Don Patriciello: la paura è un dono di Dio. I rischi? Quelli del mestiere

Il parroco di Caivano, uno dei paesi all’interno della Terra dei Fuochi

Don Maurizio Patriciello non è persona davanti a cui si possa provare indifferenza. La verità è spesso una sostanza difficile da maneggiare, ma don Patriciello, forse per mestiere, ci è avvezzo e non la teme. Parroco di Caivano, uno dei paesi all’interno della Terra dei Fuochi, segnato dalla strage dovuta al cancro nelle sue multiformi mutazioni, che alita dalle terre avvelenate dalla camorra, agli onori delle cronache per episodi di violenza e stupri perpetrati su vittime poco più che bambine. Un sistema criminale avvolgente e asfissiante, che uccide in vari modi, dall’uccisione fisica al tentativo di avvelenare l’anima. Don Patriciello queste cose le sa, e si oppone, tanto da ricevere minacce pesantissime.

Una battaglia a tutto tondo, che non sceglie colori politici, come dimostrò invitando la presidente del Consiglio dopo i fatti di cronaca che ferirono la comunità e il Paese, ma anche con la sua attività nella denuncia degli sversamenti, nelle segnalazioni, insieme a un’umanità dolente ma determinata a far riconoscere la propria dignità. Lo abbiamo ascoltato in un pomeriggio di inizio estate a Firenze, nel cortile delle Murate, in un incontro organizzato dall’associazione per la legalità Il Gomitolo Perduto, in cui ha partecipato stando sul palco insieme a Gabriele Capuana, ex questore di Siena, e Salvatore Calleri, presidente della Fondazione Caponnetto, moderatrice, Mimma Dardano.

La vocazione di don Patriciello ha delle modalità che riportano ai tempi evangelici. Alla domanda “Chi te l’ha fatto fare? “, la risposta è: “Non lo so, bisogna chiederlo a qualcuno che sta sopra di noi. Io ancora ci credo, non so se ci credete anche voi. E’ Lui che decide tutto. Sono un caporeparto di ospedale, ho lavorato dieci anni a cento metri da casa mia, non ero neanche più cattolico, battezzato da bambino, ma a un certo punto ho pensato che la Chiesa non aveva più niente da dirmi o da darmi. Sono andato per altre strade, quando all’improvviso, un giorno, andando a Napoli, incontro una persona strana. Un uomo completamente scalzo, con addosso un saio grigio, con qualcosa in mano che mi ha ricordato mia madre, che lo usava quando era viva, ovvero una corona di rosario. Mi sono fermato e, curioso come sempre , gli ho chiesto ma chi sei, perché vai scalzo? Si chiamava frate Riccardo, e adesso sta consumando la sua vita in Tanzania. Ci siamo detti poche cose. Poi sono tornato a cercarlo, ma non l’ho trovavo perché “loro” non hanno un convento. Vivono in vecchi vagoni ferroviari, dismessi dalle Ferrovie, che d’estate si arroventano e d’inverno si gelano. Ho chiesto il perché di tutto questo sacrificio, e la risposta è stata: far capire a tanta gente che ha tanto e non è mai contenta, che si può essere contenti anche con poco. Mi sono iscritto a teologia e sono diventato prete”.

Ma cosa vuol dire essere prete, ai nostri tempi? “Si apre una grossa questione. Voglio ricordare come l’ex procuratore di Napoli, il dottor Luigi Pirlo, aprì l’anno giudiziario di qualche anno fa: “Via i don Abbondio dalle chiese”. Una cosa bellissima, cui ho risposto con un editoriale su Avvenire, ringraziando dello stimolo il dottor Pirlo, ma aggiungendo via i don Abbondiio dalla magistratura, via i don Abbondio dal giornalismo, via i don Abbondio dalla politica…. insomma, i don Abbondio li troveremo sempre, stanno in mezzo a noi. C’è chi vuole il prete rinchiuso in sacrestia a spolverare i banchi, chi dice che deve sporcarsi le mani, ma, quando non gli conviene, gli ingiunge di tornare in sacrestia. Allora, bisogna sempre andare per la propria strada. Sono stato fatto prete in un quartiere popolare, brutto, la colpa non è dei poveracci che vi si trovano, ma della politica che lo ha pensato.

