“Einstein on the beach” ha incantato il pubblico del Valli. Ma non poteva essere altrimenti: aveva tutte le carte in regola per non deludere. Basti pensare alle premesse. Questo capolavoro – del regista Robert Wilson e del compositore Philip Glass – fece già scalpore quando venne messo in scena la prima volta, in Francia al Festival di Avignone nel ’76. Sconvolse il modo di fare teatro, stravolgendo tutte le regole dell’opera convenzionale. Nonostante gli anni trascorsi, rivoluzionario lo rimane ancora oggi. Ed è probabilmente proprio per questo che affascina. Definirlo o parlarne non è cosa semplice e il suo bello è proprio il fatto che si presta alla libera interpretazione individuale. Potrebbe dirsi un evento tra sogno e realtà, un tuffo nella mente matematica e musicante di Einstein, un’opera che ti aggroviglia il pensiero e che allo stesso tempo ti illumina e fa riflettere, che sa essere lentezza e ritmo insieme. Insomma, è tutto questo e molto altro ancora. Per dirlo con due parole, banalmente, altro non è che uno “spettacolo spettacolare”.
L’opera, articolata in quattro atti tra loro collegati e separati da una breve serie di intermezzi musicali, è durata circa cinque ore. Un tempo piuttosto lungo durante il quale il pubblico si è potuto muovere liberamente in sala, entrando e uscendo per prendere una boccata d’aria o per fare un aperitivo al bar del Ridotto. Anche questo ha contribuito a stravolgere l’immaginario collettivo riguardo a quel che accade a teatro: solitamente si sta a sedere durante la rappresentazione e si aspetta l’intervallo per uscire dalla sala. Qui anche questo non c’è stato.
Torniamo alla rappresentazione. L’inizio era fissato per le 19 sabato sera e per le 16,30 domenica. Così si leggeva sul biglietto ma per tutti è stato inevitabile controllare l’orologio quando si è raggiunto il proprio posto a sedere. Il motivo? La performance era già iniziata, forse per preparare sin dall’inizio il pubblico allo stravolgimento delle regole. Si è stati accolti da una musica corale fatta di numeri ripetuti all’inverosimile che, successivamente, è stata sostituita da note musicali solfeggiate (do-re-mi). Nessuna forma narrativa ha regnato per tutta la rappresentazione, bensì varie storie misteriose e poetiche recitazioni in inglese si sono intrecciate con la musica eseguita dal Philip Glass Ensemble diretto da Mikael Riessman (direttore storico della prima assoluta di 40 anni fa). I performers hanno continuamente dato vita a una danza astratta – ideata dalla coreografa americana Lucinda Childs – fatta di movimenti regolari dal potere ipnotizzante. Poi vi sono state una serie di immagini visive ricorrenti che hanno funto da collante: una locomotiva, un processo giudiziario in cui è comparso un letto, una nave spaziale. Per John Rockwell, critico d’arte del “New York Times”, sono questi i simboli che spiegano dove sta Einstein in tutta questa opera, ovvero sono un rimando alla sua vita: “il treno –dice – potrebbe essere un simbolo della società pre-atomica; il processo è forse quello fatto alla scienza; l’astronave è la forza potenziale del futuro”. Einstein si cela soprattutto dietro questo, anche perché non compare come protagonista sulla scena. O meglio, un musicista truccato e pettinato come Einstein da vecchio c’è, però è collocato dinnanzi al palco sopra una piattaforma e si limita, silenzioso, a suonare il violino. La sua presenza, in un qualche modo, si respira anche nella musica creata dalla ripetizione dei numeri, nei movimenti calcolati quasi matematicamente, nel tribunale ricreato come un laboratorio scientifico, negli attori che a un certo punto si rivolgono al pubblico facendo la linguaccia (come fa Einstein in una famosa foto che lo ritrae). A rendere ogni cosa ancora più accattivante ci hanno pensato i giochi di luce (verticali, orizzontali, circolari), i costumi (ha dominato il bianco degli abiti e dei volti, alternato a dettagli neri e a qualche rosso) e le scenografie vaste e spettacolari.
Einstein, si narra, era uno scienziato sognatore. E forse “Einstein on the beach” è proprio pensato in questa chiave: entrati a teatro, si è stati catapultati dentro a una specie di sogno, dove confusamente si sono susseguiti riferimenti impliciti alla vita del genio; la musica ha avuto un ruolo centrale visto che lui era anche un musicista e il tema del sogno è stato evocato pure tramite l’enorme letto che ha dominato la scena del processo. Della spiaggia del titolo, neanche l’ombra. Se ne sente parlare solo un attimo in uno dei testi recitati: viene menzionata per dire di evitarla.
“Einstein on the beach” si è concluso con l’ingresso sul palco di un attore di colore che, alla guida di un autobus, ha raccontato una storia di una coppia di amanti. Ad ascoltarlo due donne, che hanno avuto un ruolo predominante in tutta la rappresentazione. Quindi con l’autobus giunto al capolinea, si è arrivati alla fine e gli applausi sono stati interminabili. Sul palco è salito anche il numeroso staff che ha lavorato dietro le quinte: ben 52 persone del Valli e settanta della compagnia americana.
Insomma, un successo per l’unica tappa italiana di questo evento che sta facendo il giro del mondo – toccando ad esempio Montpellier, Londra, New York, Mexico City –, che è tornato a calcare i palchi a quasi 40 anni dal suo debutto e a venti dall’ultima volta, e che ha attirato a Reggio Emilia anche molti spettatori stranieri e nomi noti. Uno su tutti: John Rockwell, responsabile della pagina culturale del New York Times.
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