entrambe rispondono alle sfide dell’apparenza

Il pensare oltre se stesse rende loro possibile trovare i punti critici

“Riprodurre non il fatto nella sua semplicità, ma tenendo conto
Dei suoi diversi livelli, in modo da toccare nuove aree di sensazioni
Che conducano ad un senso più profondo della realtà dell’immagine.
Si tenta cioè una costruzione, grazie alla quale la cosa sarà catturata
Nuda e cruda: viva, così com’è – eccola!”
(Francis Bacon)    
  

Nell’impostare il discorso in merito alla relazione reciproca che intercorre tra pittura e filosofia, assumo queste due attività umane, come si trattasse di due veicoli che, nelle differenti epoche del loro rapportarsi vicendevole, han corso paralleli l’uno all’altro, i cui passeggeri si son lanciati messaggi e sguardi e richiami: a volte, anche occhiate storte. Il genere di rapporto di volta in volta istituitosi tra di loro, può essere definito, in certo modo, come di natura sintomatica: da un lato, esso è sintomatico delle trasformazioni maturatesi all’interno dello specifico linguaggio e dello statuto di pittura e filosofia; dall’altro, tale rapporto è sintomatico dello stato dell’umano, delle questioni che lo attraversano e lo muovono. In definitiva, la trama della loro relazione è costituita dal lavoro di confronto che pittura e filosofia inaugurano, di volta in volta, con ciò che è non pittura e non filosofia.

Per inserire tale vicenda in un contesto storico dinamico, prendo le mosse da un motivo, apparentemente eccentrico, da una riflessione formulata dall’artista-pensatore Paul Valèry. “Senza i suoi parassiti, ladri, cantori, mistici, danzatori, eroi, filosofi, gente d’affari – si legge in una notazione di Rhumbs -, l’umanità sarebbe una società animale, o nemmeno una società: una specie; la terra sarebbe senza sale”[1]. Da questa lista di varia umanità manca il richiamo esplicito al pittore, ma il tema è, come noto, oggetto di costante riflessione da parte di Valéry: non solo quella rivolta al pittore-ingegnere-architetto Leonardo da Vinci ma, soprattutto, a Degas, pittore danzante. Ciò che, dal nostro punto di vista, costituisce l’elemento rilevante della considerazione qui abbozzata, sta nel quadro complessivo all’interno del quale Valèry inserisce la figura del filosofo e dell’artista: il contesto è costituito da una società, per così dire, di secondo grado, o meglio, ad alto tasso di culturalità; una natura di secondo grado.

Per questa via, l’affresco sociale abbozzato da Valéry – in cui filosofi e cantori e danzatori convivono nella città umana – si incontra in costellazione con un altro affresco di città, quello delineato, epoche prima, da Platone, all’interno del suo dialogo Repubblica (II 372e-373a), nel quale Socrate e Glaucone conversano, “costruiscono a parole”[2] lo Stato. Il loro discorso prende le mosse dalla Polis “povera”, quella fondata dagli uomini sulla esigenza di garantirsi i beni di prima necessità: cibo, alloggio e vestiario. Ad un certo punto del discorso, però, Glaucone rilancia la posta del giuoco mentale, di questi disegno od architettura mentali, spostando il piano di progettazione della Polis da quello limitato alla garanzia dei beni primari, a quello di un livello di sociazione più articolato e complesso, a crescente grado di culturalità, il quale investe pienamente anche la vita dei sensi, la storia del loro farsi sociale.

L’affresco sociale tratteggiato da Socrate in risposta al nuovo livello imposto da Glaucone all’esercizio di progettazione mentale si arricchisce di una umanità inedita, animata da nuovi bisogni sociali, prima non avvertiti: “letti e tavole e suppellettili” in gran quantità; “incensi e profumi e etère”, “oro, avorio e ogni altra simile materia”, “pittura e ricamo”, nuovi bisogni che spingono ad introdurre in città “imitatori, i molti che si occupano di figure e colori o di musica, poeti, rapsodi, attori”[3]. In questa serie di attività umane, il filosofo non è menzionato, ma egli attende, come noto, alla conclusione di Repubblica, nel X libro, quando sarà al governo di tale Stato.

È su questo sfondo di città che “sale”, cresce in termini di culturalità che intendo inserire il confronto tra pittura e filosofia, riconoscendo alla pittura il carattere di attività non meramente rispondente ad un, presunto, impulso naturale a raffigurare, bensì di consapevole attività di creazione di ambiti di realtà e, quindi, di valutazione dell’apparenza. In questo senso, potremmo dire che la ragione del competere tra pittura e filosofia riguarda il piano della mimesi, di quella mimesi che, nelle diverse epoche di culturalizzazione dell’esistenza, si fa problema.

Ciò affiora già nella posizione maturata dal filosofo Platone rispetto alla pittura, della quale egli intravede più sviluppi possibili, modalità di genere diverso. Nella città a crescente artificialità, il cui ambiente di vita è costantemente impegnato nella valutazione dello Pseudos, di ciò che è slippery e ambiguo, anche la pittura si chiede, se il colore è la cosa, ovvero, se il colore colore pittorico è il colore dell’oggetto rappresentato. In corrispondenza di tale domanda, la pittura può svilupparsi in direzione diversa, rispetto a quella che la riduce a “specchio”, attrazione per gli occhi, festa di colori: pingere come fingere.

