Toscana, la mafia dilaga e non passa più: si è fermata e ha preso casa

Firenze – Toscana terra di mafia, ormai il salto è stato fatto. Si dicono convinti di questo, offrendo una ponderosa ricostruzione degli ultimi tre anni di investigazioni, indagini, sequestri, arresti, confische svolte dalle forze dell’ordine sul nostro territorio, Salvatore Calleri, presidente della Fondazione Antonino Caponnetto, e l’ex-ispettore di Polizia Renato Scalia, consigliere della Fondazione, con un passato che lo ha visto operare sia nell’antiterrorismo che nell’antimafia.

La ricostruzione, tassello per tassello, della presenza delle cosche in regione è affidata ad un certosino Focus 2018, presentato stamattina in un incontro con la stampa che si è tenuto nella sede dell’ordine dei giornalisti della Toscana, che “mette in fila” tutti gli eventi criminosi riconducibili alle mafie dell’ultimo anno e non solo, oltre al contributo delle relazioni della Dia sul fenomeno. E il quadro che se ne ricava è un brutto incubo, in particolare in una terra che, da dieci anni almeno, è abituata a essere considerata “terra di passaggio”, tutt’al più  “bancomat” delle cosche, ma non terreno di sviluppo delle stesse. Insomma, la Toscana che ancora si culla nell’idea che da noi “certe cose non possono succedere” rischia di avere un brusco risveglio.

Il fatto che il fenomeno mafioso sia ormai ben al di sopra del livello di guardia, lo si ricava da vari segnali, fra cui il carattere pervasivo dei vari tentacoli della Piovra: sia che risponda al nome di ‘ndrangheta, o cosa nostra o camorra, la presenza delle mafie ricopre ormai ogni angolo della regione, come spiega Calleri nel suo breve ed appassionato intervento, “non ci sono isole felici”. No, come si evince dalle indagini, dai processi, dalle condanne molte delle quali ancora da passare in giudicato (in vent’anni, sono solo 4 le sentenze su casi di mafia passate in giudicato in Toscana, a fronte di decine di inchieste) camorra, n’drangheta e cosa nostra sono pervasive del territorio e vincenti proprio perché sono riuscite a creare quella connivenza, prima di tutto culturale, necessaria per acquistare il controllo “del territorio”. Definizione che può essere molto larga, se si considera in senso militare (modalità che ancora non sembra essersi avverata nella nostra regione), ma anche in modo più sottile, che significa la connivenza, se non l’affiliazione, di esponenti del tessuto economico locale.

I segnali? Essenzialmente tre, che darebbero il senso di come ormai la Toscana non possa più considerarsi terra di “passaggio” o isola deputata agli investimenti, magari pacifici, dei clan. Il primo, riguarda, come spiega Calleri, la connessione che si è verificata almeno in parte con l’imprenditoria toscana; il secondo il porto di Livorno o meglio ciò che vi accade; il terzo, la frequenza con cui ormai proprio in Toscana vengono rintracciati i latitanti. Il tutto, accompagnato da quello che il presidente della fondazione ritiene un vero e proprio “problema culturale” che ha riguardato in particolare le classi politiche del territorio (e non solo) per cui, dopo le grandi indagini di mafia di Chelazzi e Vigna, si è pensato per molto tempo che il fenomeno si fosse affievolito, magari per l’emersione di fantomatici “anticorpi” nella società. E ora sembra che di questa sistematica sottovalutazione se ne stia pagando il prezzo. Anche se, come precisa lo stesso Calleri, ultimamente le indagini e i risultati delle stesse sembrano stiano andando in senso opposto, di nuovo dunque spostando l’attenzione sul fenomeno mafioso in Toscana, come mette in evidenza anche la cronaca recente.

“Il fatto ci come sia cambiato l’approccio di almeno una parte di imprenditori toscani lo si coglie quando, dalle intercettazioni in mano alle forze dell’ordine, veniamo a conoscenza del fatto che lo sversamento di rifiuti pericolosi accanto alle scuole, ad esempio, non è più considerato un problema (dagli imprenditori, ndr), o quando si giunge a registrare richieste di “crediti” alla ‘ndrangheta, sempre da parte di imprese toscane. Per quanto riguarda il porto di Livorno, è inevitabile una domanda, che sorge spontanea quando ci si trova davanti, ad esempio, al sequestro degli ingenti quantitativi di coca che si sono verificati negli ultimi tempi, e che portano a ritenere il porto labronico una delle tappe fondamentali del sistema di arrivo e smistamento del mercato degli stupefacenti internazionale. La domanda è: chi comanda a Livorno?…”. O meglio chi gestisce il porto? Una domanda effettivamente necessaria, quando si pensi che l’arrivo della droga necessita di tutta una logistica, dai container, al trasporto allo smistamento, che deve assolutamente essere “coperta” da una, chiamiamola così, “rete di sicurezza”.

Non è da prendersi sottogamba neppure, come continua Calleri, la questione dei latitanti. Al di là del caso di Matteo Messina Denaro, dato in Toscana “coperto” anche con il contributo delle ‘ndrine in un articolo apparso sull’Espresso, basti ricordare l’arresto, avvenuto nell’aprile 2017, del boss latitante Concetto Bonaccorsi, 56 anni, noto come “‘u carateddu”, in una villa di Massa e Cozzile. Segnale importante, quello della presenza in Toscana dei latitanti, in quanto è di ogni evidenza che tutta l’organizzazione che necessita al fine di mantenere salda la copertura si può mettere in atto solo in un territorio conosciuto e controllabile. Del resto un luogo comune forse, ma ben poco sfatato, ha sempre voluto che i latitanti di mafia fossero ben nascosti nei loro territori, sotto il naso di chi li cerca. 

“Non si tratta di semplici infiltrazioni – incalza Renato Scalia – la mafia in Toscana è presente sin dagli anni ’70, ed ora non si può più parlare di infiltrazioni, a fronte anche dei condizionamenti di ambienti politico-amministrativi che sono risultati da varie indagini. In realtà anche da parte della Dia gli appelli alla vigilanza sul fenomeno sono sempre stati sottovalutati”. E così, “si registrano episodi come quello del 7 novembre 2017, quando un  imprenditore del mercato ortofrutticolo di Firenze si rivolge a ‘ndranghetisti per la riscossione di un debito, o la presenza di una ditta collegata ai casalesi che lavora a Palazzo Vecchio”. Senza ricordare la “vecchia” questione, come ricorda Scalia, che vide partire da Arezzo il micidiale cocktail mafia-massoneria negli anni ’90.  I casi citati, le indagini, i rapporti, il lavoro dell forze dell’ordine e della magistratura formano una mole impressionante di dati e diventano oggetto di una ricostruzione che fa del focus della Fondazione uno strumento indispensabile per ricostruire il presente delle cosche in Toscana.

“Forse la nostra situazione è ancora peggiore di quella delle terre tradizionali di mafia – conclude Calleri – in quanto qui da noi ci sono tutte”. Anche quelle straniere: ad esempio, le mafie cinese e nigeriana. Un altro capitolo, dice il presidente della Fondazione Caponnetto, che verrà affrontato in un prossimo focus.

 

 

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