Povertà, Zamagni: il grande equivoco della parola meritocrazia

Per l’economista, è necessaria una svolta nel sistema istituzionale -economico-sociale

Stefanio Zamagni, riminese, 81 anni, uno degli economisti che ha modellato la scuola economica del nostro Paese e generazioni di giovani, è un appuntamento obbligato per fare il punto su un concetto doloroso e spesso maltrattato come indecoroso dalle (sempre meno) opulente civiltà occidentali: la povertà. Abbiamo raggiunto l’insigne studioso che vive e insegna a Bologna, per porgli alcune domande che ci aiutino a comprendere la resistenza e addirittura l’allargarsi fuori controllo dell’area della povertà.

Perché esiste la povertà?

“Quello della povertà è tema antico, basterebbe leggere l’Antico Testamento per averne conferma. E’ quindi un tema che è sempre stato connaturato all’umanità. Ciò che però si dimentica di dire, ed è una lacuna molto grave, è che a partire da allora e nel corso del tempo, si sono sviluppate due linee interpretative del fenomeno: quella di più antica origine attribuisce la povertà alla colpa del povero; la povertà è la condanna che spetta a qualcuno, per le malefatte che lui, o lei o la sua famiglia ha commesso. Il meccanismo è quello che in campo antropologico viene definita la teoria del capro espiatorio. Questa tradizione evidentemente ha avuto grande successo, Del resto, non bisogna essere psicologi o sociologi per capire che questa tesi fa comodo a molti, pensare che la povertà sia conseguenza di comportamenti inadeguati, della mancanza di voglia di lavorare, e così via”

La seconda linea di pensiero?

“L’altra linea di pensiero, che si affaccia fra il 1200 e 1300 in Italia, è legata alla scuola di pensiero francescano. Di ciò in Italia, eppure si tratta di un pensiero italiano, non si fa parola, mentre all’estero se ne parla e si discute diffusamente. Secondo questo pensiero, la colpa primaria della presenza della povertà è da attribuirsi all’assetto sociale, ovvero al modo in cui la società è andata organizzandosi. Quindi, i poveri sono l’effetto di un modo errato di concepire l’organizzazione sociale. Ed è per questo che i francescani daranno vita in seguito all’economia di mercato, mettendone in atto i fondamenti. Pensiamo ad esempio alla costituzione dei Monti di Pietà, fatta dai francescani, che intendevano in questo modo scavalcare la piaga dell’usura, strangolava le persone portandole anche alla morte. I francescani non si limitano a lanciare prediche di condanna rispetto agli usurai, ma trovano il modo per bypassarli, sottraendogli clienti, tant’è vero che i francescani erano esecrati in modo particolare dagli usurai”.

Di queste due interpretazioni della povertà, cosa resta ai nostri giorni?

“Arrivando ai giorni nostri, questa seconda linea di pensiero, che continua a essere ben presente, anche se è meno potente rispetto alla prima (quella che vede nella povertà la retribuzione di una colpa, ndr), è quella legata al concetto di “strutture di peccato” introdotto da Papa Paolo Giovanni II nell’Enciclica del 1987 intitolata “Sollecitudo rei socialis”. Per la prima volta in assoluto, Giovanni Paolo II utilizza il termine strutture di peccato, che all’estero viene utilizzato moltissimo ( “structures of sin”) ma in Italia non si menziona neppure. Cosa vuol dire strutture di peccato? Sono le istituzioni economiche e soprattutto finanziarie, che tendono a generare endogenamente la povertà. La quale può colpire indifferentemente un soggetto o l’altro a seconda delle cause e delle circostanze, ma all’origine c’è un modo di concepire la vita economica e sociale che ha bisogno della presenza più o meno costante di una percentuale di poveri. Se vogliamo essere seri e combattere davvero la povertà, è inutile continuare con la linea antica della colpa (ovvero il povero colpevole di essere povero), quella che ad oggi è stata rinverdita col concetto di meritocrazia”.

In che senso?

“Spero davvero che chi usa questo termine, sia in buona fede. Perché? Perché chi usa il termine meritocrazia non sa di cosa parla. Meritocrazia è una parola greca che unisce merito e kratòs, ovvero potere. Ovvero, una parte di potere a chi raggiunge certi livelli. Il concetto sposato dalla linea originata dai francescani invece è quello di “meritorietà”. La meritorietà è un’opera di giustizia, e significa dare a ciascuno ciò che si merita. Ma questa non è meritocrazia, perché la meritocrazia attribuisce il potere e con quel potere verranno fatte leggi che perpetueranno e aumenteranno il potere acquisito; come una valanga che nel rotolare a valle ingrossa sempre di più”.

Si potrebbe dunque dire che la meritocrazia è l’ultimo anello di una catena che parte millenni fa e che fa della colpa la cifra della povertà?

“Nella loro saggezza, i Greci, per esprimere questa linea di pensiero, avevano coniato un termine, ovvero “aporofobìa”, ovvero “disprezzo del povero”. Il povero si trova due volte penalizzato: in primo luogo, perché vive una condizione di vita miserevole e disperata; in secondo luogo, perché a causa di ciò viene disprezzato e colpevolizzato. Aggirandoci per la città, vedere qualcuno che dorme per strada o tende la mano, suscita pensieri ostili, disprezzo. Questa linea di pensiero, ben presente in Europa, si trova soprattutto al Nord, legato culturalmente a quella formazione calvinista che vede nella povertà una retribuzione delle proprie colpe e addirittura il preavviso della condanna celeste. E quindi, il povero doppiamente bastonato, perché oltre alla condizione fisica e sociale, viene meno anche la compassione per la sua esistenza umana”.

Qual è il punto, al giorno d’oggi?

