Il Ddl Calderoli, che riguarda l’attuazione della cosiddetta “autonomia differenziata”, è stato al centro di una serie di incontri organizzati dal Gruppo per la Costituzione, sezione di Bagno a Ripoli. Incontri che hanno visto, nel corso delle riunioni, anche la raccolta firme per la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare di modifica dell’art. 116 comma 3 e 117 commi 1,2 e 3 della Costituzione.
Il focus dell’intervento di Beniamino Deidda, già Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, mette l’accento sulle numerose criticità che, a livello costituzionale, il cosiddetto Ddl Calderoli solleva. Un contributo lungo e articolato che si può dividere in due fasi: la prima che dà conto del percorso che storicamente e giuridicamente ha reso possibile il concepimento e l’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, di una proposta di legge che porta in sé il seme della frammentazione dell’unità nazionale; la seconda, che ne analizza gli aspetti specifici di contrasto con la Carta Costituzionale.
I punti di partenza, spiega Deidda, sono da fissarsi nell’art. 5 della Costituzione e nel principio, ben consolidato, del regionalismo che troviamo nella nostra Carta. L’art. 5 Cost. fissa un punto ben solido e solo apparentemente contraddittorio: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Come quasi tutte le norme fondamentali della Costituzione, ricorda il procuratore, l’articolo 5 contiene il rifiuto dei valori del passato d’origine fascista, che aveva realizzato un sistema politico fortemente accentrato, tipico di tutti i fascismi, ma di quello italiano in particolare. Ne deriva che viene stabilito dai padri costituenti “il decentramento di competenze e funzioni a livello locale, come tratto distintivo dello Stato democratico; cioè capace di sollecitare l’esercizio della democrazia anche in periferia. Questo significa il decentramento”.
“Questo decentramento tuttavia viene disposto dopo aver premesso che la Repubblica è una e indivisibile; unità e indivisibilità sono un richiamo agli ideali del Risorgimento, l’idea dell’Unità d’Italia è quella che ha percorso tutte le battaglie del Risorgimento; unità non significa soltanto integrazione normativa tra i vari livelli del governo centrale e dei governi locali, ma significa soprattutto unità di valori, ovvero di principi condivisi, capace di evitare le derive autonomistiche – spiega Deidda – quindi, non solo un Paese unito per territorio, ma anche un Paese coeso dal punto di vista dei valori politici”. Un processo che, nel lavoro della Costituente, doveva rendere tutto il popolo italiano unito dai vincoli di solidarietà e dal rispetto dei principi della Costituzione.
“Repubblica indivisibile ha anche un significato diverso – continua Deidda – significa che la Repubblica non può essere smembrata, vale a dire frazionata in tanti staterelli regionali separati: l’affermazione contemporanea dell’unità e indivisibilità della Repubblica significa il rifiuto di ogni separazione territoriale, e di ogni indipendentismo o federalismo regionale. Questo dice l’art. 5”.
Una visione che evidentemente non è condivisa dall’estensore della proposta di legge sull’autonomia differenziata, dal momento che, nelle scorse settimane, intervistato sui dubbi di costituzionalità sollevati nei confronti del disegno di legge, rispose che proprio la Costituzione promuoverebbe le autonomie locali e consentirebbe il decentramento.
“Proviamo a chiarire – dice Deidda – era talmente evidente per l’Assemblea Costituente il valore dell’unità e indivisibilità del Paese, che ci fu, come rimasto agli atti, chi propose di aggiungere il concetto di unità e indivisibilità patria nel primo articolo, che sarebbe suonato: “L’Italia è una Repubblica, unita e indivisibile, è fondata sul lavoro”. Un episodio simbolico ma chiaro circa l’intenzione dei costituenti quando scrissero l’art. 5”.
Certamente, l’unità della Repubblica rappresentava un confine invalicabile per i costituenti. “L’art. 5 non dice la Costituzione favorisce – continua Deidda – ma riconosce le autonomie. Riconoscere è il verbo che la Carta usa quando deve affermare principi o diritti già preesistenti. Riconosce, ad esempio, i diritti inviolabili dell’uomo. Questo riconoscimento assume una forte carica di democrazia, vale a dire: anche in sede locale vi dovete organizzare democraticamente. E’ chiaro che l’on. Calderoli e molti altri giocano sulla formulazione dell’art. 5, solo apparentemente contraddittoria, “una e indivisibile” , “riconosce le autonomie”. In realtà l’unità e l’indivisibilità sono il pezzo forte della costituzione repubblicana. L’on. Calderoli non ha tuttavia tutti i torti”.