Bisognerebbe mettere in galera tutti i politici che hanno pensato di ammassare in un solo posto tutti i poveri dei quartieri poveri di Napoli, dopo il terremoto dell’ ’80, gli architetti che lo hanno progettato, e via così. Ci sono andato e son contento, perché saranno poveri di tante cose, ma sono ricchi di umanità. Là ti cali nel loro luogo, vedi la loro vita. Di questo quartiere, il mio governatore, Vincenzo De Luca, ebbe a dire l’anno scorso, “A Caivano lo Stato non c’è. Stop”. Che lo dica mia madre o mia nonna, può andare anche bene, ma che lo dica il governatore della Campania, non mi sta più bene.

Giorgia Meloni, venendo a Caivano su mio invito l’anno scorso, disse che c’era una zona franca e zone franche in Italia non ce ne devono essere. Ma se lo Stato non c’è, bisogna portarcelo. Ciò che è successo dopo, è che, dal momento che il governo è di destra, allora è stato detto che sono un prete di destra. Ma prima di questo governo, c’era un signore un signore che si chiama Matteo Renzi. Ha ricoperto un ruolo importante, anch’io l’ho incontrato anni fa. Mi chiese come andava, riguardo alla terra dei fuochi e ai rifiuti. Risposi che tanti rifiuti provenivano anche dalla sua regione. Mi rispose . “Sì lo so so, don Patriciello, Santa Croce sull’Arno”. Da allora ho saputo che c’è questo problema. Ma non è giusto che i rifiuti toscani li abbiamo noi in Campania, allora ognuno si tenga i suoi. Dopo di lui, venne Conte. Volendo solo aiutare la povera gente, a chi ci si può rivolgere? A chi, nel dato momento, è l’autorità”.

Senza colori politici che tengano, L’obiettivo, prendere le difese di questa “povera gente, maltrattata, umiliata, avvelenata. Se non si prende la loro difesa, si diventa complici. E dal momento che ci credo a quel Signore che sta lassù, anzi, che non sta lassù ma sta in mezzo a noi, penso che un giorno mi chiederà qualcosa e la domanda sarà: “Maurizio, ma tu quel giorno dove stavi? Mentre quella bambina veniva stuprata, dov’eri? Mentre quella donna morìva di fame, dov’eri? Il Vangelo dice: “Neanche un bicchiere d’acqua che viene dato a un povero, il Signore lo dimenticherà”. Allora, se permettete, sapendo che Lui, non dimentica niente, vorrei trovarmi, quando Lui me lo chiederà, ad aver dato più di un bicchiere d’acqua”.

La pervasività della presenza criminale, che non riesce neppure a essere intercettata dalle istituzioni, come dimostra il fatto che, come ricorda il questore Capuana, Firenze si pone al terzo posto in Italia per reati di criminalità di strada, lasciano la palma a Genova, mentre Napoli si ritrova fra gli ultimi posti in classifica, è spiegata da don Patriciello con un esempio: chi paga mille euro per avere indietro l’auto rubatagli la sera prima, non denuncerà il furto e l’estorsione allo Stato, perché non ci crede più, nello Stato. “Questi dati alla questura non arriveranno mai. Laddove la gente è scoraggiata, non si presenta in caserma. Anche il mondo dei tribunali ha delle modalità che non risultano comprensibili e scoraggiano le persone”.

