Lo scrittore piemontese Igino Ugo Tarchetti (1839-1869) è conosciuto soprattutto per un romanzo, Fosca,[1] una torbida storia d’amore con venature decadentistiche, ma è anche autore di un altro romanzo, Una nobile follia (Drammi della vita militare), definito da Enrico Ghidetti nel saggio Il sogno della ragione. Dal racconto fantastico al romanzo popolare, come il “primo (e unico) romanzo antimilitarista della letteratura italiana”. Il libro uscì nel 1867, pochi anni dopo la proclamazione, nel 1861 a Torino, del Regno d’Italia che sanciva l’unificazione, seppur ancora parziale, del Paese, che si sarebbe conclusa soltanto nel 1870 con l’annessione del Veneto e dello Stato Pontificio. Una nobile follia, con il suo scomodo antimilitarismo, apparve quindi in un momento in cui lo stato italiano era ancora in fase di consolidamento e scritto per di più da un ex ufficiale dell’armata che aveva realizzato l’unificazione nazionale.
Tarchetti si era arruolato giovanissimo in quello che era allora l’esercito del Regno di Sardegna. Dopo l’unificazione, nel 1861, venne inviato nel sud con un contingente destinato alla repressione del brigantaggio. In una lettera inviata da Foggia alla madre nel maggio del 1861, Igino mostra già i segni che quell’esperienza avrebbe lasciato nel suo animo: “Siamo odiati, rifiutati da tutte le famiglie, i pochi liberali sono uccisi di notte o spariscono senz’altro”.
A quest’epoca risalgono in effetti le prime manifestazioni di insofferenza verso la vita militare che avrebbero raggiunto nel romanzo Una nobile follia i toni di un acceso antimilitarismo. L’insofferenza per la disciplina, il “mostro enorme e spaventevole”, come lo definisce lo scrittore, gli provoca diverse sanzioni, e lo spinge a chiedere l’aspettativa per motivi di salute, ottenuta la quale si trasferisce, nel 1864, a Milano. L’anno dopo dà le definitive dimissioni dall’esercito, ed inizia la carriera di pubblicista collaborando a diversi giornali e riviste su cui andrà pubblicando, a puntate come si usava allora, i racconti ed i suoi tre romanzi.[2] Nel capoluogo lombardo Tarchetti aderisce alla “scapigliatura”, un movimento letterario e di costume corrispettivo della bohème di oltralpe; movimento anticonformista, irriverente ed estraneo alle convenzioni sociali.
Tra le ragioni della protesta di questi beatniks ottocenteschi vi era anche la delusione per le aspettative che il Risorgimento non aveva mantenuto: siamo negli anni intorno al 1860 ed il ciclo risorgimentale si stava concludendo, come suggerisce lo studioso Dante Isella, con il presagio di «fallimento di una rivoluzione che, partita dalla minoranza più avanzata della classe intellettuale era slittata […] a guerra d’indipendenza manovrata dalle cancellerie».
La scapigliatura, oltre ad essere frutto, come si è appena visto, della delusione storica e di un certo disagio sociale, agisce anche nell’ambito letterario, inalberando lo stesso spirito velleitario ed anticonformistico di rinnovamento. L’obbiettivo non è soltanto quello di emancipare le lettere nostrane dalla deriva sdolcinata che aveva preso il Romanticismo, ma anche di ‘sdoganare’ tematiche come il fantastico ed il soprannaturale insieme ad altre varietà della prosa fantastica che non erano ancora state prese in considerazione dai letterati italiani. In effetti certe esperienze letterarie considerate poco edificanti, come il romanzo gotico e quello d’appendice (feuilleton) alla Eugène Sue, ecc., ed autori quali Edgar Allan Poe ed Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, non erano riusciti a varcare i confini del paese, impegnato in un contesto operativo, l’unificazione nazionale, che non poteva concedere spazio a divagazioni nella fantasia.
Una nobile follia, che doveva formar parte di una trilogia intitolata Drammi della vita militare ma di cui uscì soltanto il primo, fu pubblicato in ventisette puntate sul giornale milanese Il Sole dal 12 novembre 1866 al 27 marzo 1867. L’Italia era appena uscita, malconcia, nonostante l’annessione del Veneto, dalla IIIª guerra di indipendenza, a causa delle cocenti sconfitte di Custoza e di Lissa, entrambe ad opera dell’esercito austriaco. Il clima politico nei confronti dell’esercito non era quindi dei più favorevoli.
