Esco di casa, in una piazza importante di Firenze, come Piazza Beccaria, e vedo l’edicola chiusa. Era lì che, fino a pochi giorni fa, compravo i giornali. Ma mi recavo anche ad un’altra edicola, ad un incrocio di strade, duecento metri più in giù, in via della Mattonaia. Chiusa anche quella. Con i giornalai di entrambe le postazioni avevo fatto amicizia. Mi dà tristezza non vederli più.
E come sono tristi i chioschi chiusi. Sprangati. Imbrattati da scritte e disegni di qualche perdigiorno. Si dirà: è la tendenza «naturale» del nostro tempo. Il cartaceo non va più e i venditori dei giornali (di carta) ne patiscono le conseguenze. C’è del vero (anche se l’amarezza, comunque, rimane), ma l’impressione è che la questione sia più complessa. Per spiegarmi, mi riferisco ad un altro episodio recente.
Alcuni giorni fa, «Testimonianze», la rivista che chi scrive ha la responsabilità di dirigere, insieme ai «Quaderni del Circolo Rosselli», ha promosso un’iniziativa sui risultati elettorali e sulle prospettive politiche del Paese, al complesso delle Murate (negli edifici delle vecchie carceri, dove è stato fatto un bel lavoro di recupero e riqualificazione urbanistica). È andata molto bene. Un pienone. Una discussione appassionata. Ma anche lì abbiamo dovuto registrare un retrogusto di amarezza. E spiego perché.
L’incontro si è svolto in un nuovo auditorium, in cui eravamo ospitati. Benissimo. Con il dettaglio, non trascurabile, che l’auditorium è stato ricavato (con un’operazione meritoria, sia ben chiaro) nei locali di una bella libreria. La Libreria Nardini. Che era anche un centro culturale. Che ha chiuso per l’insostenibilità della situazione economica.
Edicole che spariscono; librerie che chiudono. Senza drammatizzare troppo, c’è di che riflettere. Sono, prima di tutto, riferimenti di carattere umano e sociale che vengono a mancare. E, poi, dietro, si intravede la preoccupante crisi del mondo dell’informazione e dei giornali e la persistente sottovalutazione dell’importanza del «fattore cultura» nel nostro Paese. Ma, come sopra accennato, si dirà che c’è il web. Importantissimo, per carità.
Queste stesse righe vengono scritte per una nuova rivista on line a cui sono lieto di collaborare e a cui auguro buon viaggio. Ma il problema non è semplicemente quello dei supporti di cui ci serviamo per trasmettere le informazioni e per dibattere le nostre opinioni. L’impressione è che alla lettura dei «vecchi» giornali e delle tradizionali riviste su carta, si vada sostituendo una lettura, spesso, molto veloce e, come si dice «cursoria» (con scorrimento veloce di titoli e flash di notizie).
E poi c’è il mondo dei social e dei talk show, in cui si parla o scrive continuamente, in cui tutto fluisce, ma raramente sedimenta e scava in profondità. L’informazione, a volte, viene scambiata con l’intrattenimento e con lo spettacolo. E lo spettacolo spesso si basa sulla contrapposizione delle posizioni estreme o sulla legittimazione, su un livello di pari considerazione, di posizioni la cui valenza sarebbe opportuno distinguere: come quelle della scienza, poniamo, e dell’anti-scienza. Proliferano risentimenti, intolleranze ed estremismi. I social, uno spazio di per sé di enorme potenzialità democratica, ne sono ormai infestati.
E, dunque, se questa è la situazione, si ripropone la classica domanda: che fare? Non è certo qui possibile trattare la questione in maniera articolata Ma il tema lo si può enunciare con chiarezza: difendere, recuperare e aggiornare agli anni duemila la dimensione e le regole del buon giornalismo. Quello che verifica le notizie, controlla le fonti, cura gli approfondimenti, detesta e combatte le fake news. Che, poi, il lavoro del buon giornalismo lo si esplichi on line (come ormai avviene, giustamente, su larghissima scala) o su carta (che ha ancora un suo spazio e che con il web può positivamente interagire), non importa. Ma questo è il punto.
L’esistenza di un buon giornalismo, indipendente, serio e di qualità è garanzia di buon funzionamento della «società aperta». Cioè, della democrazia. In generale, il discorso va esteso al «settore cultura». Sarebbe auspicabile che le librerie tornassero ad essere punti di riferimento e presidi dei territori. La ricchezza (e la qualità della vita) di un Paese, dopotutto, non si misura solo con il Pil, ma anche con il livello culturale e con la buona salute dell’informazione libera.
Sono questioni cui anche la politica dovrebbe tornare a prestare attenzione. Il futuro governo, al di là di ogni considerazione sul suo colore politico, se vuol fare cose meritorie, ha, su questo piano una buona occasione. Elabori un piano per dare sostegno, in modo non assistenziale, al mondo della cultura e a quello della buona informazione. Sarebbe controcorrente. E farebbe un’opera importante per un Paese che, ogni volta che chiude un’edicola, una piccola libreria, un centro culturale, perde un pezzetto del proprio, vitale, tessuto connettivo. Non succederà, lo sappiamo. È un vero peccato, perché sarebbe bello. Un piccolo, e impossibile, sogno.
E a proposito di sogni impossibili, mi piacerebbe poter vedere che domani, all’improvviso, una almeno delle mie edicole tirare su, di nuovo, i bandoni, esporre i giornali, aspettare che la gente si fermi. Personalmente lo farei subito. Darei contento il buongiorno all’edicolante ritrovato e direi, come qualche volta ho fatto davvero, in battuta: «Oggi, mi raccomando, solo buone notizie!».