Il 2 febbraio 1502, trionfalmente accolta quale sposa del principe Alfonso, entrava in Ferrara Lucrezia Borgia. Veniva dalla corte romana e si lasciava alle spalle foschi intrighi e vicende tragiche; accettando un matrimonio politico, che la collocava in posizione di primo piano presso una famigli potente, non si negava i vantaggi che le sarebbero derivati. Non è pero la sua storia che vogliamo seguire, ma i suoi rapporti con Reggio Emilia, la città a lei più cara dei ducati estensi.
È del due agosto dello stesso anno una sua lettera al capitano ducale e ai Magnifici uomini della città di Reggio in cui veniva presentato e raccomandato un certo mastro Antonio setaiolo da Zenua (Genova) cittadino ferrarese che della seta nella nostra città
Garantiva Lucrezia la sua bravura e chiedeva che fosse accolto “graziosamente” per rispetto a lei, a beneficio della comunità e per venire incontro ai desideri dello stesso maestro.
Non c’era da dubitare di quella richiesta. Educata allo sfarzo della Roma dei papi Lucrezia aveva in sé il gusto del bello. Il suo fascino, a tutti noto, derivava da quella sua sensibilità che sapeva trasformare il lusso in raffinata eleganza.L’avevano certamente capito anche i cronisti del tempo che vollero descrivere nei particolari l’abbigliamento di lei giovane sposa al suo solenne ingresso in Ferrara :..” Dita madama Lucrezia se partì per venire dintro di Ferrara vestita di una galante camora (gonnella) di damasco carmesino (cremisino), tesuta di liste di brochato d’oro rizo (riccio) e di sopra una sbernia (mantello) di brochato d’oro sopra brochato richisimo, fodrata di armelini (ermellino) suso uno cavalo groso liardo cuberto di veluto carmesino ricamato a foglie di rovero. . .”1.
I reggiani capirono quanto fossero importanti le proposte avanzate da una simile donna e s’affrettarono a rispondere all’illustrissima ed eccellentissima signora, dichiarando di aver accolto molto volentieri mastro Antonio sia perché desideravano introdurre in Reggio l’arte della seta sia perché volevano compiacere la gentile patrona.
Iniziava così un legame particolare tra Lucrezia e la nostra città, che più volte l’ospitò con squisita cortesia in Cittadella: nel 1504, quando giunse in visita ufficiale, accompagnata dal vecchio duca Ercole e da uno sfarzoso seguito e poté rivedere il suo raccomandato, mastro Antonio ed ammirare i capolavori della sua arte ; nel 1505, quando venne a partorire Alessandro, in segno di festa a Reggio furono aperte le prigioni e liberati i carcerati; nel 1508, quando a Ferrara infieriva la peste e nel 1511, per il suo ultimo soggiorno. Mastro Antonio aveva imparato la sua arte ed educato la sua sensibilità proprio in quella città che allora era famosissima per i suoi tessuti e risultava particolarmente aperta alle correnti innovative della rinascenza. Genova infatti, con i suoi panni d’oro e di seta, con i suoi damaschi e velluti policromi dai vivaci disegni seppe fare concorrenza ai drappi veneziani (troppo legati a schemi orientaleggianti), a quelli fiorentini, senesi, lucchesi. Le stoffe genovesi, in armonia con le mode del tempo, sprigionavano nei colori e nei disegni una vitalità nuova, così divennero rinomate in tutto il mondo. Mastro Antonio, proprio per la sua provenienza, non era quindi un setaiolo qualunque, la lettera di Lucrezia Borgia, lo definiva ”il sedaiolo mastro Antonio da Zenua che intende esercitare oppresso de questo Magnifica comunità el magisterio de arte sua”.2
Il 7 Agosto 1502 il capitano ducale di Reggio informava il signore di Ferrara che gli Anziani erano pienamente d’accordo sulla venuta del “drapiero” genovese. Il duca, con un decreto del 21 Dicembre, concesse alla comunità reggiana di introdurre l’arte e l’industria della seta “ . . . per il decoro, l’ornamento, la comodità e l’utilità della stessa città . . .” 3
A tal fine venivano da lui fatte concessioni speciali e accordati privilegi.
