La missione di Milani, Turoldo e Mazzolari: dare la parola ai poveri

Il complesso rapporto fra tre grandi personalità del cattolicesimo italiano

Perché inserire padre David Maria Turoldo e don Primo Mazzolari in un convegno dedicato a don Lorenzo Milani e alla Chiesa fiorentina?

Turoldo perché protagonista di questa Chiesa in quattro anni del suo avventuroso peregrinare dentro e fuori Italia; Mazzolari perché più volte a Firenze e figura di riferimento di tutti i preti più giovani che negli anni precedenti il Concilio Vaticano II tracciavano percorsi di riforma e rinnovamento. Una sorta di padre nobile di tanti, come lui a rischio e pericolo di censure e condanne che, puntualmente, tutti ricevettero.

Mi parlò così di Mazzolari Luciano Martini, invitandomi a farne oggetto della mia tesi di laurea. Eravamo negli anni Settanta e Luciano era assistente di Michele Ranchetti alla cattedra di Storia della Chiesa e direttore della rivista «Testimonianze». Ricordare qui Mazzolari insieme a Milani e a Turoldo significa per me far memoria con affetto e gratitudine di Luciano, poi ritrovato ancora come docente in quello che allora si chiamava Istituto superiore di scienze religiose Ippolito Galantini.

Milani, Mazzolari, Turoldo, possiamo accomunarli in quell’assunto di dare «la parola ai poveri», che ben sintetizza il cuore della vocazione di tutti e tre e insieme permette di individuarne qualche specificità e differenza.

Quell’espressione La parola ai poveri era il titolo di una rubrica che apparve a lungo sul quindicinale mazzolariano «Adesso» e che poi indicò libri e articoli dedicati sia a don Primo che a don Lorenzo. Ma, allargando appena lo sguardo, la si può riconoscere come una sorta di filo rosso che attraversa personalità e movimenti del Novecento cattolico per giungere fino al Concilio Vaticano II e a papa Francesco che ne ha fatto il centro del suo magistero pastorale. Papa Francesco che, non a caso, il 20 giugno 2017 ha iniziato da Mazzolari e Milani la sua geografia di incontri nei luoghi di vita di testimoni significativi del cattolicesimo italiano.

Sono tanti i nomi che si potrebbero citare a proposito del dare «la parola ai poveri», alcuni li ricordiamo anche in questa giornata: Balducci, La Pira, ma potremmo aggiungere don Zeno, Dossetti, Arturo Paoli, per menzionare solo tre personalità con cui vi furono conoscenza, scambi, collaborazioni; e i francesi di cui tutti si nutrivano, da Péguy a Maritain a Simone Weil appena pubblicata.

Questo per dire una koiné all’interno della quale si staglia l’esperienza di tutti, Vangelo alla mano. Una koiné che riconosceva il valore evangelico della povertà come stile di vita sobrio – una sobrietà che raggiungeva punte di rigore e radicalità senza confronti in Milani –, e insieme il dovere ineludibile di combatterla come ingiustizia.

È proprio su questo motivo di fondo della «parola ai poveri» che si incrociano le vicende dei tre, stabilendo relazioni diverse l’uno con l’altro, segnate dalle circostanze e dall’età  (1890, 1916, 1923). Più precisamente il rapporto tra Milani e Mazzolari si dispiega attraverso alcune lettere ispirate dal desiderio di don Lorenzo di pubblicare suoi testi su Adesso e poi soprattutto in merito a Esperienze pastorali (si tratta di un piccolo ma non insignificante carteggio che spero di poter presto pubblicare: sette lettere di Milani e cinque di Mazzolari, scambiate tra il 1949 e il 1958, poco prima della morte di don Primo nel 59). Padre David frequenterà invece personalmente don Lorenzo e, deceduto nel ’92, avrà la possibilità di offrire memorie e testimonianze su un Milani che a partire dalla morte nel 1967 iniziò ben presto a crescere come figura di riferimento e per non pochi di culto.

