Mattarella presidente, Draghi più forte, gli equilibri sono salvi

Firenze – Ora che è dovuto intervenire di nuovo lo Stellone (o il santo in paradiso, la Provvidenza lasciamola stare che ha gatte ben più importanti da pelare come la pandemia e la crisi Ucraina) e il nuovo Presidente è il buon vecchio di prima, è necessario riflettere sui rischi che la Repubblica e la sua sperimentata Costituzione hanno corso la settimana appena passata.

Colpa di leadership inadeguate a guidare le sorti di un Paese a democrazia avanzata che sono state  bocciate all’esame importante dell’elezione parlamentare del Capo dello Stato. Alla fine è andata bene. Sergio Mattarella, il dodicesimo Presidente è anche  il tredicesimo e state tranquilli che il 13 in Italia, a differenza che nei paesi anglo-sassoni, non porta male.

Intanto non è vero che il secondo mandato dell’uomo politico siciliano, che ripete quello di Giorgio Napolitano, rappresenti una forzatura della Costituzione che spinge verso il presidenzialismo. Lo sarebbe stata  assai di più l’elezione di Mario Draghi che per sette anni avrebbe dovuto e voluto guidare in modo surrettizio la politica italiana: lasciamo perdere se sarebbe stato un bene o un male, anche se con questa configurazione di partiti deboli e divisi al loro interno, sarebbe stato facile uscire al di fuori dei limiti previsti dalla Carta fondamentale per  la nostra Repubblica parlamentare.

Ciò che ha colpito l’opinione pubblica è stato il gioco della candidature nel quale sono stati coinvolti personalità o personaggi del tutto privi dei requisiti fondamentali che dovrebbero caratterizzare il titolare della più alta carica dello Stato. Si è partiti dall’auto candidatura di Silvio Berlusconi il cui curriculum giudiziario e personale non fornisce il meglio dell’idoneità richiesta.

Si era però detto: Silvio vuole solo affermare il principio che “stavolta tocca a noi”. Bene vediamo quale carta vincente il Centrodestra nasconde dietro il suo volto. Nella lista presentata Carlo Nordio e Letizia Moratti erano chiaramente candidature di bandiera indigeribili da parte di chi doveva completare i voti mancanti. Marcello Pera forse si trovava  in una posizione migliore, ma nessuno gli ha dato credito.

Aspettate, allora: la vera candidata è tenuta coperta per motivi di rispetto istituzionale perché è la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. Nessuno però era andato a verificare il consenso per la senatrice a partire dai partiti stessi che la presentavano (un po’ come fece Pier Luigi Bersani con Romano Prodi, mandato al macello nel 2013 da una delle peggiori strategie mai viste nelle due Camere).

Fatta rapidamente sparire sotto il tappeto la frittata Casellati, ecco la mossa decisiva, quella che poi avrebbe portato al crollo di tutti gli equilibri politici e governativi: la direttrice in carica dei servizi segreti Elisabetta Belloni. “Una donna, una donna”,  gridavano stravolti i due inventori dell’idea. “A Mosca a Mosca”, gridavano i protagonisti del Giardino dei Ciliegi di Anton Cechov. Già perché non si era mai visto prima nelle democrazie occidentali che un capo dei servizi segreti in carica, dunque una delle posizioni più delicate e più votate al silenzio e alla riservatezza, diventasse il rappresentante del Paese, proprio come è, accaduto al vecchio capo del Kgb che guida la Russia.

Nessuno si meraviglierebbe se nel giro di poche settimane i due splendidi artefici della proclamata rivoluzione femminile, Matteo Salvini e Giuseppe Conte, fossero rimossi dal loro incarico, per comprovata inadeguatezza. Sarà anche questo un ennesimo test di maturità della politica italiana, però non si trova chi mette in gioco un euro sulle possibilità di superarlo.

E il resto dei giocatori? Enrico Letta, Matteo Renzi, Giorgia Meloni, Antonio Tajani e il centro moderato? Letta ha giocato di rimessa e la tattica gli ha giovato anche se lo Stellone lo ha aiutato a non cadere nella trappola dei “rivoluzionari in rosa”.

Renzi è stato lineare: ha puntato fin dall’inizio su Pier Ferdinando Casini, un buon candidato “non divisivo” che però riceveva parecchi niet da chi nel centrodestra lo considera troppo disinvolto (questo è il centro, bellezza!) . Casini aveva dalla sua il vantaggio di far parte della classe politica storica e dunque di dare un segnale di rinascita di una professione molto in crisi in Italia. A Renzi è venuta anche l’idea di far girare il nome del professor Sabino Cassese sul quale era ben difficile trovare riserve di alcun genere. E per qualche momento era sembrata un’ottima idea.

Giorgia Meloni, capo dell’unica forza all’opposizione, giocava su un campo amico, cioè “quello che porta a casa il centrodestra unito va comunque bene”, ma non aveva fatto i conti con Salvini e la Lega che nella maggioranza si trova e dunque ragiona per rafforzarsi nel governo in vista delle elezioni del 2023. Forza Italia cercava silenziosamente  una controfigura di Berlusconi, veleggiando verso il nuovo grande centro depurato dai sovranisti e dagli anti europeisti, la famosa maggioranza Ursula con verdi e socialdemocratici. Gli altri comprimari (Di Maio, Toti etc.) hanno accompagnato di volta in volta il treno che andava verso la conferma di Mattarella.

Letta voleva il conclave e come nel conclave agisce lo Spirito Santo, a Montecitorio ha lavorato lo Stellone. Gli equilibri sono salvi: anzi Mario Draghi, che ha avuto un ruolo importante nel far posare gli scatoloni a Mattarella, è più forte di prima per avviare le riforme necessarie, anche quelle più indigeste, per tenere questo Paese sulla rotta di un nuovo sviluppo, economico e sociale.

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