Così l’intraprendente artigiano, nonostante fosse cittadino ferrarese, poté svolgere la sua attività a Reggio e trasportare da Ferrara le sete da lavorare senza pagare dazi. Certamente dovette rispettare dei patti. Dal libro delle provvigioni si sa che egli doveva iniziare la lavorazione della seta a sue spese, impegnandosi a raddoppiare ogni anno il numero dei telai e dei lavoranti; a sue spese doveva condurre tintori e introdurre filatori; si assumeva inoltre il compito di insegnare a tutte le donne e a tutti gli uomini che volevano imparare il mestiere e non poteva opporsi a chi desiderava intraprendere in proprio la lavorazione della seta.Il comune generosamente gli offriva cento ducati d’oro per l’avvio della sua attività e un discreto salario di dieci lire mensili. Si nutrivano grandi speranze nell’affermazione dell’arte e, sotto forme diverse, il governo locale si impegnò per attivare la nuova manifattura. Si cercò prima di tutto di rendere la città autonoma per la fornitura per la materia prima.Nelle campagne del distretto e sulle colline si provvide a diffondere la coltura intensiva del gelso per alimentare i bachi da seta e si stabilirono pure severissime pene per chi danneggiava o asportava quegli alberi. Addirittura nel 1663 si arriva a piantare gelsi sulle mura e sui terrapieni della città: è addirittura il Comune ad organizzare la piantumazione.
In breve tempo quell’arte conobbe uno sviluppo straordinario e divenne nella città l’attività prevalente che impegnava, fra uomini e donne, almeno cinquemila persone. I drappi reggiani, dai velluti bianchi alle tele trasparenti d’argento, dai damaschi alle sete a pagliuzze e a stelle d’oro, cominciarono a essere conosciuti ed apprezzati anche altrove.
Dopo un quarantennio di libera attività l’arte volle darsi un ordinamento statuario.
I filatoi crebbero o si ridussero di numero, seguendo gli alti e bassi del mercato sino alla definitiva decadenza del secolo XIX, quando gli opifici che «occupavano un tempo migliaia di braccia a render famose in Italia e fuori le fabbriche delle nostre sete» apparivano ormai «squallidi e deserti».Nell’epoca d’oro della produzione serica, più precisamente nel 1660, il duca Alfonso IV autorizzò i fratelli Fabrizio e Orazio Guicciardi (o Guizzardi)4 a costruire un grande filatoio nei pressi di Porta S. Croce: si trattava dell’edificio tuttora esistente, benché rimaneggiato rispetto all’impianto originario, in cui ha oggi sede la Camera del Lavoro (via Roma 53). Entrando da quello che era ed è l ’ingresso principale, nella parte del palazzo nel XVII secolo adibita a residenza e rappresentanza, si possono cogliere i segni della passata prosperità nell’imponente scalone ornato di pregevoli statue barocche rappresentanti una figura femminile e un gigante che sostiene una voluta a forma di conchiglia. Tanto l ’arte della lana quanto quella della seta non avrebbero potuto esistere senza il Canale Maestro. L’acqua metteva in moto i filatoi in cui si torceva e avvolgeva il filo di seta e i folli o gualchiere in cui si battevano i tessuti di lana. L’acqua veniva utilizzata nella tintura tanto della lana che della seta ed era inoltre necessaria per i bagni e i lavaggi: purgava i tessuti di lana dai grassi assorbiti durante la lavorazione, da cui il nome di Purgo attribuito al Palazzo dei Mercanti del Panno5 dove si svolgeva tale operazione, situato agli attuali numeri 8-10 di via San Carlo. L’acqua serviva infine ad alimentare la chioderia in cui si fabbricavano chiodi speciali, indispensabili alla produzione tessile. Nel corso del XVII secolo lo sfruttamento delle acque dette inevitabilmente luogo ad aspri contrasti tra i diversi utenti, in particolare tra mugnai e setaioli, poiché a partire dal 1640, in un’epoca come abbiamo già detto favorevole alla produzione serica, crescente era il numero di nuovi filatoi che attingevano dal canale e scarsa rimaneva la portata di quest’ultimo nei mesi estivi. Per piegare la concorrenza dei mulini e la protesta dei mugnai, i setaioli si avvalsero di particolari strategie, tra cui prendere in affitto proprio i mulini che erano al centro della protesta, perché danneggiati dal prelievo d’acqua da parte dei filatoi. Il governo cittadino dovette spesso intervenire a dirimere i conflitti tra g li utenti del canale, come avvenne nell’agosto del 1657 quando, di fronte ad un’emergenza idrica, si decise