Mazzolari rimase per i due più giovani personalità stimata e paterna e tale si avvertiva, come emerge in particolare in un’ultima lettera a un Milani sofferente per le aspre critiche al suo libro, in cui raccomanda di «disperdere» amarezze, di coltivare il «silenzio», di osare «un atto di fede oltre gli uomini».

È per “dare la parola ai poveri” che Mazzolari fondò nel 49 «Adesso», verificato che la «rivoluzione cristiana», da lui attesa come nuovo inizio dopo le tragiche esperienze del fascismo e della guerra, non si faceva linea maestra dei nuovi governi che pure nascevano a direzione cattolica. Quel foglio fu per un decennio, fino alla sua morte, voce di richiamo, proposta, spesso di protesta e denuncia. Fu voce e ospitò le voci di quanti avvertivano le sue stesse urgenze sociali ed ecclesiali, ebbe una notevole diffusione tra preti e laici interessati al rinnovamento in un’Italia cattolica ancora obbligata all’unanimismo e all’uniformità e non sorprende che don Milani lo conoscesse e desiderasse pubblicarvi suoi scritti. Nella sua prima lettera comunicava a don Primo che aveva letto «con passione» il suo Impegno con Cristo[1], «quand’ero neofita», scriveva[2], confermando la credibilità di cui Mazzolari godeva, forse, possiamo azzardare, suggerita da don Raffaele Bensi.

I due testi pubblicati nel 1949 e 1950 su Adesso sbattevano davanti agli occhi del lettore con l’immediatezza dello stile milaniano i drammi della disoccupazione e della carenza di abitazioni, denunciando connivenze e compromissioni della Chiesa con «il capitale» e «il mondo ingiusto»[3]. Testi che Mazzolari avvertì intonati «con lo spirito» della rivista e che davano il via a un rapporto sporadico ma saldo, fondato sulla pacifica convinzione di essere dislocati sulla stessa linea ecclesiale, di lavorare per la stessa causa, la «causa dei poveri», come scriveva Mazzolari fin dalla sua prima lettera. Degli scambi successivi, dicevo, il più vivo confronto avvenne all’uscita di Esperienze pastorali, testo che fu anche l’occasione della relazione tra Turoldo e Milani.

Negli anni dei primi contatti tra don Lorenzo e don Primo, questi e Turoldo avevano già collaborato nella Milano del dopoguerra, la Milano del «roveto di idee e di passioni e di speranze», per dirlo con la viva espressione di padre David[4].

L’impetuoso e immaginifico Turoldo era stato sostegno determinante della Nomadelfia di don Zeno Saltini e aveva dato avvio alle attività caritative, formative, editoriali della Corsia de Servi, che disturbavano per il loro potenziale critico e ne avevano determinato l’allontanamento forzato da Milano e dall’Italia alla fine del 1952. Fu un primo «esilio» che ebbe termine con la possibilità di tornare nel marzo 1954 non a Milano ma a Firenze, caldamente invitato da Mario Gozzini, e accolto da La Pira e da padre Raffaele Taucci, provinciale dei Servi di Maria della Toscana[5].

Qui ebbe molto presto la possibilità di incontrare don Milani, ancora a Calenzano, introdotto dal comune amico Giampaolo Meucci, grande tessitore di incontri e di relazioni. Lo frequentò nei quattro anni della sua permanenza fiorentina, che si protrasse fino al ’58, quando una nuova “epurazione”, questa volta per mano dell’arcivescovo Florit, lo allontanò anche da Firenze e di nuovo dall’Italia[6].

