Manovra, ok senza gloria. Interventi conservativi con gli occhi a Bruxelles

Giorgetti: essere prudenti non significa mancare di coraggio

Alla fine, come ogni anno, la legge finanziaria è stata licenziata. Alla fine, come ogni anno, c’è voluto il rush finale, fiducia compresa, per cui i senatori non hanno toccato palla, si sono limitati al voto, sì o no, pena l’esercizio provvisorio.  Due mesi alla Camera, due giorni al Senato, questo l’iter parlamentare della manovra finanziaria 2025, la terza dell’era Meloni, 144 articoli, 30 miliardi di stanziamento, 800 emendamenti e 64 ordini del giorno mai esaminati.

Il senatore meloniano Guido Liris, presidente della commissione Bilancio, si dimette da relatore mandando in Aula il provvedimento solo per mezza giornata di venerdì 27 dicembre, qualche ora di discussione generale, la replica del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, poi il governo pone la questione di fiducia e sabato 28 la manovra è legge: 112 sì, 67 no e un astenuto. Due giorni. Non serviva il relatore, ma solo il pulsante per votare. “Purtroppo dal 2018 ad oggi la legge di Bilancio viene esaminata senza la doppia lettura nelle due Camere”, sintetizza lo stesso Liris. Il costituzionalista Michele Ainis trae conclusioni più generali parlando di ‘monocameralismo alternato’. L’esame della principale legge dello Stato, di fatto,  un anno tocca alla Camera, l’altro al Senato.

La questione di metodo, la democrazia dimezzata con un’ala del Parlamento mortificata al ruolo di mero votificio tiene banco nelle poche ore di discussione consentite nell’aula di Palazzo Madama. Ne parla anche il ministro Giorgetti, che invita a rivedere le procedure: “La compressione del dibattito parlamentare non è una cosa di oggi e neanche di ieri. Siccome la legge di contabilità bisogna riformarla in base alle nuove regole europee, è già partito un lavoro preliminare. Ma è materia parlamentare, non di governo”.  Intanto diventa materia di scontro politico, ‘a maggioranze alternate’ –  direbbe Ainis – nel corso degli anni: “Una maggioranza arrogante  di fatto ha esautorato il Parlamento commissariando la democrazia italiana”. Era Giorgia Meloni, quando fu Mario Draghi a mettere la fiducia sulla sua manovra e lei era l’unica agguerrita rappresentante dell’opposizione. E ora tocca a Elly Schlein, segretaria del Pd, la prima forza di opposizione: “Una manovra approvata a colpi di fiducia che non lascia il minimo spazio alla discussione del Parlamento e umilia la sua stessa maggioranza”.

La questione di metodo quindi agita gli animi dei legislatori ormai da vari anni ma anche nel merito, i sovranisti dell’esecutivo più di destra che ha avuto l’Italia guardano indietro, si sono fatti prudenti e un po’ democristiani: “Addirittura la cifra rivendicata da questo governo è rappresentata dallo spread e dalle agenzie di rating, neanche fosse un governo Monti. Dal governo Meloni al governo Montiloni è un attimo”, ironizza il presidente dei senatori 5Stelle Stefano Patuanelli.

I numeri dicono che dei 30 miliardi destinati alla manovra, la fetta più grossa, circa 17, se la prende il cuneo fiscale che diventa strutturale, ampliando da 35mila a 40mila euro la soglia di reddito che permette di aver accesso al taglio. E strutturale diventa anche l’accorpamento delle aliquote Irpef su tre scaglioni: 23% fino a 28mila euro, 35% fino a 50mila euro e 43% oltre i 50mila euro. Non ce l’ha fatta Forza Italia ad ottenere l’abbassamento del secondo scaglione al 33%. Colpa anche del fallimento del concordato fiscale al quale ha risposto solo il 12% dei potenziali interessati.  E’ stato poi introdotto un tetto di 14mila euro a tutte le detrazioni fiscali per la fascia di reddito tra i 75mila e i 100mila, con l’eccezione delle spese sanitarie e quelle relative ai mutui per la casa.

Capitolo imprese:  il governo premia quelle che accantonano almeno l’80% degli utili dell’esercizio 2024 e ne reinvestono in azienda almeno il 30%, abbassando per loro l’Ires al 20%, ma servono una serie di condizioni, per cui è stato calcolato che solo 18 mila imprese potranno goderne, lo 0,4%.

