La prigione trasparente dell’infocrazia

L’ultima opera di Byung-Chul Han lascia l’amaro in bocca

Un pugno ben assestato su quel punto particolare della mascella che ti manda ko per un tempo ben superiore alla conta fino a dieci dell’arbitro. Così mi sono sentito dopo aver letto l’ultima opera di Byung-Chul Han. Cinquantanove pagine – tante ne ha conteggiate il mio kindle- crude, scioccanti, tuttavia dense di un significato profondo che stimola la riflessione

L’autore segue il suo filo logico, senza ripensamenti, dritto come un treno lanciato alla massima velocità. Offre, tuttavia, al lettore punti di vista diversi di altri autori molto importanti. Comincia così, citando Charles Foucault e il suo “Sorvegliare e punire” a condurre per mano il lettore verso la comprensione delle differenze tra il regime disciplinare e il concetto di regime dell’informazione. Nel primo, per la conquista del potere a essere sfruttati sono i corpi e le energie, nel secondo sono le informazioni, che vengono utilizzate per la sorveglianza e la previsione dei comportamenti. Il panottico, con le sue celle isolate le une dalle altre, è il simbolo e l’immagine ideale del regime disciplinare.

L’isolamento, secondo Foucault, è il vero strumento di dominio, è la “conditio sine qua non” per la sottomissione totale. Per contro, l’isolamento non è una caratteristica propria del regime dell’informazione. Qui la sorveglianza avviene attraverso i dati. Insomma: il regime disciplinare è la forma del dominio del capitalismo industriale. “Un corpo docile è un corpo che può essere sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato”. Il regime dell’informazione si identifica nel capitalismo dell’informazione, che evolve in capitalismo della sorveglianza e declassa gli esseri umani a bestie da dati e consumo.

Ciò che fa riflettere in questo parallelismo che l’autore fa tra regime disciplinare e regime  dell’informazione, è che nel primo, secondo la visione panottica di Foucault, i dominati vengono esibiti, mentre nel secondo gli esseri umani non si sentono sorvegliati ma liberi. Paradossalmente, è proprio il senso di libertà a garantirne il dominio. Ma attenzione! Trattasi soltanto di libertà percepita. La politica della visibilità, nel regime dell’informazione è detta trasparenza. La trasparenza diventa la coercizione sistemica del regime. Tutto esiste come informazione e, informazione e trasparenza sono sinonimi. Gli essere umani sono diventati prigionieri delle informazioni. Comunicando “liberamente” tra loro producono informazioni e costruiscono la loro prigione trasparente. Non più una costruzione panottica, ma una prigione digitale del tutto trasparente, così come simboleggia il cubo di cristallo che identifica chiaramente l’ingresso della sede di Apple a New York. Siamo forse di fronte a una nuova forma di totalitarismo basato su libertà, comunicazione e comunità? La risposta è sì, e a tale proposito l’autore ricorre all’aiuto di Arendt col suo “Le origini del totalitarismo”.

Il tratto distintivo del totalitarismo classico è l’ideologia. L’ideologia permette di avere una visione chiara del passato, del presente e, con sufficiente attendibilità, una previsione del futuro. Il dataismo del regime dell’informazione invece, aspira indiscutibilmente a un sapere totale. Tutto ciò lo si raggiunge non attraverso una narrazione ideologica, ma con l’ausilio di algoritmi che, per quanto perfetti non possono avvicinarsi all’esperienza della contingenza tipica della narrazione ideologica. Siamo quindi di fronte a una nuova forma di totalitarismo che fa a meno della ideologia? Anche questa volta la risposta è sì. L’autore mette in discussione anche il concetto espresso da Gustave Le Bon nel suo “La psicologia delle masse”.

“L’ideologia anima la massa, infonde in essa un’anima e ne uniforma l’agire”. Nel regime dell’informazione gli uomini sono liberi, soli, non costituiscono mai una massa, semmai degli sciami digitali agli ordini, non di un capo, ma di un influencer. È a questo punto che l’autore mette in discussione anche il principio di sovranità di Carl Schmitt, cercando di immaginare come il politologo tedesco riformulerebbe il suo principio. Probabilmente direbbe: “Sovrano è colui che possiede e dispone delle informazioni in rete”.