Perché? Perché qualcosa, rispetto al 1947, è successo. “E’ vero che la Carta costituzionale del 1947 non prevedeva nessuna forma di autonomia differenziata – dice Deidda – ma poi, nel 2001, la maggioranza di centrosinistra pensò bene di modificare l’art.5, introducendo, negli articoli 116 e 117, la previsione di ulteriori forme di autonomia regionale” spianando di fatto la strada a proposte di legge come quella presentata dall’on. Calderoli, che rispondono ai programmi e interessi di una ben precisa forza politica. Non solo. “Il governo Gentiloni nel 2018, a tre giorni di distanza dalle elezioni politiche, firmò una prima intesa di più larga competenza con le regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – ricorda ancora il procuratore – Un anno dopo, nel maggio del 2019, il governo Conte 1 ha stipulato separatamente, con le tre regioni, un’ulteriore bozza di intesa che riguardava il dettaglio delle competenze fornite. Infine, nel febbraio 2020, il governo Conte 2 ha integrato con nuove materie l’intesa raggiunta con le tre regioni. Ricordo queste circostanze perché lo scempio che si prepara con l’autonomia regionale differenziata ha molti padri e non si identificano tutti con i secessionisti della Lega o con la destra ora al governo”.
Un’introduzione sintetica storica quella di Deidda, che ci porta ad analizzare le conseguenze della riforma del 2001 sugli art. 116 e 117; ovvero, come si sia costruito il ponte per passare dall’Italia “una e indivisibile”, stretta intorno a un patrimonio ideale comune che la rende una “comunità patria”,a un Paese a rischio di frammentazione, ideale e fisica. Rispetto al Risorgimento, un salto indietro nella Storia. Ancora più strano, se si pensa che il vertice del governo è costituita da politici che ostentano, in ogni occasione, tricolori e Inno di Mameli.
“L’art. 116 al terzo comma, prevede che ferma restando l’autonomia delle 5 regioni a statuto speciale, quelle a statuto ordinario possono essere dotate “di forme e condizioni particolari di autonomia in determinate materie” – ricorda Deidda – le materie oggetto di competenza regionale differenziata sono elencate nell’altro articolo, il 117. Si tratta di un lunghissimo elenco, che comprende la sanità, la scuola come sistema di istruzione regionale parallelo a quello statale, le politiche attive del lavoro, fra cui gli infortuni sul lavoro, la protezione civile, l’amministrazione del paesaggio, il trasporto e la distribuzione dell’energia, il sostegno delle attività produttive, la riorganizzazione degli enti locali ….”, e via dicendo, ben 23 materie.
Il pericolo, molto grave, che sottende a questo lunghissimo elenco è, dice Deidda, “l’insopportabile spezzettamento di competenze di discipline normative che naturalmente impediscono una visione nazionale e una politica nazionale. Anzi, alcune di queste materie sono oggetto di politiche che non coprono solo lo stato nazionale, ma addirittura l’Europa; la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia, per fare un esempio”.
La prima, e forse la più evidente, questione di costituzionalità si pone per l’istruzione. “Fra queste materie quella che presenta il più grave strappo alla costituzione è la scuola – sottolinea Deidda – le Regioni, se passa questa idea, possono determinare i programmi e l’offerta dell’attività formativa, con la possibilità di definire la dotazione organica degli insegnanti, l’assegnazione alle singole scuole dei professori, potranno avere un fondo regionale in caso di necessità dell’organico delle scuole, anche istituendo posti in deroga alla previsione iniziale dell’anno scolastico, potranno finanziare nuovi corsi universitari con ulteriori risorse rispetto al fondo di finanziamento statale, insomma, si prospetta un panorama dell’istruzione pubblica frammentato, non unitario. Anche tralasciando il riferimento alle risorse economiche, sicuramente diverse da regione a regione, c’è il rischio di una più profonda divisione fra i cittadini italiani che è relativa alla qualità dell’istruzione”. Tutto questo è compatibile con la Costituzione? All’art. 33 si legge: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”.
“La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione, non la Lombardia, il Veneto, l’Emilia Romagna – mette in luce Deidda – c’è una ragione profonda alla base di questo principio costituzionale ed è che la scuola è il principale strumento per determinare l’eguaglianza fra i cittadini. Si diventa eguali se si ha l’istruzione, se si ha la cultura; è la principale leva dello sviluppo della persona e della formazione dei cittadini”. Depositario di questa garanzia, unione di valori, comunità di idee, formazione di una coscienza collettiva comune, eguaglianza di livello educativo, non può essere che lo Stato, imparziale e unico per tutti i cittadini.