d’autorità la chiusura delle bocche dei filatoi per consentire ai mulini, che avevano comunque la precedenza, di funzionare. Già dal 1538, quando ci furono i sintomi di una certa crisi nel settore gli imprenditori, per limitare le agitazioni degli operai e per reprimere le frodi che avvenivano nella lavorazione della seta a domicilio, e successivamente i mercati della seta, per evitare “le frodi e le ruberie”, che continuamente si verificavano, chiesero al duca che l’arte fosse giuridicamente riconosciuta. Si aveva fiducia che, con le leggi ed ordinamenti precisi si potessero esprimere gli inganni e le frodi, eliminare le liti e le contese, raggiungere maggiori progressi tecnici nella lavorazione della seta, affrontare con successo i mercati forestieri. Tutto questo si verificò quando quella che era stata un’industria domestica divenne l’Università dell’arte della seta. Il 4 febbraio 1546, allorché si proclamarono e si giurarono solennemente gli statuti, l’università era nata. Per redigere le nuove leggi, che non erano poi tanto nuove in quanto copiavano, forse con una severità maggiore, gli statuti medievali dell’arte della lana, si impegnarono quattro anni; alla fine il duca diede riconoscimento giuridico all’arte e approvò pienamente quelle norme. Dal momento che era necessario perfezionare i tessuti per conquistare il mercato estero, ai setaioli era imposto l’obbligo di lavorare le stoffe secondo leggi ferree. I drappi dovevano essere tessuti con seta cotta, reale e con fili preziosi, senza minimamente inserire fili di qualità scadente si dovevano anche rispettare le altezze nei singoli drappi, le altezze dei pettini e il numero dei rispettivi denti, la qualità dei fili che dovevano costruire l’orditura e di quelli di cui doveva essere composto il relativo pelo. Tutti coloro che non rispettavano le leggi venivano puniti severamente. Compresi erano anche gli incarichi di chi governava l’arte. L’università era rappresentata e diretta da un rettore, da un provveditore, da un consultore, da un notaio, da due sindaci, da un consiglio di tre persone primarie dell’arte, da un consiglio di otto persone e da un messo. Gli incarichi erano elettivi e avvenivano per sorteggio. Davanti al rettore, assistito dal provveditore, dovevano prestare giuramento di fedeltà agli statuti tutti coloro che intendevano entrare nell’arte; ai singoli ufficiali erano imposti particolari compiti a cui tutti dovevano attenersi. Se il rettore trascurava di punire i falsificatori di drappi, egli stesso era condannato ad una multa di cinquanta lire imperiali.Lo stesso giorno in cui si costituì l’università fu celebrata nella basilica di San Prospero una messa solenne, alla presenza dei mercanti e di tutti coloro che appartenevano all’arte, quindi in una sala del palazzo dei Mercanti dal notaio Gian Battista Arlotti fu data lettura degli statuti e ciascuno dei presenti giurò sul vangelo di rispettarli. Non tutti però vollero accettarli. Vivacissima fu la protesta dei tessitori che, in numero di centotrenta e non tutti reggiani si opposero a certi divieti. Volevano questi difendersi dall’università per fondare “l’Arte dei tessitori” per tutelare gli interessi della loro categoria. Destinati però a un futuro di fame, alla fine si piegarono e giurarono. Ci fu poi la contestazione delle calderane, che non si rifiutavano di giurare gli statuti, ma non erano disposte a pagare le pene pecuniarie di cui erano multate. La loro voce fu ascoltata, perché, molto accortamente, esse inviarono al rettore dell’arte tre persone che le rappresentavano legalmente. Questi furono i primi combattuti inizi dell’università, a cui si devono aggiungere i problemi creati dal lavoro minorile e le resistenze degli Ebrei che, impediti a gestire imprese ed autorizzati a lavorare soltanto la loro seta, avversarono l’arteIntanto l’università si fermava. Nel primo anno della sua istituzione vi si iscrissero quarantatré mercanti, centocinquanta maestri e molti altri operai minori. Due anni dopo i lavoratori della seta nella nostra città non erano più in grado di soddisfare le pesanti richieste che giungevano da ogni parte, per cui fu chiesto al duca il permesso di tessere i drappi fuori Reggio. La sua risposta giunse sollecitata con la concessione di poter “ …mandar fuori ogni quantità di seta, per farla lavorare in qualsivoglia luogo… libera et senza dazio et gabella…” 6.