L’autore argomenta e colpisce nel segno, anche quando si sofferma sulla ineluttabilità del processo di digitalizzazione del mondo e delle nostre vite, cambiando di fatto tutto quello che ci circonda e anche noi stessi. Lo definisce uno tsunami, che travolge tutto, anche la politica portando a grandi cambiamenti che mettono in discussione la democrazia che, secondo lui, è destinata a cedere il passo a quella che lui chiama infocrazia.

Manifesta anche un certo scetticismo, peraltro da me condiviso, quando cita Pierre Levy che nel suo saggio “Intelligenza Collettiva” preconizza una sorta di democrazia digitale in tempo reale, che si sostituisce alla democrazia rappresentativa e nella quale lo smartphone diventa una sorta di “parlamento mobile”. Ma è una pura illusione, afferma Byung-Chul Han. I follower si lasciano gestire dai loro influencer come bestiame da consumo. Vengono depoliticizzati.  La comunicazione sui social non è né libera né democratica. Lo smartphone più che un parlamento mobile non è altro che uno strumento di sottomissione. Quello che fa è produrre degli zombie del consumo e della comunicazione, anziché dei cittadini responsabili. Si complica così l’agire comunicativo che necessita invece di sfere pubbliche ampie e stabili, mentre si pubblicizzano soltanto le sfere private come se fossero delle vetrine mobili.

Eli Pariser nel suo “Il filtro. Quello che internet ci nasconde” afferma che l’approccio algoritmico distrugge lo spazio pubblico. I filtri stabiliscono le cose che ci piacciono in base a quello che facciamo, poi estrapolano le informazioni, offrendoci chiavi di lettura su cosa siamo e soprattutto cosa vorremmo. Nella realtà i filtri generano un universo personalizzato di informazioni per ciascuno di noi, si crea così una sorta di bolla di filtri che si ingrandisce sempre di più tanto quanto più lungo è il tempo che trascorriamo navigando su internet. Ciò fa sì che questa personalizzazione spinta della rete danneggi la democrazia, in quanto i temi di rilevanza sociale -fondamento della democrazia- vengono scavalcati dagli interessi personali. La rovina della sfera pubblica non è, secondo l’autore, del tutto addebitabile agli aspetti tecnici del web.

Secondo lui è un processo che viene da più lontano e attiene al fenomeno dell’autoindottrinamento e all’autopropaganda. Siamo tutti presi da noi stessi. La personalizzazione algoritmica della rete non può essere la sola responsabile. Secondo Chul Han la sparizione dell’altro e l’incapacità di ascoltare sono ancora più colpevoli. Per il tema della razionalità digitale, l’autore chiama in causa ancora Hanna Arendt e Juergen Habermas, i cui postulati vengono messi in discussione dall’approccio dei Dataisti, i quali affermano che nella società attuale i cittadini non sono nella condizione di credere ad uno sfondo di discussione comune, ed è per questo che l’idea di sfera pubblica, intesa come ideale, celebrata da Arendt e Habermas non ha più ragione di esistere.

Vince la razionalità digitale. Essa calcola. Gli algoritmi prendono il posto degli argomenti. Gli argomenti che, secondo i due studiosi, possono essere migliorati nel processo discorsivo, vengono continuamente ottimizzati attraverso l’affinamento degli algoritmi nel processo meccanico secondo i dataisti, dando luogo a una vera e propria azione di autoapprendimento che sfocia nel cosiddetto “machine learning”. In definitiva i dataisti contrappongono alla teoria dell’agire comunicativo di Habermas la loro teoria, che va sotto il nome di “behaviorista” che fa a meno del discorso, dell’agire comunicativo. Secondo questa teoria BigData e AI sono più pronti a prendere decisioni intelligenti e razionali di quanto possono fare gli esseri umani che sono oggettivamente limitati nell’elaborazione di una grande mole di informazioni.