Un esempio, una storia incredibile, quella di Luigi Leonardi, autore di un libro, “La paura non perdona“, che, dopo aver ceduto al pizzo, decide, per dignità e perché ormai schiavo economico delle cosche, di denunciare. Perde tutto, è vittima di due attentati il primo di “avvertimento”, il secondo che lo riduce in coma, ma non demorde e diventa testimone di giustizia, che significa avere almeno una tutela. Passa qualche tempo, poi, a causa di un cugino di suo padre che neppure ha mai visto e ha mai conosciuto, ma che ha lo stesso cognome e che viene accusato di essere legato alla camorra, “scade” a collaboratore di giustizia, un ruolo riservato a chi, dopo avere agito come affiliato, si “pente” e inizia a collaborare, ottenendo uno sconto di pena. Un esempio paradossale, dal momento che Leonardi si è solo ribellato alla violenza dei clan, mai è stato loro affiliato. Mai, come afferma don Patriciello. La battaglia per ottenere la cancellazione di quel paradossale “declassamento” è tutt’ora in corso.

Cambiare la legge, cambiare le leggi. Cosa non proprio così facile. Non facile per Leonardi, non facile per i cittadini. In particolare, però, per i cittadini che non hanno voce. “Quando c’erano i roghi tossici, che bruciavano a tutte le ore, e non si poteva più respirare, non si poteva più vivere – ricorda don Patriciello – sono andato a bussare a tutte le porte. Un giorno, ho capito che bisognava mettere insieme tutti,dai cittadini ai magistrati, agli oncologi”.

Anello fondamentale quest’ultimo, per la presenza invasiva del cancro nella popolazione. “ma non c’era, a Napoli, un registro tumori. Senza di quello, come si fa a dire che la gente stava morendo? Allora, abbiamo pensato di censire il codice 048, che è quello che indica presso i medici di base le persone affette da patologia oncologica, che le esenta dal ticket. Perciò, l’idea fu: andiamo a chiedere ai nostri medici quanti 048 sono presenti sui loro computer. Anche ai parroci si poteva chiedere quante persone erano morte di cancro nell’anno”. Insomma una sorta di contabilità dell’orrore che poteva sopperire alla mancanza del registro dei tumori, dimostrando la presenza conclamata del cancro nella popolazione, ben al di sopra della media nazionale. “Un giorno, un magistrato, un grande magistrato calabrese, morto in un incidente stradale, Federico Bisceglie, mi dice: “Ciò che stai facendo è bellissimo, ma è tutto inutile”. Rispondo: “Come? Vuoi anche tu scoraggiarmi?”. E lui: “E’ tutto inutile perché l’Italia non ha una legge sui reati ambientali” “Federico che dobbiamo fare?” “Bisogna chiedere uan legge sui reati ambientali”. La legge, noi, la chiedemmo. E’ stata scritta con il nostro sangue. Se adesso esiste una legge, la legge 22 maggio del 2015, lo si deve a quella gente là, quella che è morta e quella che sopravvive, che ha fatto una legge non solo per sé, ma per voi, per tutti”.

Legge e giustizia, un confronto serrato. Acerra è un paese dell’hinterland napoletano all’interno della Terra dei Fuochi. Avvelenato. In quella zona, si trovava una società di cui erano titolari tre fratelli, i fratelli Pellini, che si occupava di rifiuti. I tre furono condannati a 7 anni di reclusione nel 2017, in via definitiva, per disastro ambientale. L’accusa, aver sversato nelle campagne di Acerra, rifiuti pericolosi. In realtà la loro permanenza in carcere fu molto minore, assommando benefici e indulto. Ma il punto è un altro, come spiega don Patriciello. “Agli imprenditori vengono confiscati qualcosa come 222 milioni di euro”, da destinarsi alla bonifica dei terreni avvelenati. Intanto arriva la pandemia, che distoglie l’attenzione sul caso. “Gli avvocati dei condannati fanno il loro dovere. A pandemia terminata, ci s’accorge (se ne accorgono i volontari) che per questioni temporali e scadenza di termini, i beni confiscati stanno per tornare in mano ai condannati”. Immediata la reazione, con immediate segnalazioni su su, “fino al ministro della giustizia, passando dal ministero al vice ministro, ovunque si potesse sperare”. Ma la legge è legge. Si arriva al momento in cui questi soldi vengono restituiti. Erano quelli che servivano per le bonifiche. “Naturalmente non ci siamo fermati – conclude don Patriciello – e il governo ha inviato un ispettore, che farà la sua parte. E poi c’è Gratteri a Napoli. Ma quella sera, ad Acerra, nelle ville dei condannati si festeggiava.”.