Nell’ambiente umano, nella Polis cresciuta in “ricchezza”, dunque, pittura si dà come attività di un pensare di genere tutto particolare, per il quale l’apparenza di vita costituisce sfida, questione relativa alla sua possibilità d’essere in forma e colori. Così assunta, pittura si costituisce come modalità di pensiero il quale, rende ragione di ciò che le è differente e, nel colore, mantiene validi i diritti di questo: non lo riduce mai a sé. Essa si fa buona vicina del vivente, ovvero, prossima a ciò che è non pittura, all’impulso mimetico.

Abbiamo richiamato il tema del colore, ma, qual genere di colore è qui in questione? Quale rapporto si istituisce tra colore e pensiero? Quali messaggi e sguardi lancia una tale pittura alla filosofia?

“Non si dipinge con i colori […] ma con rapporti cromatici”[4], scrive Adorno in: In luogo di prefazione. Ciò significa, che si dipinge non per mezzo dei singoli colori, ma sempre con l’intera pittura, condensata e cristallizzata nel suo materiale storico; in secondo luogo, la riflessione Adorniana ricorda che il colore pittorico è materiale non naturale, mai neutro, bensì attraversato dai campi di tensione della propria storia, animato da una propria intenzione, la quale resiste a quella dell’artista, al dominio da questi tentato ai suoi danni. Ogni pittura è, dunque, un posizionarsi rispetto a tale materiale storico, su cui soffiano i venti di ciò che, ancora, è non forma.

Tale accezione del colore fornisce elementi di chiarimento in merito alla pittura quale specifico modo del pensiero: un pensiero che definiamo, in situazione. Un contributo decisivo in questo senso proviene dalla concezione che del colore è elaborata da Johann Wolfgang Goethe. “La nascita del colore ed il suo determinarsi – si legge nel § 695 di La teoria dei colori – sono tutt’uno. Se la luce presenta sé e gli oggetti in una assoluta neutralità e ci rende consapevoli di un presente senza significato, il colore è invece sempre ogni volta specifico, caratteristico, significativo”[5]. Con questa posizione, non solo ci collochiamo al di là del colore della cosa, intesa come entità stabilizzata e orfana del “brivido” del vivente; con il suo discorso, Goethe ci conduce ancor più lontano, ovvero, al di là della consueta e schematica contrapposizione tra colore e disegno, in quanto, nella concezione Goetheana, il disegno è compreso nel colore stesso. Colore-disegno del vivente, il quale prende forma, di volta in volta, determinata ed inconfondibile, in riferimento al punto di prepotere e di debolezza delle forze in campo: ai momenti di resistenza e di ritrazione, di improvviso slancio, come metamorfosi in senso Goetheano.

Nella proposta del poeta tedesco, il vivente – sia esso pianta o fiore, ma anche la terra su cui esse si sviluppano – assume colore determinato – bianco o giallo o verde – in rispondenza ad un preciso resistere al terreno su cui il singolo vivente vive, in rispondenza ad un esatto suo espandersi o ritrarsi, ad un suo far fatica rispetto alla durezza o lievità del terreno, processo nel quale esso prende colore-forma: colore-forma che diviene volto, emergente nel e dal colore; si individua e specifica come forma vivente, senza però mai staccarsi dal processo in cui vive ciò che è non forma.

Seguendo tali linee di riflessione, la pittura come modalità del pensiero si presenta come non un pensiero sulle cose, bensì come pensiero che si sviluppa nelle cose, a contatto con esse, oggettuale, in quanto non perde di vista i processi, il particolare, le tensioni che lo attraversano in quanto vivente, ovvero, quando tale particolare ancora vive e non è il concetto di sé. “Definibile – scrive Friedrich Nietzsche in Genealogia della morale – è solo ciò che non ha storia”[6]. In questo senso, la pittura come modalità del pensiero osa “pensare al di là di se stessa”[7], ovvero, oltre ciò che è già pittura stabilizzata, codificata, costituendo, così, richiamo a quella filosofia che, nel progetto elaborato da Adorno in Dialettica negativa, vuol pensare oltre il concetto, recependo il “brivido” proveniente dall’impulso mimetico, che l’arte conserva[8].

Senza alcun scivolamento nella pseudomorfosi, cioè, nel farsi simile l’una all’altra, pittura “informelle” – non pittura informale – lancia i suoi messaggi alla filosofia, per così dire, “informelle”. Nel loro “pensare oltre” se stesse, nel loro operare micrologicamente all’interno dei processi, esse sanno trovare i punti critici, i punti di svolta, che indicano una via di uscita, il momento del ribaltamento, l’aperto.

Il quadro pittorico riuscito è questo: il suo punto di realizzazione.      

Luca Farulli è docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Firenze e all’Università di Pisa

[1] Paul Valéry, Rombi e Altri Rombi della rosa dei venti, Torino, Robin 2015, p. 61.

[2] Platone, Repubblica, II, 11, 369 c.

Platone, Repubblica, II, 13, 373 a.

[4] Theodro Wiesengrund Adorno, In luogo di prefazione, in: Th. W. A., Parva Aesthetica. Saggi 1958-1967, a cura di R. Masiero, Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 78.

[5] Johann Wolfgang Goethe, La teoria dei colori, a cura di R. troncon, Milano, Il saggiatore, 1978, p. 173. Il corsivo è nostro.

[6] Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, in: F.N., Opere, a cura di G. Colli e M. Montanari, Milano, Adelphi, 1968, Volume VI/II, p. 279.

[7] Theodor Wiesengrund Adorno, Vers une musique informelle, in: Th. W. A., Immagini dialettiche. Scritti musicali 1955-1965, a cura di G. Borio, Torino, Einaudi, 2004, p. 237.

[8] Theodor Wiesengrund Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1975, p. 15.  

In foto Jacques-Emile Blanche ritratto di Paul Valery

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