Oltre a ciò è bene ricordare che la problematica carriera militare di Tarchetti si era appena conclusa, appena l’anno prima, con le dimissioni dall’esercito. Il nostro scrittore afferma nella Prefazione alla seconda edizione, che le “disfatte di Custoza e di Lissa hanno giovato al nostro paese assai più che una grande vittoria, lo hanno liberato dalla piaga terribile del militarismo. Una voce è già sorta nel Parlamento a chiedere l’abolizione dell’esercito. Non è lontano il giorno in cui la condanna morale che pesa su questa istituzione avrà trionfato degli ultimi pregiudizi che la sostengono”.
Aggiunge, inoltre, con orgoglio di essere stato “il primo nel mio paese a sollevare la voce per reclamare i diritti del soldato”. “Io ho contratto un debito ―continua― verso i miei vecchi commilitoni, e conto di soddisfarlo; io scriverò di loro; dirò tutto ciò che la servilità, che la paura, che l’egoismo hanno taciuto finora […]”.[3] L’antimilitarismo era, comunque, presente nei programmi della Scapigliatura; il primo a farne uso era stato Cletto Arrighi, ufficiale dell’esercito piemontese che aveva dato le dimissioni dopo la sconfitta di Novara nel 1849, con interventi sul giornale Cronaca grigia. Ma c’era stata anche, diversi anni prima, nel 1858, la polemica di Carlo Pisacane contro gli eserciti permanenti che con il loro avvento, dall’impero romano in poi, avevano sempre segnato, a suo avviso, il tramonto della libertà.
L’azione del romanzo si svolge durante la guerra di Crimea (1853-1856) che vide la Russia zarista combattere contro una coalizione di stati europei alleati all’impero ottomano tra cui Regno Unito, Francia ed il Regno di Sardegna, la cui partecipazione al conflitto fu voluta dal primo ministro, Camillo Benso conte di Cavour il quale pensò che fosse l’occasione ideale per sottoporre la questione italiana all’attenzione dei paesi europei. Il Piemonte inviò un corpo di spedizione composto da diciottomila uomini sotto il comando del generale Alfonso Lamarmora, che partecipò alla battaglia della Cernaia ed al lungo assedio di un anno alla città di Sebastopoli.[4]
Prima di accedere al nucleo ideologico antimilitarista del romanzo bisogna superare un centinaio di pagine farcite di stereotipi ‘scapigliati’: allucinazioni, toni esagitati da pamphlet, sensibilità eccessive e morbose, ecc. Il protagonista, Vincenzo D., appartiene, in effetti, alla tipologia tipica dei personaggi dello scrittore, costruiti sullo strano, sull’irregolare e su una concezione della follia (è lui il titolare della “nobile follia” del titolo) intesa come approdo ad una superiore forma di conoscenza. La sua psicologia già provata, viene definitivamente compromessa quando, richiamato alle armi nel “settimo reggimento di fanteria”, è inviato in Crimea. Imbracciando “un’asta di legno con un tubo da cui esce una palla che uccide” si ritrova a combattere insieme ad altri numerosi sventurati “nessuno dei quali sapeva che cosa fosse la Russia, né che cosa avessero fatto loro i popoli di quella nazione”.
“Ottocentomila braccia tolte all’agricoltura e all’industria, quattrocentomila giovani strappati alla loro famiglia, alla loro madre, alla loro capanna per farne degli omicidi […]”. Benché sia profondamente pacifista, Vincenzo, è costretto ad uccidere, nella battaglia della Cernaia, un ufficiale polacco ed è questa la causa scatenante della malattia che lui stesso individua, a guerra finita, come “una terribile rimembranza, una rimembranza di sangue che s’interpone fra me e la mia ragione, e mi rende spesso demente […]”. Una “rimembranza” che lo tormenterà fino a spingerlo al suicidio.
Davanti all’ufficiale che agonizza di fronte a lui e da cui riesce addirittura ad ottenere il perdono (“io morrò, lo sento, ma voi non ascrivetevi a colpa la mia morte, poiché vi fu imposto di uccidermi”) avviene la trasformazione del concetto astratto di ‘nemico’ nelle fattezze concrete e ravvicinate di un uomo come lui, dai sentimenti analoghi ai suoi. La presa di coscienza sulla vera identità del ‘nemico’ costituisce una sequenza piuttosto frequente nella narrativa sulla guerra. La ritroviamo ad esempio nel romanzo di Erich Maria Remarque Niente di nuovo sul fronte occidentale, allorché il protagonista colpisce all’impazzata il soldato nemico che cerca di mettersi in salvo nella fossa in cui ha trovato riparo pure lui e dove è costretto ad assistere alla sua agonia: “È la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa vedere da vicino, e la cui morte sia opera mia. […] Compagno, io non ti volevo uccidere. […] Prima eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello che ha determinato quella risoluzione. Io ho pugnalato quella formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me”.[5]
Nel romanzo di Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, l’’agnizione” del nemico non è cruenta: il protagonista, appostato in una altura, ha sotto tiro il giovane ufficiale austriaco che sta compiendo il gesto normale di accendersi una sigaretta: “Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!” E decide di non sparare: “Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo”.
