Eleanor Roosevelt, una first lady per il mondo

Firenze – Nel sistema politico americano c’è un personaggio che nei due secoli e mezzo di Costituzione repubblicana è andato alla ricerca di una identità istituzionale. La First Lady, la moglie del presidente in carica, all’inizio è stata housekeeper della casa Bianca, ospite irreprensibile, custode e protettrice del benessere (e dell’efficienza) nonché della carriera del Presidente, “madre degli americani” dunque attenta alle grida di dolore dei più deboli da trasmettere al potente marito.

Nel corso dei secoli le diverse first lady hanno svolto il loro compito accentuando questo o quell’aspetto  secondo quanto poteva suggerire la loro personalità, ma anche secondo quanto spazio loro concedeva il capo supremo dell’esecutivo. Fino all’arrivo di Eleanor Roosvelt, consorte  di Franklin Delano Roosevelt, il presidente dei quattro mandati, del New Deal e della vittoria contro il nazi-fascismo. “A questa figura Eleanor Roosevelt ha impresso una svolta senza ritorno, fissando un parametro di riferimento alla cui luce difficilmente ci si può esimere dal leggere la personalità e l’operato delle altre inquiline della Casa Bianca”.

Parte da questa premessa il libro di Rossella RossiniEleanor Roosevelt – Una first lady per il mondo” pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura con una presentazione di Furio Colombo. Giornalista ed esperta traduttrice di libri di saggistica economica, politica e sociale, Rossella Rossini si è appassionata alla figura di Eleanor traducendo per la stessa casa editrice diretta da Tommaso Codignola una selezione di scritti e discorsi di colei che, dopo aver letto il lavoro dell’autrice, si fa sempre più fatica a definire, per comodità giornalistica, “moglie del presidente Roosevelt”.

Eleanor è stata una precoce combattente per i diritti politici e civili delle donne, degli afroamericani e di altre minoranze, per quelli dei lavoratori e per la tutela delle fasce più deboli della società, ma anche protagonista della “magna charta” dei diritti: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani  approvata senza neanche un voto contrario dall’Assemblea generale dell’Onu il 10 dicembre 1948 è frutto del suo lavoro come presidente della Terza Commissione. Un impegno e un’attività impressionante, raccontati dettagliatamente e con grande partecipazione dall’autrice, che fanno di lei “una delle maggiori rappresentanti del pensiero e del movimento progressista del Novecento, negli Stati Uniti e non solo”.

Leader indiscussa,  punto di riferimento di tanti americani con i quali ha dialogato per 40 anni (dal 1921, inizio della carriera politica, al 1962, anno della sua morte) attraverso tutti i media più importanti del suo tempo fra cui  una rubrica My Day, con la quale diffondeva giorno per giorno idee, opinioni e valori, e che giustamente l’autrice indica come un esempio di blog ante litteram.

Soprattutto una donna che non ha mai smesso fin dai suoi primi impegni giovanili di lottare per la promozione dei diritti delle donne partendo dalla società civile, dalle sue organizzazioni e dalle istanze di base, instancabile nell’imporle nelle agende di un ceto politico profondamente tradizionalista e conservatore. La prima vittoria fu il voto femminile al livello federale nel 1920.

Anche all’attenzione di Franklin quando divenne governatore dello Stato di New York (1929-1932) e poi presidente degli Stati Uniti (dal 1933 al 1945). Uno dei capitoli più interessanti del volume è il rapporto paritario che sul piano politico e intellettuale si era instaurato all’interno del ménage familiare.

Eleanor non ha esitato a prendere posizioni in pubblico che non erano fra le priorità del marito e che spesso addirittura apparentemente non ricevevano la sua approvazione. Essa non solo era la consigliera più ascoltata dal presidente “agendo da partner nella coppia presidenziale, ma con ampi margini di autonomia e pronta a rendere pubblico il suo dissenso dalle linee dell’amministrazione”.

Un gioco della parti? L’autrice ne è convinta. Nella dialettica politica fra i due, Eleanor portava avanti battaglie che a Franklin erano precluse dai rapporti di forza all’interno del Congresso e dalla necessità di non erodere la base elettorale: esempio fra tutti, i disegni di legge per rendere reato federale la pratica del linciaggio, espressione terribile del razzismo verso gli afroamericani negli stati del sud, il voto dei rappresentanti democratici dei quali tuttavia erano indispensabili per sostenere le leggi del New Deal.

Rossini, che da buona giornalista fa continuamente riferimento all’attualità, ricorda che solo nel 2019 il linciaggio è stato riconosciuto crimine federale dal Senato grazie alla proposta di legge presentata dall’attuale prima vicepresidente donna degli Stati Uniti Kamala Harris. E’ passato un testo analogo alla Camera, ma l’iter non è ancora finito perché i due testi devono essere armonizzati. Sarà Joe Biden a firmarla.

Proprio la citazione della Harris stimola una riflessione alla luce del cambio della guardia alla Casa Bianca. Certo alcune first lady del secondo dopoguerra hanno fatto tesoro del modello Eleanor, come assistenti e consigliere del presidente ammesse alle riunioni di gabinetto come “associate president” come Rosalynn Carter o addirittura come “co-president” come Hillary Clinton che insieme a Bill “vinsero le elezioni dopo una campagna elettorale basta sulla promessa di una twofer presidency: due al prezzo di uno, vota Clinton e ne prendi due”.

Eppure per il suo carattere istituzionalmente ambiguo, perché figura non  legittimata dall’elettorato,  la ladyship non ha mai potuto decollare veramente se non grazie a figure eccezionali come Eleanor. L’avvento della prima vicepresidente donna è un grande passo avanti nella parità dei generi. La possibilità che una donna conquisti la Casa Bianca è assai più vicina che ai tempi di Eleanor. Lei  ne è stata antesignana così come del resto Hillary, sconfitta da Trump nel 2016. “Né gli uomini né le donne si sono abituati a seguire una donna vedendo in lei una possibile leader”, lamentava nel 1946. C’è qualcosa di nuovo a Washington.

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