Del resto vi è stato tutto un filone di studiosi che, con argomenti in realtà tutt’altro che banali, ha sostenuto l’ipotesi della decrescita come una esigenza da perseguire. In alcune visioni più estreme la crescita era vissuta addirittura come un nemico: “dePILiamo l’economia” è stato per un po’ uno slogan ricorrente.
Un rallentamento prolungato della crescita del PIL può frenare il processo di accumulazione, impedendo l’incremento degli stock da cui, in futuro, dipenderà non solo la capacità di produrre reddito, ma anche quella di generare benessere
.L’inerzia impossibile ovvero un futuro a rischio
Gli studi dell’IRPET sul benessere, pur osservando l’alto livello raggiunto, mettevano in guarda sulla capacità del sistema di riprodursi perché erano evidenti in Toscana i segnali di una crescente “avversione al rischio”, presente un po’ in tutti gli operatori: famiglie, imprese e pubblica amministratore.
Il modello toscano cominciava a scricchiolare per cui l’ipotesi di lasciarlo ad una sua evoluzione inerziale preoccupava: alcune caratteristiche strutturali, come l’avanzo della bilancia commerciale, il saldo fiscale positivo, il basso tasso di disoccupazione, non sarebbero state più garantite se non si fosse rotta l’inerzia del modello di sviluppo.
Ma l’inerzia è anche la scelta più agevole, specie in un ambiente avverso al rischio. Uno dei pochi vantaggi della crisi potrebbe essere quello di avere accelerato queste tendenze rendendo ancora più evidente l’insostenibilità dello scenario inerziale.
La deindustrializzazione precoce
I segnali di crescente avversione al rischio si traducevano non tanto nel livello della crescita del PIL procapite – basso ma, almeno negli ultimi due decenni, addirittura superiore a quello delle regioni più avanzate del paese – quanto nel meccanismo con cui si cresceva e in particolare nel processo di trasformazione del sistema produttivo.
Ciò che è accaduto in Toscana nel corso degli anni è la rapida perdita di peso del comparto manifatturiero sostituito dal crescente peso del terziario. Si tratta, come è noto, di un processo graduale che accomuna la Toscana alle aree più avanzate del mondo; ciò che desta preoccupazione non è però la direzione del processo, quanto la sua dimensione, che assume una intensità tale da apparire patologica. Questa interpretazione è confortata anche dal fatto che, sul fronte dell’export, la Toscana perde quote di mercato soprattutto nel corso degli anni duemila (quando peraltro l’Italia perde quote nei confronti dei paesi simili). Oggi l’immagine della Toscana come regione industriale e aperta agli scambi internazionali si è notevolmente affievolita.
Fronte e retrovia
Se classifichiamo le imprese secondo uno schema meno tradizionale che non guarda solo alla filiera in cui un’impresa è inserita ma piuttosto al regime di mercato in cui si trova, considerandola “sul fronte” se si trova inserita in mercati fortemente competitivi e invece “in retrovia” se vive sotto condizioni di protezione, ciò che si osserva in Toscana è la maggiore prevalenza di queste ultime. Ne fanno parte una grossa porzione del settore dei servizi, ne fa parte la pubblica amministrazione. Spesso le cause della protezione sono naturali, talvolta artificiose, favorite da normative particolari che limitano l’ingresso sul mercato di nuovi concorrenti.
La domanda legittima che discende da tale scenario è se la scelta di stare nel mercato più protetto derivi dalla più volte citata avversione al rischio dei toscani o se invece sia favorita da una maggiore remunerazione dei fattori e quindi da una maggiore oggettiva convenienza a stare su quei mercati. Nel primo caso saremo di fronte ad un carattere connaturato con i toscani e quindi più difficilmente removibile, nel secondo sarebbero le regole stesse a favorire scelte che alla lunga sarebbero scarsamente produttive.
Il calabrone non è più in grado di volare?
Il modello di sviluppo toscano, ben rappresentativo dell’intero modello di sviluppo nazionale, ha evocato spesso l’immagine del calabrone: “In base alle leggi della fisica il calabrone non dovrebbe volare: le sue ali, infatti, sono troppo piccole in rapporto al suo peso corporeo. L'insetto nero, invece, riesce a farlo. Con buona pace di fisici ed entomologi. Allo stesso modo, in base alle leggi dell'economia, l'Italia non dovrebbe figurare fra i paesi più industrializzati del mondo non disponendo di materie prime e di industrie di grandi dimensioni. E invece fra i paesi più industrializzati l'Italia ci figura eccome. Riuscendo, anzi, a volare con successo nel cielo dell'economia mondiale.”
Questo modello di sviluppo è riuscito a fare dell’elasticità della piccola impresa l’arma vincente, ma ancora prima della recente crisi è apparso in difficoltà e sempre più si paventava l’ipotesi di un suo presunto declino.
Quindi il calabrone non riuscirebbe più a volare. Ali troppo piccole o corpo troppo grosso? In Toscana il fatto che le attività di retrovia raccolgono, come si vedeva sopra, il 73,5% degli occupati toscani sembrerebbe confermare l’ipotesi di un corpo troppo ingrossato.
Ma vi è un terzo punto che va analizzato, ovvero l’ambiente in cui il calabrone si trova oggi ad operare e che è rappresentato dalle regole sul funzionamento del sistema, ovvero quelle che definiscono la concorrenza internazionale, ma anche quelle fiscali, quelle legate alla regolamentazione dei mercati. Queste regole hanno reso più difficile volare lontano, da un lato per l’acuirsi della concorrenza internazionale, ma dall’altro anche per una certa convenienza a stare nei settori protetti garantita da normative favorevoli.
