Firenze – Sousa non parla mai di calcio. Il suo in genere è un linguaggio da predicatore calvinista: “lavoro”, “applicazione”, “crederci”; mai che ci spieghi, per esempio, perché si è sempre rifiutato di far giocare la Fiorentina come la faceva giocare il suo predecessore e come mai si debba credere nel suo gioco. Solo qualche accenno, sempre sulla falsariga dell’uomo di chiesa, che per applicare uno schema o per cambiarlo “ci vuole tempo” (e, naturalmente, “fede” e “lavoro”).
Ma non una ragione per cui si debba adottare quello schema o perché non “ci sia tempo” per cambiarlo. E allora, visto che è stato confermato e che ci preme capire bene quale gioco e quali giocatori ci dobbiamo aspettare l’anno prossimo, proviamo a indovinare. Intanto un indizio: quando la Gazzetta dello sport ha organizzato una tavola rotonda tra tutti gli allenatori delle squadre italiane per commentare la straordinaria vittoria di Ranieri in Premier League, lui, Sousa, è stato l’unico a rifiutarsi di rispondere, e neanche tanto educatamente.
Certo, la vittoria di Ranieri in Albione gli deve aver bruciato. Lui che inventa calcio del futuro lavorando su varianti del 4-2-3-1, a vedere che un tecnico all’italiana uccella tutte le grandi che giocano il “suo” schema, dal Tottenham al Chelsea al City, non c’è rimasto bene. Oltretutto ha anche visto retrocedere in B il Newcastle di Benitez (altro paladino del suo gioco), dopo aver visto il povero Benitez sostituito a Madrid da uno Zidane che al suo posto ha fatto esattamente quello che ha fatto Sarri a Napoli: ha tolto un trequartista e ha messo Casemiro a dar consistenza al centrocampo, esattamente come Sarri ha tolto Mertens per Jorginho. Con gli esiti che sono sotto gli occhi di tutti. E allora c’è da chiedersi: ma Sousa l’ha capito che con il suo gioco, soprattutto in Italia, non si va da nessuna parte?
Intendiamoci: nessuno sta dicendo che ci sono moduli vincenti e moduli perdenti. Anzi, esattamente il contrario. Ieri notte su Sky-TV Allegri ha dato spettacolo parlando con grande semplicità di calcio e facendo capire al colto e all’inclita che oggi (come sempre) se si vuole vincere si deve prima di tutto rispettare il calcio degli altri: capire come si possono neutralizzare le prerogative altrui, andare sulla tattica quando gli altri vanno sul fisico, e approfittare di attitudini fisiche quando gli altri vorrebbero imporsi con la tecnica.
Insomma, una grande squadra deve valorizzare tutte le qualità dei propri giocatori e metterle al servizio di un gioco che sappia adattarsi. Non c’è una partita uguale all’altra. E l’idea stessa di credere di imporre il proprio gioco giocando sempre nello stesso modo fa ridere i polli (che se ne intendono di come, in quel modo, si diventa “polli”!). In Italia abbiamo l’esempio di due grandi tecnici, Allegri e Spalletti, e abbiamo l’esempio di un altro grande tecnico in Nazionale, Conte, che non giocano mai la stessa partita e che inventano gioco (loro davvero!) per essere sempre imprevedibili e per mettere in difficoltà l’avversario approfittando delle sue debolezze, ma soprattutto sfruttando al massimo le qualità dei giocatori a disposizione.
E Sousa? A quanto abbiamo visto quest’anno, sembra inamovibile dal suo credo. Il suo calcio non si tocca, e anche i suoi esperimenti falliti (come quello di Berna ala destra) si devono ripetere all’infinito finché non si piega l’acciaio. E se c’è qualche giocatore che non recita l’atto di fede (vedi Suarez, per esempio) lo si vende o lo si accantona, e gli si preferisce il soldatino obbediente. Guai mettersi in discussione! L’unica volta che Sousa si è emendato, e lo ha dovuto fare quando i numeri gli hanno fatto capire di aver giocato un girone di ritorno da zona retrocessione, lo ha fatto dicendo che a un certo punto del campionato gli è calata la concentrazione; come se condurre una squadra fosse giocare alla playstation, e come se “distrarsi” (chissà mai cosa vorrà dire, fuor di metafora!?) diventasse fatale. È lui il demiurgo, è lui l’artefice del gioco; è lui che non deve far calare l’attenzione (un po’ come il Dio di Berkeley, che garantisce la permanenza degli oggetti anche quando noi chiudiamo gli occhi, perché è Lui a tenerli sempre aperti); i giocatori devono soltanto imparare e applicare.
Come mi è capitato più volte di osservare, purtroppo il suo gioco lo si può giocare soltanto contro chi accetta di giocarlo alla pari. La partita di ieri lo ha confermato. Anche la Lazio, sia pure con più varianti, gioca un calcio offensivo e veloce, che privilegia l’uno contro uno e che tende a crearsi gli spazi da attaccare; costi quello che costi quando ci si offre alle ripartenze avversarie. Ieri la partita poteva finire 6-5, e a tratti è sembrata proprio una partita da calcio inglese, ora attacco io poi attacchi tu, dove vince chi sbaglia meno individualmente.
Ma quante se ne gioca così in Italia (e ora anche in Europa, viste le squadre che disputeranno le finali delle coppe)? Al termine della partita persa a Udine a Sousa è scappata una rara parolina di calcio: ha detto che “loro si sono difesi in nove”! Qualcuno dovrebbe far capire al nostro Sousa che anche la Juve si difende in nove (anzi, in dieci, da quando ha Mandzukic), ma che vince tutti gli anni, valorizzando giocatori e esprimendo varietà e fantasia assai più di chi inventa un modulo e lo gioca fino alla nausea. Io spero soltanto che un anno (fallimentare) come questo abbia insegnato qualcosa anche a Sousa. Ieri, per esempio, ha giocato con il centrocampo a tre e Badelj davanti alla difesa come faceva Montella. E guarda caso ha vinto…