” Era una brava persona, un grande lavoratore”. Al bar Giardino di Luzzara tutti conoscevano Rodolfo Moretti. Da queste parti non si vedeva mai, ma tutti lo ricordano sempre impegnato in qualche occupazione: dal duro lavoro nel caseificio alla nuova attività presso un’azienda di Pegognaga, nel Mantovano.
Quando sente il nome di Moretti, Maurizio, conosciuto da tutti come il “canarino”, smette di giocare a carte e comincia a raccontare. Dalle sue parole emerge il ritratto di una persona buona, capace addirittura di perdonare la moglie e la figlia dopo avere scoperto le loro intenzioni omicide. Erano stati i carabinieri, infatti, a scoprire che l’aggressione che aveva subito nel gennaio dell’anno scorso era stato pianificata dalle due donne, che avevano assoldato un killer per ucciderlo.
Al bar si discute sui moventi. Chi ricorda la continua richiesta di denaro da parte della moglie, al marito e non solo. Chi sottolinea l’interesse morboso da parte di Roberta per la magia e la cartomanzia. Fino a quel giorno di gennaio nessuno però avrebbe immaginato che le donne della famiglia celassero tale volontà omicida.
Dopo quell’aggressione, raccontano al bar, Moretti aveva cominciato a ricostruirsi una vita. Si era trasferito a casa della sorella, in via Lorenzini, insieme al figlio quattordicenne, aveva trovato un nuovo lavoro. Sembrava tranquillo. Aveva trovato persino la forza di perdonare: andava spesso a trovare la figlia Ylenia a Gazoldo degli Ippoliti, dove si trovava agli arresti domiciliari. Il 12 agosto scorso, su di lui si era abbattuta un’altra disgrazia: era rimasto vittima di un infortunio sul lavoro – era rimasto schiacciato da un camion in movimento – ed era rimasto a lungo in Rianimazione tra la vita e la morte. Ma anche quella volta ce l’aveva fatta.
“Non avrei mai detto che sarebbe andata a finire così” aggiunge Amos, ottantre anni, che di sangue ne ha visto scorrere molto ai tempi della guerra. “Nella vita ne ho viste tante, ma stamattina, quando ho aperto il giornale, sono rimasto colpito”.