Nel 1551 i mercanti erano già una cinquantina e potevano contare su circa cinquecento telai operanti. I più ricchi, fra i mercanti reggiani, erano gli Scaruffi che avevano trenta telai alle loro dipendenze, numero che eccedeva di molto la media; i membri di questa famiglia figuravano i rettori e i provveditori dell’arte e fra i membri del consiglio.
Anche le altre famiglie di prestigio, come gli Scapoli, gli Arlotti, i Pratonieri, i Tavoli risultavano legate al commercio della seta.
I tessuti serici reggiani ormai si erano affermati e avevano conquistato non solo i mercati italiani, ma quelli esteri delle Fiandre, della Germania, dell’Inghilterra, dell’Oriente e, soprattutto, della Francia dove Lione era nota per le sue preziosissime sete.
Questa specie di età dell’oro avrebbe avuto, come nel resto del paese, una vita effimera. Già il primo trentennio del XVII secolo sarebbe stato caratterizzato da una grave crisi economica e dalla peste; intanto Reggio, divenuta con la perdita di Ferrara da parte degli Estensi e il trasferimento della capitale a Modena la seconda città di un ducato fortemente ridotto d’importanza, iniziava la parabola alterna della decadenza e dei brevi periodi di ripresa, caratterizzata dal crescere dello scontento e dei rancori municipali.
1 Filippo Rodi, Patrizio Antolini La Solenne Entrata in Ferrara Di Lucrezia De’Medici, Venuta Sposa Al Duca Alfonso II. D’Este … Pubblicata Con Note Da P. Antolini. (Nozze Carnevali-Soletti.).1894 pag 99
2 Sarah Bradford, Lucrezia Borgia, Milano, Mondadori, 2005. pag 123
3 Arch.di Stato di reggio emilia Corporazioni di arti e mestieri, regg.80emazzi 18(1390-1847).
4 Arch. di Stato di Modena, Archivio Guicciardi, b. 1; Carteggi di principi e signori, filza 1313;
5 Iniziato alla fine del Quattrocento, il Palazzo dell’Arte dei Mercanti del Panno fu completato nel 1541 e ospitò la corporazione dei mercanti del panno
All’edificio signorile era collegato il “purgo” (da cui l’antico nome di Via del Purgo o Contrada delle Purghe), ossia il luogo ove i tessuti di lana venivano liberati dal grasso utilizzato per la loro lavorazione, e si affacciava sul ramo principale del canale di Secchia, proveniente dalla via del Guazzatoio, da cui attingeva l’acqua necessaria per il lavaggio delle lane e per la forza motrice. La struttura del “purgo” fu poi abbattuta: anche il canale Secchia non è più visibile.
Il secondo piano del Palazzo si deve al restauro ottocentesco. Circa la decorazione pittorica dell’edificio, sembra che sia stata progettata nel Cinquecento dal celebre pittore di Novellara, Lelio Orsi, ma è dubbio che la realizzazione sia avvenuta secondo i disegni conservati. L’edificio, situato in Via San Carlo all’angolo con Via Filippo, è caratterizzato da un nobile e alto porticato, oggi in parte cieco, con colonne in cotto e arenaria. Rimane un capitello con una testina di caprone.
6 Arch.di Stato di Reggio Emilia Carteggi, regg. 54 e mazzi 249 (1337-1796). Andrea Balletti. Storia di Reggio nell’Emilia Reggio Emilia, Bonvicini, 1925 pag 240