La famiglia è il cavallo di battaglia del governo Meloni e della destra sovranista che incita ai matrimoni tradizionali con tanti bambini, per combattere la grave crisi demografica. La finanziaria ha provveduto a suo modo, con la ‘carta nuovi nati’, un bonus dell’importo di mille euro per tutte le famiglie che fanno un figlio nel 2025, purché abbiano un reddito al di sotto dei 40mila euro. Previsto anche il prolungamento a tre mesi del congedo parentale retribuito all’80% . In più, l’importo dell’Assegno unico e universale sarà aumentato del 50% per il primo anno di vita del bambino o della bambina.  Ancora, confermato ed esteso alle lavoratrici a tempo determinato e a quelle autonome, lo sgravio contributivo: dal 2025 spetta alle lavoratrici madri di due o più figli, fino al compimento del decimo anno d’età del figlio più piccolo.

Ma non è soddisfatto neanche il ministro Giorgetti che, in Aula al Senato, ha dichiarato il suo “rammarico” perché sulla famiglia avrebbe voluto fare di più: “Non si tiene mai nel dovuto conto che la crescita del Pil in decrescita demografica è imbarazzante. Un paese dove non nascono bambini e che invecchia non ha futuro”. Ma il governo non è stato molto generoso neanche con chi invecchia: ai pensionati poche briciole,  l’aumento delle minime è di 3 euro e i 1000 euro promessi in campagna elettorale da Forza Italia sono ben lontani. Un dispetto la manovra l’ha fatto anche alla Lega che sulla battaglia alla legge Fornero aveva costruito più di una campagna elettorale. Niente da fare, non solo non si tocca il limite di 67 anni per la pensione di vecchiaia, ma lo si estende ai dipendenti pubblici (che potevano andare anche a 65). E, incentivati, si può perfino restare a lavorare fino ai 70 anni. Restano Ape sociale e Opzione donna. La novità riguarda invece l’introduzione della previdenza complementare che può essere cumulata a quella obbligatoria e, raggiungendo un assegno pensionistico pari a tre volte il minimo, si riesce ad anticipare la pensione a 64 anni.

Sulla sanità i numeri ballano, questa è la manovra che rilancia il principio di relatività: per governo e maggioranza si è fatto uno stanziamento record, con un aumento di 2,5 miliardi al Fondo Sanitario nazionale per il 2025. Per opposizione e sindacati siamo invece ai minimi storici. Tutto è relativo, appunto. Dipende dal Pil, lo spiega Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe: “In rapporto al Pil il Fondo sanitario nazionale scenderà dal 6,12% del 2024 al 5,7% nel 2029. Ovvero, cambiando unità di misura si passa da ‘cifre record’ ai ‘minimi storici’”. Gli aumenti sulle retribuzioni di medici  (17 euro) e infermieri (7 euro) sono mortificanti e, anche se a questi ultimi viene applicata dal  2025 una flat tax al 5% sugli straordinari, è tutto ben poca cosa rispetto alla grave crisi in cui versa la nostra sanità: “Dal 2019 al 2023- spiega sempre Cartabellotta- il Sistema sanitario nazionale ha perso oltre 11mila medici e 40mila infermieri per le condizioni di lavoro massacranti”. Le liste d’attesa crescono e non si sono messi rimedi efficaci. Il risultato è che  4 milioni e mezzo di persone rinunciano alle cure mediche, quasi la metà perché non ha i soldi per curarsi.

Sulla cultura invece i numeri neanche ballano, nessun margine di interpretazione, solo tagli netti e progressivi per i prossimi 3 anni: -147 milioni nel 2025; -178 milioni nel 2026 e -204 milioni nel 2027.

E anche per i Comuni non è rimasto niente: con i vincoli previsti sulla spesa corrente, lamenta l’Anci, “saremo obbligati a imprigionare risorse e tutto questo si scaricherà inevitabilmente sui servizi che eroghiamo. Sicuri che sia giusto imbrigliare i Comuni che utilizzano ‘solo’ il 6% della spesa corrente della pubblica amministrazione?”.

Per la scuola la misura più significativa è l’assunzione a tempo indeterminato di 1.866 docenti di sostegno, poi il fondo psicologo e i corsi sull’educazione sessuale e affettiva. Pochi spiccioli, che non placano le proteste del settore. Il ministro Giorgetti si difende ricordando che “in 5 anni la scuola ha perso 500mila studenti e la spesa è rimasta uguale”.