Dal romanzo di Tarchetti escono mal parati soprattutto gli ufficiali (neppure Tolstoj, come vedremo, sul fronte opposto, nutriva verso di loro un’eccessiva simpatia) ed i burocrati militari, capaci solo di parlare di donne e di cavalli e la vita di caserma, che Tarchetti conosceva assai bene, governata dal mostro “enorme e spaventevole” che si chiama “disciplina”.
Nel romanzo, nonostante i toni esagitati che connotano spesso la narrazione, vi sono pagine indimenticabili, come quelle in cui si descrive il luogo ove era avvenuta, nel 1854, la battaglia di Inkermann,[6] presso Sebastopoli, un autentico macello in cui perirono circa quindicimila uomini: “Il terreno mostrava ancora qua e là traccie spaventose di quella lotta: i solchi delle ruote, le orme de’ piedi umani e delle zampe ferrate de’ cavalli, le pozzanghere di sangue che avevano lasciato nell’asciugarsi una crosta ampia e nerastra, armi e soldati insepolti, cadaveri che cadevano a brani dai pruni dei dirupi a cui erano rimasti sospesi, sepolture scoperte dallo sciogliersi delle nevi che avevano franato i terreni, e da cui apparivano monti di corpi corrotti”.
La battaglia di Inkermann fu uno degli episodi del lungo assedio di Sebastopoli, a cui partecipò, come ufficiale di artiglieria, nelle truppe schierate a difesa della città, lo scrittore russo Leone Tolstoj, che raccontò la terribile esperienza nei Racconti di Sebastopoli, con toni di denuncia delle inette gerarchie militari e dell’inutile massacro che si stava perpetrando. Mentre gli ufficiali affrontano l’assedio nel confort dei loro alloggi, i soldati, a cui va chiaramente la simpatia dell’autore, devono marcire nel fango delle trincee o morire dilaniati sul campo di battaglia. Tolstoj rifugge dalla retorica dell’eroismo messa in atto dalle gerarchie militari e dalla letteratura che se ne era fatta complice. “Eroe del mio racconto, eroe che io amo con tutta l’anima e che ho cercato di riprodurre in tutta la sua bellezza, e che è sempre stato, è e sarà meraviglioso, eroe del mio racconto è la verità”.
In Una nobile follia l’orrore raggiunge il suo climax nella battaglia della Cernaia, quando il comando piemontese, di fronte all’intensa fucileria russa, emana il terribile ordine di «innalzare una trincea di cadaveri. […] Noi ―racconta Vincenzo― ci accingiamo unanimi ed impazienti a questo lavoro. I cavalli feriti o morti sono trascinati pel campo e collocati dinanzi alle nostre linee, i corpi dei Russi e dei Sardi sovrapposti ad essi, e disposti a larghi strati incrociati; noi li cerchiamo frettolosi per la pianura, e non abbiamo tempo a riconoscere se non sieno ancora spirati. Prima che l’artiglieria russa abbia aperto il fuoco contro di noi, un’ampia muraglia di cadaveri ci sottrae alla vista e a’ suoi colpi. […] Noi ci collochiamo dietro quel vallo di carne; ci afferriamo ai capelli o ai piedi dei morti, e spariamo contro il nemico, spingendo le nostre carabine negli spazi esistenti tra l’uno e l’altro cadavere. Ad ogni proiettile che viene a colpire in quella trincea, i cavalli non ancor morti si dibattono e la fanno oscillare come una cosa viva e sensibile. Talora delle braccia che sembravano pendere inanimate, si muovono a un tratto, si agitano, afferrano nell’agonia della morte le membra dei soldati appoggiati contro di esse e li trattengono a forza; talora sentiamo palpitare sotto i nostri piedi i petti degli infelici sui quali siamo saliti, e un gemito flebile e lungo attestare che essi vivono ancora…».