Il rapporto tra Milani e Turoldo si incentrò soprattutto sul confronto nella revisione di Esperienze pastorali che padre David sperò di poter pubblicare con le sue milanesi edizioni Corsia dei Servi. Progetto che non giunse in porto. Fu bocciato, dopo una risposta negativa della curia romana, con le note e più volte rievocate parole di Montini, allora arcivescovo di Milano, a cui Turoldo si era rivolto per l’imprimatur: «Padre, tempi difficili corrono. Tempi in cui non basta neppure la prudenza, ma bisogna diventi anche astuzia»[7].

La fattiva solidarietà mostrata da padre David non significò facile accordo tra due personalità fortissime e inflessibili. Lui stesso avrebbe ricordato «discussioni accesissime», un’amicizia che si esprimeva nell’«urlare insieme là dove non eravamo d’accordo» ma nel rispetto, «senza bisogno di ridurre l’altro alla nostra misura!».

Le discussioni, a suo dire, erano incentrate soprattutto su tre motivi. In primo luogo sul carattere veterotestamentario che Turoldo imputava al cristianesimo milaniano, che rischiava, sosteneva, di macchiarsi di «crudeltà» e «disumanità» se non «umanizzato» dall’«amore» acquisito con il Nuovo Testamento.

Un ulteriore vero e proprio punto di contrasto era individuato da padre David nel linguaggio, nell’uso della «parolaccia», in quella «teologia del turpiloquio», come la definiva, che don Lorenzo difendeva in quanto «lingua del popolo» e lui invece sconsigliava perché strategicamente pericolosa per la diffusione dei testi milaniani..

Ma c’è un terzo elemento di distanza che Turoldo individuava e che illumina l’originalità dell’impostazione e della cultura milaniana rispetto a quella sua e di Mazzolari. Si tratta della diversa declinazione della lotta alla povertà, «contro l’ignoranza» da parte dell’«intellettuale» Milani, «per il pane» da parte del «contadino» Turoldo. Affermava con efficace semplicità: «Io, che vengo da un mondo di poveri, subito ho davanti a me l’affamato; lui, fiorentino, ha davanti a sé l’ignorante. Allora lui si batte contro l’ignoranza e io mi batto per il pane. […] Sono tutt’e due forme di salvezza da una miseria, da una povertà. Lui ha scelto un tipo di povertà: la mancanza di cultura e di istruzione. Io ho scelto l’altra»[8].

Turoldo non contestava e non contestò mai il valore di questa scelta milaniana, ma non riconobbe mai come propria.

Diversa è la posizione di Mazzolari. Don Primo, dopo un’entusiastica reazione alla lettura di Esperienze pastorali, che giudicava, come scrisse a don Lorenzo nel maggio 1958, «[…] uno dei più vivi e completi documenti di sociologia religiosa»[9], ne fece poi su «Adesso» una recensione non del tutto elogiativa. Pur scrivendone come del «primo e più valido studio di sociologia religiosa stampato in Italia», ne denunciava «alcune unilateralità» e «incongruenze stilistiche» e ne sminuiva valore e originalità accomunando la voce dell’autore alle «povere voci» dei «parroci rurali» a cui don Primo ascriveva anche se stesso[10].

Una lettura che non piacque a don Milani il quale, in una lettera privata, gli manifestò la sua amara delusione, respingendo tutte le criticità rilevate e rimarcando che del suo libro andava invece valorizzata «la profondità (o in altre parole: l’umanità)», del tutto assente negli studi sociologici[11]

Ancora più esplicativo fu lo scambio pubblico apparso su «Adesso»: Mazzolari, coperto da pseudonimo (come gli era consueto per difendersi dagli strali della censura ecclesiastica), chiedeva delucidazioni sulla Scuola popolare come strumento privilegiato di pastorale parrocchiale[12]. Gli rispondeva don Milani, a sua volta celato sotto il nom de plume di un allievo, presentando una difesa a tutto campo del valore emancipatorio della scuola e della necessità imprescindibile che un prete la promuovesse[13]. Una difesa che eludeva però la domanda cruciale che in quella stessa pagina veniva riproposta da Mazzolari, manifestando ora esplicito scetticismo verso la scuola come via maestra all’evangelizzazione. Non è il sapere in sé, argomentava don Primo, che indirizzava alla religione, ma è «quel certo sapere, che solo un sacerdote vivo come don Milani può dare»[14]. «Lo specifico di don Milani, continuava, vale se c’è l’uomo che lo sa usare. E l’uomo che sa impartir bene la scuola popolare, riesce a instrumentare convenientemente anche il resto./ Il segreto della riforma è sempre l’uomo»[15].