Il problema del Sud: tre commissari a Caivano, dopo due scioglimenti per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Filippo Dispenza, Simonetta Calcaterra e Maurizio Alicandro, Dovranno traghettare il Comune verso le nuove elezioni. A portare la fascia tricolore, fino all’elezione del nuovo sindaco, Filippo Dispenza. Torinese. Persona conosciuta da don Patriciello, che ne intesse le lodi. Ma che avanza anche una riflessione sul Sud, “non siamo riusciti ad aver nessuno, noi, per indossare quella fascia tricolore. Sono un italiano, ma sono anche un italiano del Sud. Avrei voluto che l’unità d’Italia si fosse compiuta in modo più sereno, avrei voluto che le due Italie camminassero allo stesso livello. Non è successo. Ma dobbiamo andare avanti, far camminare le due Italie sullo stesso piano”.

Giorgia Meloni, l’anno scorso. “L’ho invitata ed è venuta. Le ho detto questo: “Presidente, abbiamo una grande voglia di applaudirla. Si prenda i nostri applausi, ma si ricordi che sappiamo anche fischiare. Però siamo stanchi di fischiare. Per cortesia, non ci faccia fischiare più”, Tutto ciò perché”I politici devono fare la loro parte, i cittadini la loro, come gli avvocati e i giudici”. E tornando sul dissequestro e restituzione dei beni ai condannati, don Patriciello precisa: “Attenzione, se avessero avuto indietro i soldi per giusta sentenza, mi sarei tolto il cappello. Ma riaverli per decorrenza dei termini, è una cosa insopportabile, per me e per tutte le persone di buona volontà”.

Infine, considerando le minacce ricevute e la situazione ambientale in cui si trova padre Patriciello, la domanda non può che essere: “Padre, ha paura?“. “Intanto voglio ricordare le parole di Lucia Borsellino, che ho incontrato pochi giorni fa all’Università di Palermo. Prima delle bombe, ha detto, mio padre è stato ammazzato dalle parole. Le parole vanno pesate sempre, soprattutto quando a pronunciarle sono personalità in vista che hanno un ruolo istituzionale alto. Prima delle bombe, arrivano le parole. E’ vero, ho ricevuto qualche minaccia, due anni fa hanno messo una bomba fuori dal cancello della mia parrocchia, e mi sono chiesto, essendo amico di Luigi Leonardi, ho chiesto a lui, ma insomma da te, caro amico volevano i soldi, ma da me che possono volere?”.

“Che cosa volevano da me? Ecco, forse volevano qualcosa che è ancora più importante dei soldi. volevano mettere a tacere una voce libera. Capite che chiunque vuole mettere a tacere una voce libera, fa qualcosa di orribile e vi sta rubando qualcosa. Non ho niente da difendere: non ho figli da mandare in Parlamento o a cui assicurare la carriera, so vivere con un panino, non voglio niente, Se si mette a tacere una voce libera, abbiamo però perso tutti”.

Per quanto riguarda la paura: “Penso che la paura sia un dono di Dio. Si tratta di un sentimento, emozione, sensazione, che deriva da Dio. La paura può essere utile per evitare i pericoli e ad essere prudenti. Ma se la paura mi blocca per quanto riguarda le grandi aspirazioni delle vita, no. Lo so, può capitare qualcosa di brutto. Rispondo con questo. Sono un prete, il mio non è un lavoro, è una missione, Ma in fondo, può essere considerato anche un lavoro, Bene o male, la Chiesa mi dà 35 euro al giorno. Di fame non muoio. Allora faccio una domanda io: quante persone sono morte anno scorso, quest’anno e anche in questi giorni, quante persone stanno morendo sul posto di lavoro? Se un rischio lo corre anche una persona che di lavoro “fa il prete”, significa che bisogna mettere in conto anche questo nel rischio del mestiere”.

In foto: don Maurizio Patriciello


			
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