Su tutto poi viene spolverata una serie di bonus e misure settoriali, dai contributi per gli elettrodomestici o per le attività extrascolastiche dei ragazzi, alle varie sagre di paese, insomma le famigerate “mancette” per accontentare random un po’ tutti.

Intoccabili per il governo, ma indigeribili soprattutto per i 5 Stelle, “i 7,5 miliardi per le armi”. Insopportabili per gli ambientalisti i 2 miliardi in più previsti per il ponte sullo Stretto, che vanno ad aggiungersi ai 13 già stanziati. Scandalosi per tutti i 500 mila euro ai ministri non parlamentari sui quali poi c’è stata una marcia indietro, stanziando un più digeribile fondo per i rimborsi. E vergognosa per Matteo Renzi la norma che gli sarebbe stata dedicata, cosiddetta norma ‘anti-Renzi’, ovvero il divieto di percepire compensi per incarichi da Paesi extra Ue, che lui frequenta spesso. L’ex premier fiorentino, rosso di bile,  si è prodotto in Senato in un memorabile show teatrale attaccando il ‘camerata’ La Russa e le sorelle Meloni.

Passando al fronte entrate c’è ben poco,  la voce più consistente è il ‘contributo volontario da 6,5 miliardi’ da banche e assicurazioni che in realtà è un prestito che lo Stato dovrà comunque restituire.

Insomma, alla fine la finanziaria è stata confezionata, con un copione ormai noto. L’hanno definita con una pletora di aggettivi ed espressioni. Molto gettonato il “galleggiamento” che avrebbe guidato il ministro: “Una nave che galleggia senza capitomboli rovinosi e senza slanci eroici”, l’ha battezzata il senatore di Azione Marco Lombardo. Più fantasioso Enrico Borghi, capogruppo al Senato di Italia Viva: “Dopo anni di retorica anti Bruxelles, anti austerity, anti poteri forti, arriva una manovra con il loden. La retorica è svaporata, per Giorgia Meloni Bruxelles val bene un’abiura”. Ma lei, la presidente del Consiglio in panni da statista rivendica: “Una manovra di grande equilibrio, che sostiene i redditi medio-bassi, aiuta le famiglie con figli, stanzia risorse record per la sanità, riduce la pressione fiscale e dà una mano a chi produce e crea occupazione e benessere”. La Meloni di piazza invece ricorda ‘lo scempio’ del superbonus che ha messo il cappio al collo al governo e continua a difendere il suo modello Albania, nonostante gli 800 milioni stanziati per quelle cattedrali nel deserto dove non si vede neanche un migrante ma pascolano molti cani randagi.  

La manovra ‘Montiloni’ è rivendicata orgogliosamente soprattutto dal ministro dell’Economia, che in Senato la difende e sostiene anche con ironia:  “Manca una visione, manca una visione, manca una visione…  Diciamo che forse siamo miopi, io personalmente sono miope, ma non presbite. Quello che abbiamo deciso di fare è di mettere tutte le risorse disponibili a favore esattamente di quei lavoratori dipendenti di reddito medio basso che la sinistra dovrebbe in qualche modo sostenere, che il sindacato dovrebbe in qualche modo sostenere”.  Giorgetti invita anche a rispolverare il vocabolario per ridare alla parola ‘prudenza’ il valore positivo che merita e non quello di ‘mancanza di coraggio’ che gli viene attribuito nella stesura di una manovra considerata meramente conservativa: “Il contrario di prudente nel vocabolario è avventato, temerario, sconsiderato- dice il ministro in Aula al Senato- Prima di redigere il bilancio con 90 miliardi di interessi passivi, quindi serve prudenza. E l’atteggiamento di prudenza poi è stato premiato con la riduzione dello spread”.

Parole di un ‘prudente’ moderato con gli occhi rivolti a Bruxelles più che a Pontida, dove è nato politicamente. Basta guardarlo Giorgetti, nessuna felpa, sempre giacca e cravatta, si concede poco ai media, non è social, poca piazza, frequenta solo numeri dietro la scrivania che fu di Quintino Sella. Politico navigato di palazzo e di governo. Eppure è la Lega il suo partito e Matteo Salvini il suo leader.

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