Firenze – La cosa può stupire, dal momento che tutto ciò era ampiamente prevedibile, ed era stato annunciato da fior fiore di esperti: la seconda ondata di pandemia dovuta a covid – 19 avrebbe picchiato duro, non solo in termini di diffusione dell’infezione, ma anche di tenuta del sistema sanitario nazionale. E tuttavia, la rapidità con cui in Toscana si sta giungendo allo sgretolamento delle prime linee, in particolare per quanto riguarda posti letto e infermieri, è qualcosa che lascia perplessi. Tant’è vero che lo stesso presidente della Regione, Eugenio Giani, appena insediato e già alle prese con qualcosa che ha riferimento solo nell’ultima pandemia di spagnola, pochi giorni fa, ha posto la fatidica domanda: dove sono finiti i 5mila operatori sanitari assunti a febbraio scorso?
Se questo è il punto da cui partire in questo viaggio che fa Stamp dentro al problema della carenza in particolare di infermieri, gli appelli a rendersi conto della situazione non sono mancati, anzi. Tant’è vero che solo lunedì scorso era partita una nota durissima da Nursind, il sindacato autonomo delgi infermieri, con delle cifre apocalittiche: in una sola settimana i contagi tra gli operatori sanitari della Toscana sono più che raddoppiati, passando da 500 nel mese di ottobre a oltre 1200.
Il presidente di Nursind Giampaolo Giannoni
“Senza contare i casi delle Rsa, di cui non abbiamo dati certi – aggiunge Giampaolo Giannoni, segretario Nursind, che già all’inizio del mese aveva chiesto che fosse convocato urgentemente un tavolo in Regione senza ricevere risposta – ad una settimana dalla nostra denuncia sui numeri preoccupanti relativi agli operatori contagiati – dichiara – registriamo una crescita esponenziale dei positivi nel sistema sanitario. Circa 500 contagiati sono stati accertati unicamente tra le aziende Toscana Centro, Meyer e Careggi nel solo mese di ottobre. Tutto ciò va ad aggravare una insostenibile carenza di personale”. In altre parole: se anche si trovassero 500 posti letto in più negli ospedali, come annunciato da Giani, si rischierebbe di non avere il personale per gestirli. Percorsi inadeguati, denuncia Giannoni, e sordità della Regione che si ostina a non convocare un tavolo necessario per prendere provvedimenti urgenti, potrebbero rendere la situazione senza ritorno. Il tema riguarda anche la tenuta psicofisica degli operatori in servizio, sempre più decimati. E’ di oggi, giovedì 12 novembre, una nota allarmata di Opi Firenze-Pistoia (Ordine delle Professioni Infermieristiche interprovinciale Firenze-Pistoia), in cui si denuncia una circolare dell’Azienda Ospedaliera di Careggi che dispone la sospensione delle ferie per tutto il personale sanitario e tecnico fino al 31 gennaio. “Senza fare distinzioni né valutare la possibilità di concedere agli infermieri qualche giorno per il necessario recupero psico-fisico. Invece ferie e il riposo devono essere garantiti – puntualizza il presidente di Opi Firenze – Pistoia, Danilo Massai – non solo perché ne va della salute degli infermieri, risorse quanto mai preziose in questo momento, ma anche della qualità del servizio prestato ai cittadini”.
Sempre più stanchi, sempre più soli, sempre di meno. Ma allora, l’esercito dei 5mila cui si riferiva il presidente della Regione, o meglio, i 2.825 infermieri, i 1.629 operatori, i 79 assistenti sanitari,i 128 tecnici di laboratorio e i 317 medici che dovevano dare la svolta, mettendo in sicurezza il sistema sanitario toscano? Mentre i sindacati parlano di regolarizzazioni del precariato (circa 3mila) e di 2mila nuovi ingressi “reali”, il problema delle assunzioni sembra avere risvolti più complessi ancora.
Raggiunto a telefono, il professor Corrado Catalani, infettivologo, già primario del reparto malattie infettive dell’ospedale di Pistoia, ricostruisce almeno in parte i lati nascosti del problema. Intanto, “le assunzioni si possono dichiarare sulla carta – premette – ma è poi un conto diverso quello che si fa nella realtà. Ad esempio, spesso molti dei vincitori da graduatoria hanno già, al momento della chiamata, di regola diversi mesi dopo, trovato sistemazioni diverse, più vantaggiose sotto vari profili e declinano la chiamata. Nel caso specifico che stiamo vivendo, l’aumento del numero del personale sulla carta può non arrivare a coprire gli operatori che si perdono perché o positivi o in quarantena a casa o in fase di pensionamento. In sintesi, è diverso il reclutamento effettivo da quello teorico”.
Se questo è un problema generale, si aggiunge un altro problema di ordine strutturale, che riguarda scelte politiche e linee organizzative che risalgono a molti anni fa, antiquate e mai risolte, come spiega il professore. Eredità pesante, fra cui il dato della disomogeneità nella ripartizione del personale fra le Asl. Il rapporto più bilanciato e omogeneo sul territorio regionale è quello fra medici e posti letto, nonostante i dati non recentissimi, mentre quello fra infermieri e oss e posti letto “vede una ripartizione fra i vari territori fortemente sperequata, con la conseguenza che già il dato di partenza ereditato nelle strutture assistenziali non è un dato bilanciato ma squilibrato a monte. Senza contare che, una volta reclutato il personale, bisogna inserirlo al lavoro, il che non rende le nuove unità immediatamente operative”.
