22 marzo 1944, morte al Campo di Marte

Il racconto di uno degli ultimi testimoni della fucilazione di cinque giovani vittime del terrore fascista

Mario Gennari, in quel 1944, è un giovane geometra di vent’anni che si prepara a diventare un virtuoso e apprezzato tecnico del Genio Civile della Spezia. Marino, come lo chiamano familiari e amici, manifesta fin da ragazzo una disposizione d’animo incline alla giovialità, alla tolleranza e all’amicizia. Rifugge perciò da tutto quanto rappresenta l’ideologia di quel momento storico: l’autoritarismo, il militarismo, il bellicismo; già scontato, per altro, nella feroce e progressiva distruzione della città per opera dei bombardamenti alleati.

Con particolare avversione quindi sopporta le adunate e gli stessi Ludi Juveniles che, per quanto partecipe di varie discipline sportive, lo obbligano a indossare una divisa e a inquadrarsi in farsesche parate marziali. Marino ai Ludi Juveniles del 1940 non rimane pertanto indifferente alla chiamata alle armi del suo scaglione né tantomeno alla gravità delle punizioni che si minacciano per i renitenti nei bandi di reclutamento emessi dal Comando tedesco il 18 settembre del ’43 e dal generale Graziani il 9 novembre dello stesso anno: la pena di morte e la responsabilità parentale.

Tuttavia, pur nella consapevolezza del rischio cui va incontro, la scelta di astenersi dalla leva imposta dal governo di Salò diventa la più naturale conseguenza che lo induce a cercare immediatamente un riparo. Sono allora i parenti fiorentini che provvedono a procurargli un rifugio ospitale in una cantina di Via Giovanni Sercambi, nel quartiere delle Cure, dove vivrà fino ai primi di marzo del 1944. Le ritorsioni minacciate non tardano però ad avverarsi.

Due funzionari dell’Ovra si presentano all’abitazione spezzina dei genitori chiedendo notizie di Marino e del fratello Ubaldo, ufficiale pilota dell’aeronautica militare, di stanza con la propria squadriglia di idrovolanti nella base di Tolone, catturato l’8 settembre del 43’ dai tedeschi e del quale non si ha al momento notizia. E’ così che Marino, avvertito dai familiari, sarà costretto ad uscire dal rifugio e presentarsi al 44.o raggruppamento fanteria acquartierato nella caserma di via Tripoli.

Il 22 marzo del 1944 è un mercoledì grigio, giorno della quinta settimana di quaresima. Alle quattro del mattino vengono tutti svegliati con l’ordine di indossare la divisa e allinearsi nel cortile pronti per recarsi al Campo di Marte per esercitazioni militari. Durante il percorso, effettuato interamente a piedi, si affiancano, all’altezza del Ponte di Ferro, altre formazioni di militari provenienti dalla caserma di Poggio Imperiale.

Giunti al Campo di Marte incontrano ulteriori raggruppamenti, appartenenti ad altre caserme, che marciano in doppio senso, lungo il marciapiede antistante la Torre di Maratona. Intorno alle 6,30 tutte le formazioni, con grande sorpresa, vengono schierate con disposizione a U davanti alla parete, posta sul lato sinistro della Torre di Maratona, mentre sullo stesso lato un carro funebre scarica cinque bare di legno e, a ridosso della stessa parete, si dispongono cinque sedie.

Non sono dunque esercitazioni ma vere e proprie esecuzioni mediante fucilazione. Sul lato destro dello schieramento sopraggiunge infatti un cellulare della Guardia Nazionale Repubblicana dalla quale vengono fatti scendere cinque giovani ammanettati, rastrellati nelle campagne di Vicchio di Mugello. Alcuni hanno ancora gli zoccoli ai piedi. Tutti si disperano, piangono, chiedono aiuto, invocano familiari e amici. Il plotone di esecuzione è stato selezionato tra i militari della caserma di Poggio Imperiale ma tenuto all’oscuro fino al momento del suo lugubre impiego. Trascorre quasi mezz’ora prima che i cinque condannati siano legati alle sedie e bendati.

Nel frattempo le loro grida e implorazioni risuonano nell’aria suscitando lo sgomento dei coscritti e il sogghigno dei vari scherani presenti. Dopo che Il Tenente Cappellano Militare don Beccherle, che aveva assistito i giovani fin dalla loro detenzione nel carcere delle Murate, ha dato l’assoluzione e provveduto, insieme ad un altro Cappellano, a bendarli, nello stesso momento in cui gli spari riecheggiano sotto le gradinate dello stadio, un ultimo e lacerante fremito di orrore percorre la truppa schierata. I componenti del plotone di esecuzione ora si appoggiano lacrimanti ai loro fucili sebbene due dei condannati, soltanto feriti, si lamentino e implorino ancora la propria madre.

Non bastano neppure i sei proiettili della pistola del comandante a concludere l’efferata vicenda. Interviene allora il famigerato, sedicente maggiore Carità tra le invettive che si levano tra i militari della truppa e le minacce dello stesso Carità nei loro confronti. Un ufficiale si rivolge ai propri soldati: «Beh, ragazzi, vi è piaciuto il cinematografo di stamani ? » . Il Terrore di Stato ha compiuto il suo corso.

Cosa resta oggi di tutto questo? Il fatto storico, certamente, che nessuno potrà mai rinnegare o cancellare. Ma resta anche la memoria di un tempo fatto di rancore e di odio, l’odio dell’oppressore, l’odio del carnefice, l’odio dello sgherro, l’odio di chi si sente ormai sconfitto ma non recede, l’odio vendicativo. Ma soprattutto una memoria di dolore, di sofferenza, di paura. La paura del perseguitato, la paura della vittima, la paura di chi rifiuta la logica della violenza e cerca scampo. Cui si contrapporrà, allo stesso tempo, la forza degli ideali e il coraggio di resistere. La memoria dei sentimenti, dunque, che non si trasmette soltanto attraverso la catena dei legami familiari ma che riverbera, nonostante tutto, in ciascuno di noi, anche se messi apparentemente al sicuro dal modello di civiltà in cui siamo cresciuti. Una sicurezza compromessa ormai dalle guerre che continuano a vessare molti popoli di questa terra e alle quali assistiamo pericolosamente impotenti e rassegnati.

Mario Gennari è stato uno degli ultimi testimoni della fucilazione dei cinque renitenti alla leva al Campo di Marte in quel 22 marzo di ottanta anni fa. La sua testimonianza è comparsa sul quotidiano La Nazione per il cinquantenario del tragico evento e pubblicata successivamente su “Firenze 1943-1945” di Alberto Marcolin. Questa breve ricostruzione è il frutto del racconto fatto all’autore, nipote oltre che compagno di lavoro di una vita.

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  1. Racconti di storia vissuta, tramandata in famiglia, così riverbano grazie a chi scrivendone sa farli rivivere: la paura, la incredulità, l’angoscia, l’assurdità della guerra.

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