La descrizione, secondo Enrico Ghidetti, sembra trovare conferma in quella che ne fece un ufficiale medico del contingente francese, il Dott. Boudin, nell’articolo Atteggiamento dei morti sul campo di battaglia di Inkerman, pubblicato il 26 gennaio 1868 sull’ Italia militare: “Alcune figure sembravano sorridere; altre conservavano minaccioso aspetto. Alcuni cadaveri erano in funebri atteggiamenti, avresti potuto credere che una mano pietosa li avesse composti per la tomba. Altri erano rimasti ginocchioni, con l’armi in pugno strette convulsivamente, e fra’ i denti la cartuccia. Molti avevano il braccio levato, sia ch’essi avessero tentato di parare un colpo, sia che avessero innalzato una preghiera suprema rendendo l’ultimo sospiro. Tutte le facce erano pallide, il vento che soffiava con forza pareva rianimarle; s’avrebbe detto che quelle lunghe file di morti tentavano di rialzarsi per rinnovare la pugna”.
Una nobile follia suscitò un grande scalpore, soprattutto, com’era logico, negli ambienti militari. Un amico dello scrittore, Salvatore Farina, racconta che in molte caserme fu bruciato dai “caporali” mentre però i soldati scrivevano all’autore lettere di ammirazione. Per contrastarne gli effetti, l’esercito fece ricorso a Edmondo de Amicis, ‘invitandolo’ a redigere una serie di bozzetti di vita militare in cui si offriva dell’istituzione una visione del tutto opposta. I bozzetti apparsi con le sole iniziali dell’autore, E.D., a partire del 1866 su L’Italia militare, una rivista di propaganda edita dal “Ministero della guerra”, furono successivamente raccolti in un libro, La vita militare. Bozzetti, pubblicato con il nome completo dell’autore a Milano da Treves nel 1868.
Alla edulcorata visione di De Amicis, Tarchetti risponde, sdegnato, dalla già citata Prefazione alla seconda edizione di Una nobile follia: “Un solo libro è comparso nello scorso anno a sostenere una tesi contraria. Il giovine autore di quelle pagine, uscito da un’Accademia militare, ha parlato dell’esercito, come un collegiale uscito di ginnasio potrebbe parlare degli uomini e della società che non ha ancora conosciuto. È a deplorarsi che egli abbia sciupato il suo talento a difendere una causa universalmente disapprovata. Tanto varrebbe il tentare l’apoteosi del carcere, della galera, o il tessere l’elogio d’ogni più trista istituzione che disonori l’umanità. Coloro che hanno vissuto nella caserma sanno se vi è esagerazione nelle mie parole”.
In foto Ugo Tarchetti (Liber Liber)
[1] Del romanzo esiste una versione cinematografica del regista Ettore Scola intitolata Passione d’amore, del 1981, interpretata, tra gli altri, da Massimo Girotti, Jean-Louis Trintignant e Laura Antonelli.
[2] Oltre ai due già citati, scrisse Paolina, un romanzo d’appendice sullo stile di quelli de Eugène Sue. La protagonista, Paolina è una sottoproletaria sedotta e rovinata da un nobile senza scrupoli.
[3] La Prefazione fu aggiunta nella seconda edizione del romanzo che vide la luce dopo la morte dell’autore (Treves, Milano 1869).
[4] Uno degli episodi più importanti della guerra di Crimea, la battaglia di Balaklava, nei pressi di Sebastopoli, è rievocato nel film del 1936 La carica dei 600, di Michael Curtiz, con Errol Flynn ed Olivia de Havilland, che narra la disastrosa carica della cavalleria leggera britannica contro l’artiglieria russa. Esiste anche un remake posteriore del 1968, I seicento di Balaklava, di Tony Richardson, con John Gielgud, David Hemmings e Vanessa Redgrave, versione assai critica nei riguardi dell’inettitudine dei comandi militari. Da tenere presente anche il poema La carica della brigata leggera del poeta inglese Alfred Tennyson che inizia con i versi famosi: “ Avanti la brigata leggera ! / Avanti contro quei cannoni” […] /Nella valle della Morte / cavalcarono i seicento”. Al poema si ispira la canzone The trooper del complesso musicale Iron Maiden.
[5] Del romanzo esistono tre versioni cinematografiche: All’ovest niente di nuovo, realizzata nel 1930 da Lewis Milestone, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Delbert Mann del 1979 e la recente, con lo stesso titolo, del 2022, di Edward Berger, selezionata per rappresentare la Germania ai premi Oscar 2023 come miglior film straniero.
[6] Nel descrivere la battaglia di Inkermann lo scrittore, secondo Enrico Ghidetti, tenne presente quella di Waterloo fatta da Victor Hugo ne I miserabili. Roberto Carnero in una edizione da lui curata di Una nobile follia (Oscar Mondadori, Milano 2004) paragona i macelli della guerra di Crimea allo sbarco alleato in Normandia e la battaglia della Cernaia alle azioni militari descritte nel film Salvate il soldato Ryan diretto nel 1998 da Steven Spielberg.