Ebbene sì, il 2022 sta per terminare e, un po’ ovunque, fioccano come neve-cacio sul maccheronico le consuete classifiche o elenchi (la “vertigine della lista”, direbbe Eco) di fine anno in fatto di popolarità, vendite o tendenze: dischi, libri, stelle Michelin e, da un po’ di tempo a questa parte, anche le “parole dell’anno”, quelle che dovrebbero dare il polso delle aspirazioni e delle preoccupazioni della comunità globale, e quindi segnalare suppergiù lo spirito del tempo (Zeitgeist).
Insomma, non esistono solo le liste della spesa per il gran cenone di Capodanno o gli immancabili e spesso ottimistici bilanci esistenziali che ciascuno di noi abbozza allegando, per completezza e slancio, l’elenco dei buoni propositi o wishful thinking o to do list per l’anno che va ad iniziare, no, e nemmeno la segreta classifica (top five, o top ten per i più attivi) delle ragazze o dei ragazzi che abbiamo incrociato, bramato o magari pure conosciuto biblicamente nei locali di paese, in vacanza, sui social o tramite le app di incontri. E non parliamo né dell’attesa per la famosa copertina annuale di Time dedicata alla person of the year (sempre più “telefonata”, e vabbè), né della curiosità di sapere i nomi e le forme delle protagoniste dell’altrettanto celebre calendario Pirelli, anche questo (per via della political correctness) sempre più sobrio e civilmente impegnato.
Dicevamo: le parole dell’anno (word of the year), quelle più usate dalla stampa o più ricercate sul web. Come se non bastassero le centinaia di Giornate mondiali di… (un calendario fittissimo, se ne celebra una quasi al giorno, da quella dei gatti neri a quelle della gentilezza: ci siamo fatti prendere un po’ troppo la mano, innalzandole al rango di sagre 2.0, dalla razza chianina alla cipolla rossa, ma tant’è), la moda del momento annovera, tra i riti dicembrini più rilanciati acriticamente dai mass media, la designazione appunto della fatidica, famigerata parola-concetto dell’anno: quella più pronunciata o dibattuta, rimossa o manifesta, cool o fool che sia. Una gara a decretare il “lessico famigliare” (Ginzburg) cui partecipano in prima linea alcune tra le più blasonate istituzioni culturali e linguistiche del mondo, anche attraverso il parere di esperti e/o con sondaggio popolare, tipo l’applausometro nei festival canori, e si sa: così come “le parole sono importanti” (Moretti, e prima di lui sia Wittgenstein che Heidegger), la lingua batte dove la società duole. Presente il deliquio da librokuore suscitato dall’invenzione, anni fa, dell’aggettivo “petaloso”?
Veniamo al dunque e, per la serie “caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’” (Dalla), vediamo le scelte di quest’anno. Il verdetto non è unanime, nel senso che ogni ente preposto alla designazione dice la sua, con la conseguenza che in pochi giorni sui quotidiani sono usciti articoli che già nei titoli eleggono a “parola dell’anno” ben tre parole diverse, a seconda del comunicato stampa che arriva e dell’ente che lo ha inviato alle agenzie per la debita diffusione. Quindi, visto che si tratta di istituti seri e prestigiosi, se ne desume che (anche quest’anno) abbiamo tre medaglie d’oro ex-aequo. A questo punto non ci resta che aprire le buste e pronunciare il noto “the winner is…”, consapevoli che “ogni Oscar-rafone è bell’a mamma soja”, come recita il detto napoletano citato da Pino Daniele in una sua canzone… e da Tullio De Piscopo a Tullio De Mauro il passo è breve).
Per l’Oxford English Dictionary la parola o concetto dell’anno è “goblin mode”, vale a dire la “modalità folletto” con cui passiamo le ore in casa o fuori casa, da soli o in compagnia, e ci si riferisce in buona sostanza a un atteggiamento fin troppo disimpegnato, a un look a dir poco sbarazzino. Un neologismo che significa “il rifiuto delle aspettative della società, ossia l’atto di vivere in modo trasandato, senza preoccuparsi della propria immagine di sé”, ovvero presentarsi senza fronzoli o imbellettamenti, vestirsi un po’ scrausi ché tanto l’abito non fa il monaco, valorizzando l’essenziale e godendosi con naturalezza, stando comodi e fottendosene delle etichette e delle auto-rappresentazioni, specie di quelle relazionali (è una variante della cottagecore, “un’estetica Internet resa popolare da adolescenti e giovani adulti che celebrano una vita rurale idealizzata”).
E ancora: “Un comportamento autoindulgente, pigro, sciatto, ingordo e che esplicitamente rifiuta norme e aspettative sociali», inteso come un “diritto di fare schifo quando tutto fa schifo”, provocatoriamente in antitesi al narcisismo digitale delle pose e dei filtri: “di fronte all’incertezza di questo particolare momento storico e complici le preoccupazioni diffuse per la salute (anche mentale), il lavoro, l’instabilità economica, la crisi climatica e quella socio-politica, diventa normale potersi sentire sopraffatti e avere dunque voglia di lasciarsi andare piuttosto che mostrarsi sempre ottimisti e sorridenti” (insidemarketing.it). Un plebiscito, poiché l’espressione è stata scelta da quasi 320mila persone su 340mila votanti (il 93%), facendo mangiare la polvere alla seconda classificata, ossia la parola “metaverso”. La parola del 2021, per la cronaca, era “vax” (toh, che fantasia), e quella del 2019 “climate ermergency”, con grande soddisfazione di Greta Thunberg.
