Eretici, streghe e inquisizione in terra reggiana

Eresia e stregoneria nel Reggiano tra realtà e leggenda Il nostro storico indaga…

Carlo Baja Guarienti

Negli anni Quaranta del XVI secolo le città italiane assistono a fughe silenziose. Artigiani, medici, persino alcuni nobili e uomini di chiesa lasciano le proprie case per fuggire in Svizzera o, talvolta, scomparire senza lasciare tracce. Il Concilio di Trento è stato inaugurato nel 1545, ma già dal 1542 i tribunali dell’Inquisizione romana raccolgono voci e denunce: c’è chi ha sentito un vicino negare l’esistenza del purgatorio, chi in una casa nobiliare ha discusso della predestinazione degli uomini e chi ha avuto modo di ascoltare vere e proprie dissertazioni sulle idee di Lutero.

Mentre i custodi dell’ortodossia iniziano quell’opera di controllo che prima della fine del secolo porterà un irrigidimento in diversi aspetti della società – dal costume alla letteratura alle forme di devozione – molti fra i primi rappresentanti della Riforma lasciano l’Italia per trovare rifugio in terre, come la Ginevra di Calvino, in cui sperano (ma questa fiducia non sarà sempre ben riposta) di poter parlare di Dio alla luce del sole. Altri, invece, scelgono di restare nascondendo le proprie convinzioni oppure confidando nella protezione di amici o famigliari: è attorno a queste persone, nelle botteghe o nel segreto delle case, che si radunano in diverse città d’Italia gruppi di fedeli intenti a leggere libri proibiti o ad ascoltare predicatori eretici. Ed è contro queste forme d’eresia che l’Inquisizione istituirà un sistema capillare di processi.

Il recente saggio Gli eretici di Modena. Fede e potere alla metà del Cinquecento (Mursia 2010) di Matteo Al Kalak, pur scegliendo come caso esemplare la realtà modenese, ricostruisce un fenomeno le cui linee si potrebbero rintracciare in altre zone della penisola: le pericolose idee d’oltralpe viaggiavano con i libri e con i predicatori trapiantandosi sulle realtà locali e conformandosi negli aspetti esteriori alle società che di volta in volta le ospitavano. Emergono così biografie di uomini colti da dubbi, capaci di riflettere e pronti a rischiare per la propria fede. E accanto agli uomini compaiono donne estremamente lontane da uno stereotipo che le vede solamente come sbiadite figure di contorno: donne che accusano e si difendono, ma soprattutto scelgono la propria appartenenza religiosa sull’esempio di Renata di Francia, calvinista e sposa del cattolico duca di Ferrara Ercole II d’Este.

A Reggio il caso più noto e interessante è quello studiato da due grandi storici, Adriano Prosperi e Albano Biondi, nel saggio Il processo al medico Basilio Albrisio. Reggio 1559 (Reggio Emilia 1978). Nel monastero di Santa Chiara, dove le giovani donne erano quasi sempre rinchiuse dalle famiglie di provenienza per calcoli politici o economici, negli anni Cinquanta del XVI secolo dodici monache convogliano le loro ansie di misticismo sul medico Basilio Albrisio, che annuncia l’imminente secondo avvento di Cristo – avvento mediano, che precede quello finale dell’Apocalisse – e non solo si proclama profeta del rinnovamento della Chiesa e del mondo, ma afferma persino di essere colui in cui presto Cristo si incarnerà. Reggio come Betlemme, dodici monache come i dodici apostoli, Basilio come Cristo: è una nuova, minuscola Chiesa che attende la discesa dello spirito divino nel corpo del nuovo profeta.

Il vescovo Giovanni Battista Grossi e il vice inquisitore domenicano fra Girolamo da Mantova, interrogando il medico tratto in arresto, scoprono un uomo tormentato, che fra lunghe citazioni delle sacre scritture confessa di aver lottato per anni nel tentativo di resistere alla forza di una rivelazione che lo ha sconvolto nello spirito e nella carne; un uomo conscio della pericolosità della battaglia intrapresa («so che considererete blasfemo tutto questo», dichiara, «ma io lo sono»). Un uomo, infine, pronto al martirio, anzi quasi desideroso di compiere fino in fondo la propria missione e affrontare una passion più dolorosa di quella subita da Cristo.

Il papa Paolo IV Carafa, avuta notizia dello scandalo, ordina che Basilio sia portato a Bologna e di là prenda la strada di Roma. In una tappa di questo drammatico viaggio, a Modena, qualcuno tenta invano di convincerlo a ritrattare per salvarsi prima di comparire davanti ai giudici romani; ma a questo punto di lui si perdono le tracce, cosicché non sappiamo se abbia avuto il perdono oppure, come l’eresiarca Giorgio Siculo messo a morte a Ferrara qualche anno prima, abbia pagato con la vita la propria ossessione. L’esito del processo, forse, attende di essere riscoperto da un occhio acuto fra le carte romane del Sant’Uffizio.

LE STREGHE

Ma nella storia dell’Inquisizione nelle città del ducato estense sono ancora molte le nebbie da dissipare. La mappa della diffusione della stregoneria, per esempio, è tutta da tracciare. Se alcuni casi sono noti e studiati (fra i più rilevanti il grandioso rogo ispirato a Mirandola da Gianfrancesco Pico nel 1523, nel quale sono giustiziate dieci persone, e il processo a una strega modenese celebrato nel 1519 e studiato da Carlo Ginzburg), lo stesso Matteo Al Kalak, scavando negli archivi reggiani e modenesi, ha recentemente rintracciato gruppi di streghe ad Arceto, Borzano e Mucciatella. Sono soprattutto donne ma anche uomini, spesso appartenenti a quelle categorie – come le levatrici – depositarie di segreti della medicina popolare e della religiosità contadina; e alcune, come la strega Andrea di Borzano, viaggiano portando con sé quei segreti e formando nuovi gruppi, nuove cellule dedite all’eterodossia.

Di queste conventicole conosciamo la storia dai processi, dunque sappiamo quale fu il loro destino: alcuni adepti furono condannati a penitenze, digiuni e preghiere, qualcun altro morì in carcere o sul rogo. Ma nessun documento può raccontarci la storia di tutte le streghe che non furono scoperte, dei gruppi che riuscirono a rimanere nascosti e tramandarono di generazione in generazione un sapere antico. Un sapere che oggi, probabilmente, è irrimediabilmente perduto, ma forse sopravvive in labili tracce fra le usanze delle guaritrici e nelle forme a noi più incomprensibili della religiosità popolare.

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