Lo sbilanciamento osservato per quanto riguarda la ripartizione del personale nelle varie aree “non è in funzione ne’ del numero dei presidi territoriali, ne’ ospedalieri, ne’ dipende dalla caratteristiche del territorio”. Per fare un esempio, continua Catalani, “l’Asl Centro che racchiude Firenze Prato Pistoia ed Empoli, un territorio piuttosto omogeneo dunque sotto i vari profili, vede un rapporto fra le varie figure professionali e i posti letto che varia di diversi punti per quanto riguarda Oss e infermieri. Ciò ha comportato una situazione già problematica, su cui a sua volta l’emergenza è stata gestita con un reclutamento effettivo giunto molto in ritardo”.
L’infettivologo Corrado Catalani
Anomalie che, se si confronta l’Italia col resto d’Europa, si ricompongono in un quadro più generale di cui ci si dovrebbe preoccupare ben di più di quanto si stia facendo. Nel confronto con i dati dei Paesi di area Ocse, infatti, il nostro Paese è messo malissimo per quanto riguarda la spesa pro capite, che è di 3428 euro in Italia e 3806 media Ocse, mentre gli infermieri attivi sono in percentuale in Italia 5,8 per mille abitanti, mentre nell’area Ocse sono 8,8 per mille (dati 2019). Dati stravaganti, in parte, perché mentre come rapporto fra medici in attività e abitanti vantiamo addirittura un numero superiore, se pure leggermente, alla media Ocse (non però se confrontati con la Germania, con la quale rimaniamo sotto di 18mila medici), ci poniano molto sopra alla media Ocse per quanto riguarda gli investimenti in tecnologia pesante diagnostica.
Il quadro, se si volesse azzardare una sintesi sia pur superficiale, darebbe: scarsità di infermieri, numero soddisfacente di medici, attrezzature al top. Ma il dato con cui ci confrontiamo ogni giorno è che non si riesce a dare risposta concreta ai bisogni della popolazione.
“Il vero punto critico – continua Catalani – è l’organizzazione, che continua a essere stabilita secondo schemi molto vecchi. Se si continua a ragionare, tornando alla scala toscana, con le zavorre indicate a cui si aggiunge la bassa dotazione di posti letto derivante dai tagli di questi anni, sembra impossibile venirne a capo. A questo voglio aggiungere un altro dato su cui non si concentra l’attenzione e che invece necessita di un’accurata ricerca scientifica: sui numeri forniti oggi dall’osservatorio internazionale della John Hopkins University, emerge che la Francia, a fronte di un milione 914mila 919 casi, presenta un numero di morti pari a 42mila 599; la Spagna, con 1.417.709 di casi, ha registrato 40.105 morti, l’Italia, con 1.020.424 casi ha raggiunto la cifra di 42.953 decessi. Si tratta di un divario che nessuno tenta di spiegare. E’ chiaro d’altro canto che un sistema con questo tipo di criticità è un sistema zoppicante. Fra problemi di sistema, di posti letto, di risorse professionali… torniamo all’inizio, il profilo più critico è quello degli infermieri”.
Quindi, cosa c’è che rende il sistema inadeguato ai bisogni, già in tempi ordinari, figurarsi in tempi di pandemia? Il professor Catalani non ha dubbi: “La riforma Bindi introduce il concetto di azienda nella sanità, cambiando la mission stessa della sanità pubblica. Il profilo organizzativo aziendalistico non è adeguato a rispondere ai bisogni sanitari di un Paese: troppo gerarchizzato, troppo giocato sui bilanci e poco sull’efficacia del sistema. Continuiamo a registrare da anni tassi standardizzati di mortalità generale sperequati sia a livello nazionale che regionale. Questo avrebbe richiesto una programmazione finalizzata ad affrontare il problema con interventi mirati. Di questo ad oggi non c’è traccia. Ora, mentre il sistema sta sopportando una durissima prova di tenuta, riprogettare tutto in un momento di massima criticità è difficilissimo. Ricordiamo che si sono persi di vista i pilastri fondanti il sistema pubblico, diritto alla salute ed equità”.
In sintesi, siamo arrivati ad un punto critico del percorso, in cui assistiamo a quello che potrebbe essere definito come il crollo di un ponte dell’autostrada, su cui si continuava a passare senza tener conto del fatto che l’infrastruttura era debole. L’introduzione della visione aziendalistica nella sanità pubblica ha anche comportato i tagli ben conosciuti alle risorse, da quelle monetarie a quelle infrastrutturali al personale, con la convinzione, rivelatasi tragicamente errata, che la compensazione privatistica avrebbe colmato il vuoto.
“Un segnale ormai storico di questa deriva – conclude Catalani – è il fatto che i nostri investimenti in prevenzione sono tra i più bassi dei paesi Ocse. Trascusioamo di fare un investimento a basso costo ed alta resa, mentre abbiamo operato tagli alle strutture, contratto gli investimenti, non abbiamo potenziato il territorio che è fermo o addirittura arretrato, abbiamo continuato a utilizzare modelli organizzativi non adeguati ai bisogni. La programmazione di formazione di specialisti, fra Università e sistema pubblico, non ha risposto alle esigenze. Il risultato, messo tragicamente in luce dal Covid-19, è: pochi fanti in trincea con scarpe di cartone e unico elemento di tenuta, la competenza dei singoli e l’abnegazione”. Ma per quanto basterà?