Per il dizionario australiano Merriam-Webster, invece, la parola dell’anno è “gaslighting”, che è “una forma di manipolazione psicologica violenta e subdola nella quale vengono presentate alla vittima false informazioni con l’intento di farla dubitare della sua stessa memoria e percezione; può anche essere semplicemente il negare da parte di chi ha commesso qualcosa che gli episodi siano mai accaduti, o potrebbe essere la messa in scena di eventi bizzarri con l’intento di disorientare la vittima”. Oh, mica bruscoline, una pratica persino più insidiosa – battutona – del catcalling (il fischio in strada alle belle gnocche) e del mansplaining (l’uomo che fa lo spiegone alle donne)… diteglielo alle femministe, grazie. Comunque: il termine – citiamo ancora Wikipedia – deriva dall’opera teatrale del 1938 “Gaslight” del drammaturgo britannico Patrick Hamilton, e dagli adattamenti cinematografici del 1940 e 1944 (quest’ultimo conosciuto in Italia come “Angoscia”).
Nella storia, un marito cerca di portare la moglie alla pazzia manipolando piccoli elementi dell’ambiente, per esempio affievolendo le luci delle lampade a gas. La donna nota questi cambiamenti, ma il marito insiste nell’affermare che sia lei a ricordare male o inventarsi le cose. Questo la porta a dubitare sempre di più delle sue sensazioni e diventare sempre più emotivamente instabile. L’espressione – scrive insidemarketing.it – “può essere usata però anche in riferimento a come la propaganda politica, complottismi e negazionismo, la diffusione incontrollata di notizie non verificate o – peggio – manipolate e la sempre maggiore frequenza con cui i gruppi di interesse si dedicano al perception management hanno di fatto reso impossibile orientarsi tra cosa sia vero e cosa sia falso, cosa sia oggettivo e cosa frutto di mistificazione: il gaslighting è insomma un fenomeno tipico dell’era della post-verità”. La parola del 2021, sempre per gli appassionati del sottogenere, è stata manco a dirlo “vaccine”, mentre il 2020 verrà ricordato come l’anno di “pandemic” (se tanto ci dà tanto, entrambe sono candidate al titolo di parole più “influenti” del decennio, quasi un premio alla carriera…).
Per il Collins English Dictionary, infine, la word of the year è “permacrisis”, vocabolo-crasi per dire “crisi permanente”. In effetti, “quello che stiamo attraversando è un periodo particolarmente turbolento, in cui si stanno sommando una serie di emergenze e urgenze che non sembrano destinate a risolversi nel breve: quella energetica con i prezzi di gas ed energia alle stelle; quella ambientale con il riscaldamento globale che procede inesorabile; quella sanitaria con la pandemia che ancora sta mietendo vittime; quella bellica con il conflitto in Ucraina e le tensioni in molte altre parti del mondo; quella economica con l’inflazione e l’aumento dei costi; e quella sociale con le difficoltà che stanno vivendo moltissime persone. Alla luce di tutti accadimenti, non stupisce che una buona fetta della popolazione sia pessimista e che gli inglesi abbiano deciso di rispolverare un termine che era stato coniato nel periodo turbolento degli anni ’70” (my-personaltrainer.it). Inoltre, reduce dal nuovo corso dettato dalla Brexit, la società britannica ha dovuto e dovrà affrontare l’evento epocale della morte dell’amatissima Regina Elisabetta II, con tutto quel che ne concerne in fatto di nuovi equilibri “glocali”. L’anno scorso è stata la volta della parola composta “NTF”, cioè “not-fungible token”, che non ho ancora capito cosa voglia dire di preciso, mentre nel 2020 è toccato a “lockdown” (aridaje) e nel 2019 a “climate strike”.
E in Estremo Oriente? La Japanese Kanji Proficiency Society, per esempio, attraverso una votazione nazionale, ha eletto a kanji of the year (i kanji sono “caratteri logografici presi dalla scrittura cinese e utilizzati nel giapponese”) il corrispondente di “war battle”, ossia “battaglia di guerra”, con riferimento sia all’invasione russa dell’Ucraina che all’assassinio dell’ex primo ministro Shinzo Abe.
Il 2021, invece, è stato l’anno della parola “languishing“, espressione che indica una condizione di assenza di benessere, scopo e gioia. In cui la motivazione e la spinta vitale sembrano essersi spente, lasciando la persona in uno stato di inerzia e devitalizzazione.“Un senso di stagnazione e di vuoto: ti senti come se ti stessi confondendo tra i giorni, come se guardassi la tua vita da un finestrino appannato”.
Comunque, per chi voglia spulciare altre classifiche di questi anni, può trovarle qui: https://en.wikipedia.org/wiki/Word_of_the_year. A proposito: per l’estensore di questo articolo-ricognizione, la top ten del decennio (in ordine sparso) è questa: post-truth, cancel culture, fake news, Metoo, bunga bunga, bitcoin, influencer, Netflix, screenshot e woke.
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