Innovazione, la sfida di Pnat: serre salva suolo e alberi mangia inquinanti

Firenze – Che fine ha fatto Jellyfish barge, la serra agricola galleggiante che produce verdure senza consumare il suolo? Fece grande scalpore all’Expo 2015 e poi non si è saputo più nulla. Gli artefici erano il geniale neurobiologo vegetale Stefano Mancuso dell’università di Firenze, e il suo team, che in questi tre anni ha lavorato sodo in materia di trasferimento tecnologico di brevetti e invenzioni.

Risultato: esiste un progetto per misurare la stabilità degli alberi e il loro apporto benefico sull’ambiente. Ed è nata una sperimentazione per annientare gli inquinanti delle discariche grazie alle piante. Al centro di tutto sta Pnat, spinoff dell’università di Firenze nata nel 2014, che oggi ha sei soci e un dipendente. Si scrive Pnat, ma si pronuncia Pi-nat, proprio come le noccioline americane. Il suo obiettivo è quello di creare sinergie fra ambiente naturale e artificiale. Al suo interno lavorano designer e plant scientist del calibro di Mancuso, ma con un occhio imprenditoriale. Camilla Pandolfi è amministratore unico di Pnat.

Il progetto Jellyfish barge fu un fiore all’occhiello della presenza toscana a Expo 2015. Oggi dov’è?

Il progetto originario è stato aggiornato e adesso siamo al terzo prototipo. Ricordo le sue caratteristiche: Jellyfish è una piattaforma galleggiante di circa 80 mq. per la coltivazione idroponica di vari ortaggi. Può essere installata ovunque, purché in aree protette. E’ totalmente autosufficiente, non grava sull’ambiente perché dotata di pannelli solari per l’energia elettrica e per l’eventuale distillazione dell’acqua marina. E’ pensata per un consumo locale, collettività, ristoranti. Sta riscuotendo grande successo in giro per il mondo: dopo l’installazione a Pisa sul Canale Navicelli, sui Navigli a Milano per Expo, nel 2016 è stata un’intera estate a Stoccarda, per una mostra sulla riqualificazione degli spazi urbani. Prossimamente approderà alla Triennale di Milano. Concettualmente riscuote molto successo e stiamo lavorando per proporla con precisione sul mercato di riferimento.

 

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Pnat sta lavorando sui residui tossici da discarica con Sei Toscana, gestore dei servizi di igiene urbana nell’Ato sud. Ci spiega a che punto è il progetto?

Abbiamo costruito un impianto sperimentale a Terranuova Bracciolini (Ar) utilizzando una settantina di ibridi di pioppo e salice per il trattamento del percolato da discarica. Il percolato è un residuo molto insidioso, che attualmente ha costi di smaltimento molto elevati. Pensi che viene rilasciato anche per cinquant’anni dopo la chiusura di una discarica. Ebbene, questi alberi riescono a rimuovere gran parte della sua componente inquinante. Alle piante somministriamo una particolare diluizione e alla fine del primo anno i risultati sono eccellenti. Gli alberelli crescono bene, addirittura più di quelli irrigati con la sola acqua. In sostanza gli inquinanti di natura organica vengono assorbiti e degradati, mentre i metalli pesanti (che peraltro sono presenti in modica quantità) li ritroviamo nella pianta, senza che questo comporti alcun danno. Consideri che i residui della potatura possono essere utilizzati per il compost. Andremo avanti ancora per un altro anno e poi lo trasformeremo in un impianto pienamente operativo.

State anche collaborando con il Comune di Prato per un progetto sulle alberature urbane. Di cosa si tratta?

Si tratta dell’utilizzo su larga scala di un nostro brevetto: sensori da mettere sugli alberi per dare indicazioni sulla loro stabilità, ma non solo. Questi dispositivi misurano anche i benefici che queste piante apportano alla comunità in termini di abbattimento di Co2, polveri sottili, raffrescamento dell’aria. Il Comune di Prato ha chiesto un finanziamento all’Unione europea su questo progetto, pensato non solo per mettere in sicurezza il proprio verde urbano, ma anche per misurarne il valore ambientale.

 

Foto:  il team Pnat da destra: Elisa Azzarello, Cristiana Favretto, Stefano Mancuso, Elisa Masi, Antonio Girardi e Camilla Pandolfi ,

 

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