Come si è prodotto il vulnus? “Il fatto è che l’art. 117, riformato nel 2001, introduce un vero e proprio mutamento di prospettiva nel rapporto Stato-Regioni rispetto al passato – analizza Deidda – Prima della riforma del 2001, in Costituzione le materie di competenza legislativa statale e di quella invece riservata alle Regioni erano indicate chiaramente. Dopo la riforma, troviamo un elenco tassativo di gruppi di materie di esclusiva competenza statale e un elenco di materie oggetto di potestà legislativa concorrente, ovvero materie per cui lo Stato detta i principi fondamentali e le regioni riempiono con la legislazione dettagliata. Spetta alle Regioni, secondo la norma, la potestà legislativa non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. E’ il quarto comma dell’art. 117. La riforma attua un mutamento radicale di prospettiva ampliando l’autonomia reginale che può esplicarsi senza limiti, purché naturalmente si osservi la Costituzione, i principi fondamentali dell’ordinamento, le norme derivanti dai trattati internazionali, e gli obblighi che derivano dalle alleanze con altri paesi. L’art. 117 aggiunge che le Regioni dispongono di potestà in ogni materia non riservata in via esclusiva da legislazione statale e che possono legiferare anche in queste materie, seppure previa delega dello Stato”.
“Insomma, assistiamo a un trasferimento di funzioni imponenti alle Regioni a cui si attribuiscono poteri mai immaginati dall’assemblea nazionale del 47, poteri che probabilmente non andavano attribuiti in questa dimensione, che sconquassa il sistema costituzionale. L’attribuzione di queste particolari forme di autonomia è stabilita, secondo il disegno di legge Calderoli, con legge approvata dalle Camere a maggioranza assoluta, formulata in base a un’intesa fra Regione interessata e Stato, previo parere degli enti locali. In questi spazi offerti dagli articoli 116 e 117, ha preso corpo il tentativo di introdurre forme di autonomia speciale attraverso un meccanismo capace di sottrarsi al controllo del Parlamento”.
Tirando le fila, le norme che regolerebbero l’autonomia differenziata, non sarebbero neppure sottoposte al giudizio del Parlamento, l’organo in cui risiede la potestà legislativa del nostro ordinamento. “Le nuove norme sull’autonomia, pur varate con legge dello Stato, possono evitare l’esame di merito del Parlamento, al quale verrebbe attribuito solo il compito di verificare la regolarità formale dell’intesa, per poi varare la legge, sia pure a maggioranza assoluta – spiega Deidda – Di fatto, il processo della determinazione dell’autonomia allargata poggia sulle intese stipulate tra il governo e la Regione richiedente. Il disegno di legge Calderoli prevede che, una volta raggiunta l’intesa, il Parlamento non possa verificare nel merito, ma possa solo approvarla o rigettarla a maggioranza assoluta. Ma non si può pronunziare nel merito dell’intesa. Una volta approvata con maggioranza assoluta delle Camere, l’intesa non può essere neppure sottoposta a referendum abrogativo; inoltre, in concreto, non può essere neppure modificata con nuova legge, in quanto occorrerebbe l’assenso della regione interessata. L’intesa così concepita, secondo il disegno di legge Calderoli, può durare fino a dieci anni e può essere tacitamente rinnovata per ulteriori dieci anni”.
Tirando le fila, l’autonomia differenziata si basa su un’intesa fra Stato e Regione, da cui difficilmente si torna indietro, sottratta di fatto al Parlamento. “Credo che su questo punto la legge Calderoli sia contraria alla Costituzione – dice il procuratore – il punto dolente è la possibilità, che manca, del Parlamento di modificare l’intesa fra regione e governo. I maggiori giuristi dicono che è necessario un passaggio parlamentare senza vincoli per il Parlamento; il Parlamento è sovrano e decide, mentre il ddl Calderoli prevede “che ci sia solo un parere, dato dai competenti organi parlamentari, nei termini di 60 giorni”. Qualora i sessanta giorni trascorressero senza il parere del parlamento, il procedimento prosegue.
Il Parlamento è l’organo preposto agli interessi generali della nazione, ma non potrebbe pronunziarsi su una questione riguardante la riduzione delle competenze dello Stato sul proprio territorio. Questione che ovviamente riveste interessi generali. Chi se ne dovrebbe occupare, se non il Parlamento? “Francamente fatico a pensare che l’organo preposto alla realizzazione degli interessi generali non possa esercitare i suoi poteri decisionali. Non dimentichiamoci due punti: che uno dei pilastri della Costituzione è la centralità del Parlamento e che ad ora siamo ancora in una Repubblica parlamentare – dice Deidda – Questo è un punto in cui l’incostituzionalità del Ddl Calderoli mi pare evidentissima”.