La Toscana nella crisi
La recente crisi non ha colpito il sistema economico in modo indifferenziato; l’industria lo è stata in modo particolare con un calo del valore aggiunto prodotto del 15% nel biennio 2008-09. I riflessi sull’occupazione sono stati temporaneamente contenuti per gli effetti della CIG cresciuta in modo esponenziale, ma non tarderanno a manifestarsi in un futuro prossimo (le nostre stime misurano gli effetti delle manovre in atto attorno ai 40 mila posti di lavoro); già oggi infatti una più attenta stima della disoccupazione che incorporasse i cassa integrati e gli scoraggiati avvicinerebbe il tasso di disoccupazione al 10%.
La ripresa del 2010 e quella successiva del 2011 (ma le previsioni sono destinate a peggiorare) non è stata particolarmente vivace, anche se ha assunto caratteristiche sostanzialmente speculari rispetto al biennio precedente: le esportazioni sono state la componente più dinamica favorendo una buona ripresa del manifatturiero; ciò però ha consentito il recupero solo parziale delle perdite subite.
Le conseguenze della crisi: verso un ineluttabile impoverimento?
La recente crisi rischia, però, anche di farci dimenticare le difficoltà del passato facendoci credere che tutti i mali vengono da fuori.Le improrogabili e sigenze di aggiustamento dei conti pubblici in cui si trova il paese imporrebbe un brusco rientro dalla logica che ha dominato il passato: contrazione dei consumi pubblici (e probabilmente anche privati) a favore di un nuovo processo di accumulazione in grado di accrescere la competitività del paese e, quindi, la crescita dell’economia. Occorrerebbe quindi accettare l’idea di un impoverimento, che è certamente inevitabile, ma che potrebbe non essere duraturo se si concentrano gli sforzi per ritrovare la competitività perduta.
Il livello raggiunto dal debito pubblico ci colloca oggi all’interno di una spirale perversa: per crescere avremmo bisogno (anche se non solo) di infrastrutture; per fare infrastrutture lo Stato e gli altri soggetti pubblici dovrebbero indebitarsi ulteriormente, ma ciò sembrerebbe essere reso impossibile da un debito che è troppo elevato. Una spirale perversa che rischia di produrre danni difficilmente recuperabili e che quindi va rimossa
Verso una nuova centralità dell’industria
Rimuovere questa spirale significa porre, assieme alle esigenze di risanamento del bilancio pubblico, anche la crescita alla base delle scelte. Ma per far questo occorre anche avere una chiara idea di quale sia il modello di crescita da perseguire, ovvero quale debba essere la base su cui operare per favorire una crescita adeguata.
Se guardiamo con attenzione alle dinamiche attese dalle diverse componenti della domanda finale, la via maestra non può che essere quella di agganciarci alla domanda mondiale, ovvero all’unica componente che mostrerà nei prossimi anni un qualche dinamismo. In questo quadro non vi è dubbio che occorre non solo fermare ma invertire quel processo di deindustrializzazione più volte soprarichiamato, anche se in una concezione più avanzata in cui la capacità di esportare dipende da un’industria che sia capace di produrre prodotti di alta qualità, ma anche dalla presenza di un terziario che sia in grado di fornire servizi che siano funzionali a tale obiettivo (ricerca, trasporti, credito,…).
Distribuzione e crescita due obiettivi non separabili
Ma occorrono anche politiche redistributive che da un lato rispettino criteri di equità (sostenendo quindi anche la domanda per consumi, visto che un reddito più equidistribuito garantisce una propensione al consumo più elevata) e dall’altro pongano rimedio a quel sistema di garanzie che in passato hanno favorito l’ingrossamento dei settori di retrovia. In tal senso una riforma fiscale che persegua i due obiettivi è oggi improrogabile, senza di quella gli spazi disponibili a livello regionale sono molto ristretti.
Resta infine aperto il capitolo infrastrutturale che oggi soffre -e soffrirà ancor più in futuro- della carenza di risorse pubbliche da destinarvi, cui si vede aggiungere il problema degli ambiti lasciati liberi dalle minori capacità di spesa del settore pubblico anche nella prestazione dei servizi. Si apre qui uno spazio interessante per l’inserimento dei privati che andrebbe curato per evitare che infrastrutture e servizi ritenuti indispensabili vengano persi.
La prossimità può tornare ad essere un valore?
L’evoluzione dell’economia mondiale degli ultimi anni ha enfatizzato il ruolo della globablizzazione ponendo in secondo piano quello della prossimità che al contrario era stato uno degli elementi principali su cui si era fondato lo sviluppo della nostra economia (si pensi al modello distrettuale). La crisi attuale porta anche ad una crisi della fiducia sulla base della quale i piccoli risparmiatori affidavano agli intermediari i propri risparmi che attraverso vie tortuose raggiungevano investitori spesso lontani la cui solvibilità era garantita dalle valutazioni delle agenzie di rating. Nel modello distrettuale la fiducia si basava sulla conoscenza spesso diretta dei soggetti e da una sorta di controllo sociale garantito proprio dalla prossimità tra produttori e lavoratori, tra risparmiatori ed investitori, tra imprese e banche, tra rappresentanze di categoria e istituzioni pubbliche.
Siamo certi oggi che questo valore della prossimità, magari ad una scala più ampia rispetto a quella del passato, non possa essere recuperato per ritrovare quel clima di fiducia che è una risorsa fondamentale per tornare a crescere e per creare condizioni più favorevoli anche per quella attrattività degli investimenti senza la quale lo scenario inerziale più volte evocato e temuto potrebbe prevalere.
Stefano Casini Benvenuti, direttore IRPET