I dataisti sono convinti che l’umanità disponga di un sapere che le consente la conoscenza totale della società. Ci promettono un mondo senza guerre, crisi economiche e finanziarie oltre che pandemiche. Una società senza politica. Loro argomentano: quando si raggiunge un certo equilibrio tra i diversi strati sociali, si rende automaticamente superfluo il riassetto per la creazione di una nuova condizione sociale e, di conseguenza, si rende superflua la politica con tutti gli annessi e connessi. Ma se i partiti non hanno più ragione di esistere, chi o cosa li sostituirà nella nuova Infocrazia? Saranno esperti e informatici, secondo i Dataisti. Insomma, la politica verrà sostituita da un sistema manageriale basato sui dati che si occuperà di assicurare la felicità di tutti.

Corsi e ricorsi storici, spiega l’autore citando la Razionalità Aritmetica di Rousseau del XVIII secolo. Anche la sua teoria si contrapponeva alla Razionalità Comunicativa. Rousseau concepiva la “Volontà Generale” come una grandezza, appunto, aritmetica che viene oggettivata al di là dell’agire comunicativo. Tradotto: tutto conduce a concludere che Rousseau sia stato il primo dataista della storia.

Anche se Shoshana Zuboff nel suo Il Capitalismo della Sorveglianza, si scaglia contro l’approccio behaviorista dei dataisti, lanciando un veemente appello per ridare centralità all’essere umano e alla democrazia, mi è sembrato di percepire un certo sentimento di ineluttabilità da parte dell’autore. Lo si evince dalla citazione di Foucault e del suo Le Parole e le Cose. “…Possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia”. Quel mare che è ora un immenso oceano di dati. Siamo di fronte a un nuovo nichilismo dei valori ed è la logica conseguenza delle distorsioni della società dell’informazione.
Nasce dal momento in cui perdiamo la fede nella verità.

Nell’era delle fake news della disinformazione e delle teorie del complotto, viene meno il collegamento con la realtà con le verità fattuali. Il nuovo nichilismo non afferma che la menzogna viene spacciata per verità, o che la verità viene sconfessata in quanto menzogna. Piuttosto, è la stessa distinzione tra verità e menzogna a essere minata. Paradossalmente chi mente, riconosce l’esistenza della verità. Le fake news non sono menzogne. Esse defatticizzano la realtà. Chi fa uso di fake news diventa automaticamente indifferente alla realtà.

Verso la fine del suo saggio, l’autore si abbandona ad alcune considerazioni filosofiche, citando, così come ha iniziato, Foucault e il suo “Il governo di sé e degli altri”. La parresia o coraggio per la verità, è stata studiata dal filosofo francese come se avesse previsto la crisi della verità. Parresia e Isegoria (diritto dell’individuo di esprimersi liberamente) guidano la vera democrazia. Chi parla con coraggio pratica la parresia. La parresia crea comunità. Solo la libertà della verità genera la democrazia, altrimenti si scivola verso la infocrazia. Socrate è il simbolo della parresia. Per lui dire la verità è più importante della sua stessa vita è per questo che Foucault gli assegna il ruolo di parresiasta. Ci avviciniamo inesorabilmente verso un’era in cui la luce della verità è completamente spenta e le informazioni offuscano i contorni dell’essere.

Sono considerazioni profonde quelle dell’autore, che tuttavia lasciano, come si suol dire, un po’ di amaro in bocca
. Sì perché, per quanto condivida nel merito la sua visione, penso che la vera questione possa essere ricondotta, più semplicemente, alle modalità dell’esercizio del potere. L’incremento esponenziale delle disuguaglianze, infatti, ci porta a concludere che la vera democrazia, per intenderci quella della Parresia e della Isegoria, non c’è più da un bel pezzo. E che dire delle oligarchie? Se pensiamo che i 400 americani più ricchi detengono più ricchezza della metà di tutti i cittadini americani, qualche riflessione su come viene gestito il potere nelle nostre democrazie è doveroso farla. Ciò detto, se fossimo d’accordo sull’assunto che ricchezza e potere sono due facce della stessa medaglia, allora sarebbe saggio chiedersi: saranno i ricchi che decideranno la composizione del sistema manageriale che si occuperà di creare, come previsto dall’autore, gli algoritmi che ci faranno star bene e felici nella nuova società dell’informazione? A voi la riflessione dopo aver letto il libro di Byung-Chul Han.

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