Allora se vale tutto (in omaggio, la raccolta punti)
Tanto parlare di fotografie, e poi quasi nessuno sa cosa rappresentano. Prendiamo la foto del giugno ’72, la bambina che piange, nuda, ustionata, in preda a un dolore ed una paura che non hanno bisogno di alcuna traduzione. Chiedete a 100 persone cosa rappresenta: vi diranno, compatte, che è stata ferita in un bombardamento americano e il reporter, sempre americano, contrario alla guerra, ha fatto fare allo scatto il giro del mondo. E invece, non è vero. Il bombardamento, di americanissimo napalm, era in realtà dell’aviazione sudvietnamita, rivolto ai nordvietnamiti (sbagliando: bombardarono i loro uomini); vietnamita anche il fotografo, Huynh Cong “Nick” Ut, il cui superiore dell’Associated Press, Horst Faas, che di Pulitzer se ne intendeva (ne aveva vinto uno nel 1965, sempre per fotografie sul Vietnam) decise di fare il grande salto e di pubblicare la foto proibita: un nudo, e un nudo di bambina, che per l’epoca era praticamente Il Diavolo. E fece fare allo scatto il giro del mondo. Contribuì la fotografia alla cessazione delle ostilità? Decisamente no.
La guerra finì sei mesi dopo, dopo anni di proteste e, soprattutto, di sconfitte USA, altrimenti potevano protestare finché volevano. Contribuì la foto ad una maggiore idea del valore della pace? Col tempo, sì. Servì ad evitare successive guerre USA all’estero? Assolutamente e completamente no. Fu fonte di guadagno per chi la scattò e la pubblicò? Assolutamente sì.
E’ bastato un niente a far diventare la foto del bambino morto sulle spiagge turche il nuovo tormentone dell’estate. Ufficialmente: è una foto che nella sua crudezza mostra la realtà che ci ostiniamo ogni giorno a non vedere, presa da un lato che ci è impossibile ignorare. Perché fino a quando ti fanno vedere il negro anche sporchino che protesta perché gli danno il tonno scaduto nel CPSA puoi ancora giocare a fare quello che “aiutiamoli a casa loro. E poi cosa si lamenta, il tonno a casa sua mica lo mangiava così buono”. Quando invece ti fioccano un bimbo morto sul muso perlopiù te ne stai zitto un attimino. O dovresti, se hai un minimo sindacale di pudore. Perché il bambino è tenero e indifeso, e il nostro istinto neotenico, lo stesso che ci guida inesorabile a dichiararci genitori di cagnolini e gattini, ci costringe a inorridire.
Poi parleremo del diritto all’informazione, che tace tutte le cose che non portano né abbonamenti né click, poi parleremo della storia che si fa anche col giornalismo e con le immagini, che un’immagine vale più di mille parole, e l’odore più di mille immagini, e colpire uno per educarne cento. Magari parleremo anche del fatto che, ormai da più anni di quel che è dato ricordare, l’unica cosa che interessa alla stragrande maggioranza del giornalismo è la tiratura, non certo l’informazione; maggiore tiratura, maggiore copertura, maggiore vendita, maggiori introiti pubblicitari. Il fatto che la prima pagina col cadaverino appartenga al Manifesto, da sempre organo di una sinistra che non ama particolarmente certi compromessi paraculi e convenienti, nobilita certamente l’atto: l’avesse fatto Libero, sarebbe stato diverso. Nel senso che il beneficio del dubbio non sarebbe stato concesso.
Peccato che in tutto questo imperversare di opinioni contro e a favore (agguerritissime, accesissime, che infiammano gli animi quasi quanto la finale di Campionato, volano offese bestiali da persone di solito anche pacate e ragionevoli) si siano persi di vista alcuni punti. Il primo, l’abbiamo già citato: il trincerarsi dietro la favola del diritto all’informazione è ipocrita tanto quanto far finta di non vedere le tragedie in corso. La visione è inscindibile dalla visibilità, e la visibilità è guadagno. Punto e basta. Il secondo, che da questo discende e lo fa deflagrare, è che oggi pretendere di pubblicare una notizia senza che poi vada in pasto al popolo del Web è del tutto impensabile. E una volta arrivata lì, le distorsioni, le manipolazioni, gli sfruttamenti, le banalizzazioni, gli usi impropri, le strumentalizzazioni sono infinite ed infiniti; tutte cose che chi per mestiere fa informazione sa, e se dice che poi non è responsabile dell’uso successivo, allora non sta facendo il proprio mestiere.
Che da molto tempo non contempla solo la velina e la fotografia, ma anche la chiave di lettura. Altrimenti, facciamo giornalismo solo con Instagram, via i commenti e anche gli editoriali. Però via anche i giornalisti, che a questo punto sono utili come il reggiseno su di un maiale. Quando la foto arriva su Facebook, ci mette un attimo ad essere sfruttata dal Salvini di turno per un trionfale “Aiutiamoli a casa loro”, o foto montata in un rosario improvvisato, in una macabra gag o usata per contrabbandare l’attimo di celebrità della propria stucchevole poesiola scritta di getto (tutte cose ampiamente viste in questi giorni).
Terzo poi, come al solito, ormai l’informazione arriva seconda, o terza, o ultima; la stampa si è solo accodata a quello che già sui social imperversava, lavorando sul già venduto come poi fa tutta la nostrana imprenditoria: si gioca sul sicuro, parlando di cose che si è già visto rendono. E l’escalation era inevitabile: già da un po’ circolavano foto di migranti morti annegati, sempre più vere, sempre più crude. Infine, visto che vale tutto, anche frullare, l’inevitabile bambino morto, già campione di incassi in ogni reportage che si rispetti; gli adulti, anche se poveri, rendono molto meno.
Scuotono meno le coscienze, diciamo così. Il problema è che scuotono la coscienza di chi già ce l’ha. Le altre, meno; un po’ di colpevole ed irritato silenzio, e poi si ricomincia col volerli aiutare a casa loro, anzi, con maggior carburante di prima, gentilmente fornito dall’orrore che sugli altri ha fatto presa. Come ben sanno i criminologi, l’unico a soffrire la galera è l’innocente; il colpevole, l’aveva messa in conto come rischio d’impresa. E questa, oramai, è proprio roba da criminologi; il feticcio del cadaverino, degno di comparire (non dubitate: già lo fa) nelle raccolte di figurine dei serial killer che in altri Paesi fanno furore, o nel mercato nero delle foto delle cose macabre e disgustose che, oggi, fa incetta di istantanee dei campi di concentramento e di altri simili ghiotti memento mori. Come fai a pensare che per gente che non capisce il concetto di migliaia di persone che fuggono disperate, di milioni di morti in queste disgrazie, la foto macabra sia risolutiva?
E’ chiaro che c’è un problema cognitivo, alla base. E quello non lo risolvi con la boutade dello scioccare il benpensante. Ma finché fingiamo di credere che l’informazione sia a) neutra, b) una missione, non ne usciremo mai. A proposito: non arrivano prime pagine, in Argentina, Grecia, Iraq, Pakistan, Laos, Ucraina tutti bene, giusto?