La posizione era chiara: Mazzolari non credeva, come invece Milani, che il fare scuola fosse in sé strumento liberante o via privilegiata di promozione umana e quindi di evangelizzazione, tanto meno che fosse compito proprio del parroco. Non credeva cioè che fosse la scuola il mezzo con cui un parroco poteva dare la parola ai poveri.

In realtà sia Mazzolari sia Turoldo credettero nel valore della crescita culturale del popolo loro affidato e vi si impegnarono in forme di estrema creatività e inventiva. Don Primo promosse nelle sue parrocchie teatro e conferenze, avviò nella predicazione alla conoscenza di capolavori letterari[16]. Turoldo ripropose e reinventò l’imponente attività programmata e svolta con la Corsia dei Servi nei diversi luoghi in cui si trovò a vivere.

Si trattava però di iniziative tutte più tradizionalmente coerenti con il loro ministero pastorale e religioso. Dare «la parola ai poveri» significò soprattutto per entrambi battersi più «per il pane» che per l’istruzione, significò richiamare la Chiesa e i poteri politici ed economici ai loro doveri verso gli ultimi, spendersi perché la società, la politica, l’economia fossero edificate sulla istanza evangelica della giustizia. Milani intese invece consegnare ai suoi poveri gli strumenti linguistici perché diventassero loro, in prima persona, i protagonisti del cambiamento, nella fiducia che «Il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola», come si legge in uno dei passi più noti di Esperienze pastorali.

Sulla scorta dell’interpretazione di Michele Ranchetti, si può forse suggerire ancora che l’opera di Mazzolari e Turoldo si dispiega in un ambito concettuale maritainiano, nel riconoscimento della distinzione maritainiana tra spirituale e temporale, in nome della quale entrambi riconoscono una diversità di ruoli tra clero e laicato, caldeggiano la vocazione autonoma e «insostituibile» dei laici, che non dovevano ridursi a «brutte copie», «ripetitori mnemonici» del clero, come raccomandava don Primo.  

In Milani questo quadro concettuale risulta estraneo. Egli, nell’interpretare la scuola come strumento diretto di evangelizzazione, bruciava ogni distinzione tra spirituale e temporale, ogni mediazione tra sacro e profano, ricollocando, per così dire, il massimo della sacralità nel cuore della profanità[17]. La scuola, lo dico con le parole di Balducci, era in sé «un processo di illuminazione evangelica», era già «Vangelo in atto» e come tale, va aggiunto, non aveva bisogno di manifestare alcuna specificità cristiana e poteva essere svolta nella più incondizionata libertà[18].

Considerazioni che possiamo qui appena accennare e che avranno bisogno di successivo approfondimento.

Qui basti concludere che, se differenti erano cultura, stile e contenuti nel dare la parola ai poveri, solide erano le consonanze di fondo: la convinzione che il Vangelo dovesse inverarsi nella storia dalla parte degli “ultimi”; l’opera di evangelizzazione come opera di liberazione dell’uomo dal peccato in tutte le sue forme; il primato della giustizia come «prova dell’amore» proclamato; una strenua «fedeltà», che collocava tutti, pur censurati, allontanati, respinti, convintamente all’interno di una Chiesa a cui chiesero e di cui attesero, instancabilmente, il dispiegarsi di un «volto umano».