“Dal momento che così non si può andare avanti, mi aspetto nel prossimo futuro che qualche cosa di importante avvenga. Il motivo è che questa linea di pensiero funziona fintanto che i poveri sono pochi e se ne stanno fermi e buoni. Ma oggi i poveri non stanno più né fermi né buoni, e sono tanti, sono circa un miliardo, un miliardo e mezzo a livello globale. Oltre un miliardo di poveri inferociti alterano tutti gli equilibri sociali; quindi sarebbe bene che i “benpensanti” invece di fare la guardia alla meritocrazia, facessero un riflessione su questo. Vedo però che sta riprendendo quota l’altra linea, che è quella di cambiare l’assetto istituzionale”.

Vale a dire?

“Oggi è notorio che sia la finanza speculativa, a originare povertà. Quello della finanza è un gioco a somma nulla: quello che perdo lo guadagna l’altro. Per cui se giochiamo e perdo, divento povero; ma divento povero a causa del fatto che sono entrato in quel gioco infernale e senza regole. Un esempio classico di un meccanismo socio-economico che genera la povertà .Perché non regolamentiamo la finanza? Altro esempio, i paradisi fiscali, che, lo sanno anche i sassi, creano povertà. Perché tenerli aperti? Per concludere: pur non illudendomi, constato che col passare del tempo le persone oneste e intelligenti comprendono che questa è la direzione verso cui andare. Non si tratta solo di un problema di pietas o compassione, che riguarda l’aspetto moralistico, il problema è di ordine socio-politico. Lo diceva già Aristofane: se si vuole la democrazia, non si possono avere troppi poveri. Un po’ si possono tollerare; ma se sono troppi, inceppano il meccanismo democratico”.

Anche per quanto riguarda i consumi, è vero che troppi poveri rappresentano uno svantaggio ?

“In realtà, è emersa una nuova teoria di cui per ora in Italia non si parla o se ne parla poco, che guarda all’induzione al consumo anche degli strati sociali poveri, che ruota attorno al concetto di “beni di tentazione”. Si tratta di quei beni che non servono a niente rispetto ai bisogni reali , ma si inducono i poveri o percettori di bassi redditi, ad acquistarli sotto la lusinga che, in quel modo, si può risalire la china. Così chi ha qualche soldo, invece di essere accompagnato a investirli in piani di investimento adeguati, gli si fa comprare il telefonino, ad esempio. Questi sono i beni di tentazione. E’ stato dimostrato per via empirica, statistico econometrica, che oggi larghe fette di povertà sono dovute all’effetto tentazione. Si porta via quel poco potere d’acquisto così si alimenta la macchina del profitto. E’ chiaro che tutto ciò è destinato a scomparire, ma intanto le persone che ci cascano vivono in quella condizione di vita “.

In conseguenza a tutto ciò, è credibile che il capitalismo, che si basa sul profitto, possa rinunciare a produrre poveri?

“Questo è un interrogativo centrale. I capitalisti non sono tutti uguali. Ci sono gli stupidi, che sono la maggioranza, e ci sono gli illuminati che capiscono questi meccanismi e quindi comprendono che, aumentando le aree di povertà, corrono il rischio di scomparire loro stessi. Resta tuttavia molto da fare. Finora, hanno declinato questa presa di coscienza a livello individuale, per singola impresa, ovvero con aiuti ai dipendenti, ai loro familiari, agli amici, ecc. Ma ciò non basta. Devono concentrare i loro sforzi per arrivare alle strutture di peccato. E’ su questo passaggio che ancora non ci siamo. Si trovano, oggi, capitalisti filantropi, però rimane un rapporto bilaterale fra loro e certe categorie di beni. Invece, devono arrivare alle istituzioni , ovvero andare dai governi , dai parlamentari, chiedendo con fermezza di cambiare le regole , che questi cambiamenti possono danneggiare anche loro stessi. Preferisco il capitalista che invece di consegnare un miliardo all’anno in beneficenza, ci rimette un miliardo facendo cambiare la regole del gioco. E’ questo che occorre far capire ai grandi imprenditori. alcuni lo hanno già capito, ma si tratta di una minoranza”.

Fra gli strumenti che potrebbero essere utilizzati per cambiare le regole, oltre alla presa di coscienza il più possibile collettiva dei capitalisti nel senso che lei ha ben spiegato, qualcuno parla anche di Carità. Ma la Carità non potrebbe invece essere un modo per spuntare, smussare e alla fine nuocere, ai diritti?

“Si tratta anche questa volta di ignoranza, che, se condita di cattiveria, è un mix ancora peggiore. Il termine Carità proviene dal greco Karis, che significa grazia. Da noi, carità ha assunto il significato di “far l’elemosina”. Ma è esattamente il contrario. La forma più alta di carità è il dono, non la donazione. Noi tendiamo invece a confondere il dono con la donazione. La donazione riguarda l’oggetto, che può essere monetario, in natura, non importa: regalo un oggetto. Si tratta di filantropia, che è stata inventata dagli americani: prima si fanno i soldi, ma a fine anno si dà qualcosa agli altri. Da noi invece è prevalsa l’idea, di origine francescana, del dono gratuito, dove gratuito non vuol dire gratis, ovvero a zero soldi, ma vuol dire infinito. Dono infinito. La gratuità tende all’infinito. Perciò il dono è il gesto con cui mi rapporto ad altri, in 8na determinata situazione, per rimuovere le cause. Questa è la carità. Praticare la carità vuol dire aggredire le cause che producono determinati effetti. Se invece curo le piaghe, le ferite, ma non vado alle cause che hanno generato quelle ferite, compio una donazione, farò il filantropo. E’ una pratica ipocrita. La carità porta ad aggredire le cause”.

Foto: Luca Grillandini

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