Prato – L’inquietante scenario internazionale che coinvolge l’intero pianeta a seguito del conflitto russo ucraino si sta traducendo in un rallentamento economico, in inflazione e razionamento dell’energia. Parole che non sentivamo da più di settant’anni, ma che mostrano in maniera inequivocabile l’avvicinarsi di una crisi di sistema tra le più gravi e profonde dall’ultimo conflitto mondiale.
Di questo e degli scenari di un’economia di guerra si è discusso in un panel a Prato dal titolo “E tornammo (forse) a riveder le stelle”,all’interno della terza edizione di Festival Seta.Dialoghi sulla Cina Contemporanea. Dall’aumento del costo delle materia prime, dalle difficoltà nell’approvvigionamento logistico, alla crisi energetica, Sergio Paba, professore di economia al Dipartimento Marco Biagi dell’università di Modena e Reggio Emilia, ha delineato le possibili conseguenze della guerra sui processi di globalizzazione, in particolare sui rapporti economici e di scambio tra USA, Europa, Cina e Russia, e dei rischi per l’economia globale delle politiche di “disaccoppiamento”.
“Nel recente passato c’erano dei perfetti meccanismi di interscambio economici e complementari tra la Cina e l’Europa, (grazie alla Via della Seta che sfruttava i territori asiatici come terre di mezzo per arrivare in Europa); la Cina e la Russia e la Cina e gli Stati Uniti – ha esordito Paba -. Un equilibrio economico che analisti finanziari e il Fondo Monetario Internazionale interpretavano come un successo per il gigante asiatico prevedendone tra il 2030 e il 2040 il passaggio da seconda potenza economica mondiale a prima economia del mondo.
Un’ipotesi che non tranquillizzava affatto gli Stati Uniti e dapprima la pandemia, con cui si indebolirono quegli scambi commerciali che erano l’anima delle relazioni tra i tre blocchi internazionali, poi la presidenza Trump,che scatenò una vera e propria guerra commerciale imponendo dazi altissimi all’import cinese, incrinarono i rapporti commerciali tra i due Paesi leader dell’economia mondiale. Il che però non si tradusse, come sperava Trump, in un vantaggio americano perché negli Stati Uniti diminuirono il numero dei lavoratori e il prodotto interno lordo riportò un segnale negativo».
Continua Paba: “Se dunque nelle intenzioni di Trump c’era la volontà di mettere un freno alla globalizzazione impedendo così alla Cina di imporsi nel panorama mondiale come prima potenza economica e poi anche politica, il prezzo che pagarono gli americani fu alto. Con l’amministrazione Biden però le cose non sono cambiate. Anzi in un documento della Casa Bianca del giugno del 2021 si auspicava la creazione di “Reti di fornitura resilienti” per evitare un asservimento degli Stati Uniti alla Cina. Ovvero evitare che certi investimenti potessero favorire la produzione cinese di tecnologie chiave e indebolire così gli Stati Uniti, lasciando il Paese pericolosamente dipendente dalle importazioni cinesi. Tra i settori interessati quelli dei semiconduttori, la tecnologia quantistica, l’intelligenza artificiale, i minerali e materiali critici e super-batterie».
Un’atteggiamento quasi ostile contro la Cina, confermato, secondo Paba, da Janet Yellen segretario al Tesoro che “mise in guardia sulla dipendenza commerciale dalla Cina chiedendo un riorientamento delle pratiche commerciali mondiali sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina, insistendo nuovamente affinché i Paesi diventassero meno dipendenti dalla Cina per componenti critici come i semiconduttori. E in un recente consesso internazionale la stessa Yellen parlò del cosiddetto “friend-shoring”, un cambiamento che vorrebbe che gli Stati Uniti e i loro alleati commerciassero più strettamente tra loro e meno con i rivali geopolitici. Perché le interruzioni dei rifornimenti durante la pandemia di Covid-19 così come la guerra in Ucraina di fatto hanno messo in luce il pericolo di dipendere troppo da un singolo Paese».
In questo scenario il ruolo dell’Europa appare ovviamente in bilico: se cioè perseguire i propri interessi economici e politici riconoscendo l’ascesa pacifica della Cina allo status di grande potenza, oppure allinearsi ai voleri della potenza americana in declino, ma ancora con capacità economiche importantissime, tecnologiche e militari, che però vuole contenere la Cina, accelerando la deglobalizzazione e la regionalizzazione del mondo in blocchi economico-militari contrapposti. La Cina,è bene ricordarlo, a partire dal 2000 ha prodotto forti investimenti nel Vecchio Continente, ma negli ultimi anni il trend è fortemente negativo per tutta una serie di fattori di contesto e di scelte politiche. «Fino a qualche anno fa, – ha detto Paba,- non era stata posta alcuna limitazione in Europa agli obiettivi cinesi in nome del principio di libera concorrenza, ma recentemente il quadro è cambiato in virtù dell’attribuzione alla Cina dello “status di competitor” di natura sistemica.
Va da sé poi che in questa situazione un trattato di reciprocità di investimenti economici siglato dal Parlamento europeo sette anni fa ma mai ratificato per via di alcuni funzionari cinesi coinvolti nei campi di lavoro, non ha fatto decollare alcuna importante produzione tra i due blocchi continentali.Inoltre in Europa vige un regolamento che mette paletti agli investitori esteri nell’acquisizione di imprese sensibili: comunicazioni,difesa etcc… da parte soprattutto da Paesi non amici. Ovvero quelli caratterizzati da un forte potere politico centrale. Ovvio il riferimento non troppo velato alla Cina».
« E in Italia,- conclude Paba,- pur nel rispetto del Golden power abbiamo assistito a un diverso atteggiamento nei confronti della Cina specie negli ultimi due governi: più conciliante quello di Conte, rigido Draghi. Ora però il gigante asiatico è il Paese che detiene il controllo delle più importanti materie prime al mondo:litio e cobalto che sono indispensabili per il futuro tecnologico del pianeta e c’è da chiedersi se è etico commerciare con un Paese che pur non essendo ostile è tuttavia diverso. Anche se “la via della seta” ci ha insegnato che gli scambi possono avvenire anche tra chi non la pensa allo stesso modo purché tra le diversità si cresca insieme».
Foto: Sergio Paba