Relazione tenuta nel corso del Convegno Pastorale organizzato a Firenze e Calenzano il 24 e il 25 novembre scorsi in occasione delle celebrazioni per il  Centenario della nascita di don Lorenzo Milani

In foto Padre David Maria Turoldo


[1] Cfr. P. Mazzolari, Impegno con Cristo, Edizione critica a cura di G. Vecchio, Dehoniane, Bologna 2007.

[2] Lettera di Milani a Mazzolari, 4 dicembre 1949, in Archivio Primo Mazzolari (d’ora in avanti APM), 1.7.1, 5747, cfr. in L. Milani, Tutte le opere, Edizione diretta da A. Melloni, a cura di F. Ruozzi e di A. Carfora, V. Oldano, S. Tanzarella, due tomi, Mondadori, Milano 2017, p. 145.

[3] Cfr. Un prete fiorentino, Franco, perdonaci tutti: comunisti, industriali, preti, in «Adesso», 15 novembre 1949; L. Milani, Natale 1950. «Per loro non c’era posto», in «Adesso», 15 dicembre 1950. Anche in Milani 2017, tomo primo, pp. 991-999.

[4] Lettera di Turoldo a Carlo Bo, 18 febbraio 1966, Archivio urbinate presso la Fondazione Carlo e Marise Bo, Fondo Carlo Bo.

[5] «Fu Giorgio La Pira a darmi una mano in quel tempo, aiutato da padre Taucci, allora Provinciale dei miei fratelli della santissima Annunziata». Studioso aperto alle istanze di rinnovamento culturale e religioso, Taucci, secondo Turoldo, si assunse personalmente «ogni responsabilità nei confronti di Roma» e la Pira insisteva perché si trasferisse a Firenze per «fare insieme la con-fusione evangelica». D. Maria Turoldo, La mia vita per gli amici, Mondadori, Milano, 2002, p. 125.

[6] Cfr. M. Maraviglia, David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza, Morcelliana, Brescia, 2016, pp. 250-259.

[7] Ivi, p. 230.

[8] Ivi, p. 231. Sono citazioni da scritti e interviste di Turoldo.

[9] Lettera di Mazzolari a Milani, 22 maggio 1958, in L. Milani, «Perché mi hai chiamato?» Lettere ai sacerdoti, appunti giovanili e ultime parole, a cura di M. Gesualdi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, pp. 146-147.

[10] Cfr. L’educazione salvezza della parrocchia (recensione anonima ma di Mazzolari), in «Adesso», 1° luglio 1958, pp. 4-5.

[11] Lettera di Milani a Mazzolari, 12 settembre 1958, in APM, 1.7.1, 5753, cfr. in Milani 2017, tomo secondo, pp. 550-552.

[12] Don C.M., Dai nostri lettori. Esperienze pastorali, in «Adesso», 1° settembre 1958, p. 7. 

[13] B. Ferrini, Ho aperto gli occhi, in «Adesso», 1° ottobre 1958, p. 6.

[14] «Qui al Nord, molti di coloro che raggiungono, attraverso la Scuola, una cultura non certo inferiore a quella impartita da don Milani ai «ragazzi» di San Donato, non ritrovano la religione se prima non ce l’hanno nel cuore. Spesso, se ce l’hanno, rischiano di perderla attraverso un sapere male somministrato».

[15] C. M., Una risposta che non persuade, in «Adesso», 1° ottobre 1958, p. 6.

[16] Cfr. B. Bignami, Don Primo Mazzolari parroco d’Italia. «I destini del mondo si maturano in periferia», Prefazione di G. Bregantini, Dehoniane, Bologna 2014, passim.

[17] Cfr. M. Ranchetti, Un’esperienza religiosa del nostro tempo, in Id., Scritti diversi. I Etica del testo, a cura di F. Milana, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1999, pp. 149-162.

[18] Ernesto Balducci, cit. in G. Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, p. 140.

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