Un altro passaggio molto significativo e molto dubbio del ddl Calderoli, è quello relativo alla necessità di determinare i Lep, ovvero i livelli delle prestazioni essenziali, che dovrebbero essere definiti prima di attribuire alle regioni le risorse necessarie per le loro nuove competenze. Ma anche in questo caso sorge un problema di costituzionalità, “in quanto l’art. 117 – spiega il procuratore – attribuisce la determinazione dei Lep per tutti i diritti sociali e civili alla competenza legislativa dello Stato. L’ultima legge di bilancio cui si appoggia Calderoli prevede invece una procedura accelerata che si conclude con un Dpcm, ovvero un decreto del presidente del consiglio de ministri. Si tratta non di una legge, ma di un atto amministrativo. Siamo di fronte anche in questo caso a una violazione gravissima della Costituzione, consistente nel fatto che, mentre tutto il procedimento previsto dalla legge finanziaria per la determinazione dei Lep avviene attraverso un atto governativo, il dettato costituzionale prevede invece che la determinazione degli stessi Lep avvenga con legge statale, secondo la lettera m dell’art. 117 della Costituzione”.
Un altro punto di evidente criticità costituzionale emerge se si fa l’ipotesi, in teoria possibile, che tutte le 20 regioni italiane chiedano di avere tutte le materie previste nel 117, che sono consentite per l’autonomia differenziata, che sono in tutto 23. “Si incapperebbe in una macroscopica violazione della Costituzione – continua Deidda – perché sarebbe completamente abolita la legislazione concorrente, con l’abrogazione di fatto dell’art. 117. Ma per abrogare un articolo della Costituzione, bisogna ricorrere all’art. 138, che mette in campo una procedura complessa, con maggioranze particolari. Col Ddl Calderoli, si abolirebbe l’articolo senza procedura di revisione costituzionale. La risultanza? Venti staterelli autonomi in violazione dell’art. 5, e del principio dall’art. 5 statuito: la Repubblica è una e indivisibile”.
L’ultimo punto esaminato, è il finanziamento delle norme che si vogliono varare. “Il disegno di legge in questione prevede che le risorse da attribuire a ciascuna regione siano definite da una commissione, costituita in modo paritario dallo stato e dalle regioni interessate, e finanziate attraverso la compartecipazione del ricavato dei contributi erariali. Il Ddl Calderoli perciò fa propria la rivendicazione dell’idea per cui i cittadini delle regioni che pagano più tasse di quanto ricevono con la spesa pubblica, avrebbero il diritto di trattenere una parte delle entrate fiscali. Un’idea assolutamente incostituzionale, perché nel nostro ordinamento a pagare le tasse sono le persone, non le Regioni, e le persone dovrebbero farlo sulla base dell’ammontare del loro reddito, e non del luogo di residenza. Una norma così concepita è del tutto incostituzionale, perché entra in gioco l’art. 2 e il dovere di solidarietà nazionale; nazionale, non regionale. Oltre all’art. 53 della Costituzione, che impone ai cittadini di pagare le tasse secondo i propri introiti . La solidarietà economica e tributaria opera a livello nazionale”.
“E’ in gioco l’idea stessa di cittadinanza – conclude Deidda – secondo cui tutti i cittadini concorrono, ognuno secondo le proprie possibilità, all’intera spesa del Paese, a prescindere dalla regione in cui si vive. Se passa questo progetto, caldamente sostenuto dalla Lega, sarebbe inevitabile vedere regioni già ricche ulteriormente aiutate dal bilancio dello stato, in quanto hanno nuove competenze sovvenzionate dalle risorse statali, e regioni povere costrette a contentarsi di un bilancio ormai già irrimediabilmente compromesso. Tutto questo, in totale contrasto con una sentenza della Corte costituzionale, la 275/2016, che stabilisce che dev’essere la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere su bilancio, e non l’equilibrio del bilancio a condizionarne riconoscimento e tutela”.
Pensare che i diritti sociali e civili dei cittadini del nord possano essere soddisfatti in misura maggiore di quelli del sud, significa trasformare i diritti inviolabili in privilegi. Condizione del tutto incostituzionale. “Se si arrivasse a questa situazione, non sarebbe solo in pericolo l’unità del paese, ma anche il concetto di patria”, conclude Deidda.
In foto Beniamino Deidda
Come sempre chiarissimo ed esauriente.
Un grazie di cuore