I giganti del web pagano meno tasse delle Pmi italiane

Le imprese spendono 24,6 miliardi annui, le multinazionali versano 206 milioni

Tasse, quanto pagano le nostre Pmi e quanto i giganti del web? Mentre il tema delle imposte scalda la politica e costringe la premier a stare sulla difensiva assicurando che nessuno aumenta le tasse agli italiani, il Centro Studi della Cgia di Mestre fa i conti in tasca ai giganti del web, li confronta con le tasse pagate dalle Pmi, e rilancia in qualche modo, necessariamente, il tema di “dove andare” a prendere i soldi che mancano disperatamente al tessuto produttivo italiano e alla manovra di bilancio.

In sintesi, ciò che emerge è che questi gruppi, a differenza delle nostre Pmi,” continuano a fare ricavi da capogiro, senza versare al fisco quanto dovuto”.

“Sino alla fine dell’anno scorso, infatti, hanno continuato a trasferire buona parte degli utili realizzati in Italia nei paesi a fiscalità di vantaggio – scrivono i ricercatori di Cgia Mestre – Risultato? Grazie a queste operazioni elusive, il nostro erario ha incassato da queste WebSoft solo le briciole”.

Sì, ma quante “briciole”? Dai numeri emersi dal confronto operato dall’Ufficio studi della CGIA.. le Pmi italiane pagano ogni anno 24,6 miliardi di tasse, mentre le 25 multinazionali del web presenti in Italia versano, secondo l’Area Studi di Mediobanca, 206 milioni di euro. I ricercatori di Cgia non si scompongono neanche all’ovvia obiezione che le dimensioni economiche di queste due realtà sono molto diverse, ma, ribattono, “dal punto di vista degli artigiani mestrini, il risultato che emerge è sconsolante. Se le aziende italiane prese in esame producono un fatturato annuo 90 volte superiore a quello riconducibile alle big tech, in termini di imposte, invece, le prime ne pagano ben 120 volte più delle seconde”, E sebbene la comparazione presenti “una serie di limiti metodologici e non ha alcun rigore scientifico”, tuttavia, prosegue la nota, .”il ricorso sistematico all’elusione praticato negli anni ha aumentato questa disparità di trattamento, mettendo in evidenza in misura inequivocabile che, in Italia, alle grandi multinazionali, in questo caso tecnologiche, continua a essere riservato un prelievo fiscale ingiustificatamente modesto

Cosa succederà con l’arrivo della Global minimum tax (Gmt)? Secondo il dossier curato dal Servizio Bilancio dello Stato della Camera e cui fa riferimento la nota di Cgia Mestre, “il gettito previsto dalla sola applicazione dell’aliquota del 15 per cento sulle multinazionali sarà molto contenuto. Si stima che nel 2025 il nostro erario incasserà 381,3 milioni di euro, nel 2026 427,9 e nel 2027 raggiungerà i 432,5. Nel 2033, ultimo anno in cui nel documento si stimano le entrate, le stesse dovrebbero sfiorare i 500 milioni di euro”. Per quanto riguarda l’area interessata dalla Gmt, nel 2024 interesserà 19 paesi UE: Spagna e Polonia nel 2025 si adegueranno, mentre Estonia, Lettonia, Lituania, e Malta hanno ottenuto una proroga sino al 2030. “Cipro e Portogallo, infine, sono chiamate a rispondere alla sollecitazione giunta da Bruxelles che ha recapitato loro una lettera di messa in mora. Appare evidente che per le grandi holding presenti nei paesi UE rimane ancora la possibilità, almeno per i prossimi 5/6 anni, di spostare parte degli utili in alcuni paesi membri dove la tassazione continua essere molto favorevole”.

Tirando le fila, i giganti del web a fronte di profitti elevati, versano poche tasse. Non è una gran notizia, ma ciò che lascia perplessi è il “ricorso a tecniche elusive che hanno consentito di spostare una parte degli utili ante imposte realizzati in Italia nei paesi a fiscalità di vantaggio”, scrivono gli studiosi della Cgia. .”Sappiamo che le regole della Gmt sono molto articolate ed è verosimile ritenere che ogni norma di carattere nazionale potrebbe non essere sufficiente a rendere il prelievo fiscale più equo. Nonostante ciò è indispensabile trovare un compromesso che non pregiudichi la fuga di queste aziende dal nostro Paese, ma allo stesso tempo le costringa a pagare il giusto, o quasi. L’elusione è una pratica che riguarda ormai tutti i grandi player”.


Infatti, alcuni grandi player italiani da qualche anno hanno trasferito la sede fiscale o quella legale “magari solo di una consociata“, in Paesi europei che prevedono un trattamento fiscale più favorevole. Fra questi, i Paesi Bassi, che adottano una legislazione societaria molto favorevole, che permette, spiegano dall’Ufficio Studi, “agli azionisti storici di avere il doppio dei voti in assemblea, modalità che consente di difendersi meglio da eventuali scalate provenienti da investitori stranieri”, ma anche, eventualmente, di godere di un trattamento tributario molto interessante, che il governo olandese riserva a ogni big company disposta ad aprire la sede fiscale ad Amsterdam. Operazioni che, vogliamo sottolinearlo, sono “formalmente ineccepibili da un punto di vista fiscale-societario”, ma riducono inevitabilmente la base imponibile di coloro che pagano le tasse in Italia. E a essere penalizzate, come ha ben spiegato la ricerca della Cgia mestrina, sono in particolare “le realtà imprenditoriali di piccola e piccolissima dimensione che, a differenza delle grandi aziende, non hanno la possibilità di lasciare armi e bagagli e trasferirsi altrove”.

E in Italia? Dallo studio emerge che in Molise e Valle d’Aosta le big tech pagano più delle imprese locali. Una particolarità che si ferma a queste due regioni , risultato della comparazione operata dai ricercatori sebbene “risenta di alcune fragilità presenti nella metodologia di calcolo adottata”.

Il quadro ipotizzato dall’Ufficio Studi della Cgia sarebbe il seguente: se in Molise il gettito delle principali imposte pagate dalle aziende residenti è “pari a 175 milioni di euro e in Valle d’Aosta a 1907, nel 2022 i giganti del WebSoft hanno prodotto 9,3 miliardi di fatturato e versato al fisco italiano complessivamente 206 milioni di euro. Nulla a che vedere con quanto “contribuiscono” le imprese lombarde che, invece, pagano all’erario 125 volte in più di quanto versano questi 25 colossi digitali, quelle laziali 56,7 in più, quelle emiliano-romagnole 38 e quelle venete 36,8”,

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