Firenze – “C’è del buono in Scandinavia”: per significare che tra Danimarca e Finlandia, passando per Svezia e Norvegia, da quattro decenni alcuni nipotini di Dreyer, Bergman e Kaurismaki continuano a respirare da quelle terre una certa suggestione di cinema, ma sperimentando ognuno percorsi propri e con esiti diversi.
Kaurismaki e Hallstrom già da metà degli ’80, Von Trier e Vinterberg , da metà ‘90 con Dogma 95, e i più americanizzati August (97) e Arden Oplen ( 2009), fino al sorprendente Kuosmanen di due anni fa. Lo svedese Ruben Ostlund in questi anni sembrerebbe quello più determinato a sviluppare una sua idea di cinema originale e potente che osa uscire fuori dagli schemi, ma prendendosi anche i suoi bravi rischi e deragliamenti, come valuteremo poi per questo suo ultimo lavoro.
Si fa notare già 9 anni fa con Forza maggiore ( Tourist ) nel 2014 e già mette le sue migliori carte in tavola. Nel caso di specie può un giovane uomo per bene, raffinato, acculturato, con una bella moglie (per bene e acculturata) e due bambini bellissimi ed educati (forse troppo?) mostrarsi codardo istintivamente nel massimo momento di pericolo? Può “fuggire” derogando al suo istinto di genitore e sposo che gli direbbe di fare scudo con tutto sé stesso, invece di preoccuparsi di mettere in salvo solo il suo tablet ? Può, ci mostra bene Ostlund , proiettandoci quasi subito , e facendoci inquietare, in un effetto-treno- in corsa- alla Gare sul pubblico.
Siamo in un villaggio di montagna, e da una veranda dell’hotel il buon padre di famiglia assiste a uno smottamento di un slavina che arriva a sommergere la famigliola e gli altri clienti. Il padre fugge. Temiamo il peggio. Ma subito dopo vediamo che stanno tutti bene. Ma il perturbante all’interno degli equilibri familiari si è però fatto avanti. Il dubbio della moglie, il rimorso non risolto dell’uomo, i figli non si capisce se già incasinati prima. Comunque una crepa si è insinuata nello splendore troppo splendido d’una famiglia da Mulino Bianco. E Ostlund ci costruisce un film avvincente, ma anche angosciante, dal sapore dostoevskiano, perché ci richiama tutti a un qualcosa che tendiamo a rimuovere ed è doloroso riconoscere. La parte vile, miserabile, omissiva che si annida dentro di noi.
Tre anni dopo ( 2017) arriva The Square e vince la prima Palma d’Oro a Cannes. E qui Ostlund ci introduce con accurata perfidia in uno dei templi dell’evoluzione raffinatissima della cultura occidentale europea del primo quarto di secolo del millennio. Siamo a Stoccolma , la culla dello stato sociale, dei diritti, della cultura inclusiva. The Square ha tutti gli elementi per portare al massimo grado la cultura dell’abitare e del gusto della generazione dell’Erasmus, della multietnicità, della tolleranza. Il bosco verticale, l’Expo, la Biennale di Venezia, sempre più a transizione ecologica e sostenibile. L’Europa che vuole stimolare istallazioni e opere che siano propulsive di solidarietà e accoglienza , altruismo e condivisione.
Il protagonista è un quotato curatore di mostre e costruisce un gioiellino, The Square , uno spazio quadrangolare di circa 4 x 4 , confini delimitati per terra tra le pietre di un pavé. E l’effetto è davvero suggestivo e magnetico. Tutto emana armonia. Ma anche qui, come in Forza Maggiore, avviene quasi subito una crepa imprevista, con episodio disturbante. Per fare anche noi il verso a Ostlund, che approverebbe con innato senso dell’umorismo, verrebbe da pensare alla battuta di un popolare allenatore di calcio che diceva: “ io i miei giocatori li metto benissimo in campo. Solo che poi si muovono! (questi mariuoli)”.
La crepa in The Square avviene con un borseggio imprevisto ai danni dello stesso dominus del totem inclusivo e ai suoi bordi. Da quel momento tutto si sconvolge e soprattutto si allarga a una fantasmagoria di situazioni e di personaggi dagli effetti esilaranti e beffardi degni del miglior Bunuel. Presi di mira le esasperazioni dell’arte contemporanea, ma il bersaglio è con tutta evidenza l’intero occidente borghese liberal-chic-riflessivo-cool. E certi suoi esiti ridicoli. L’effetto nello spettatore è una strana sospensione del dubbio tra una beffa anche ai suoi danni, tipo Boris, tante sono le gag che si accumulano e invece il sardonico moralistico e ipocrita sottofondo con chiosa finale autocritica del protagonista in un messaggio vocale ci detta la morale.
E arriviamo ora a Triangle of Sadness. Altro trionfo a Cannes 2022 e Candidatura all’Oscar di marzo 2023. Qui il gioco al massacro dell’autore è ancora più manifesto. Siamo su un lussuoso yacht in crociera per le isole greche con quattro coppie di ricchissimi anziani clienti: Il panfilo è in realtà Il celebre Christina O. di Aristotele Onassis .
C’ è un magnate russo-con moglie e amichetta- che si autodefinisce il “re della merda” (produce concimi); poi, assistita da un servizievole marito, c’è una autorevole signora che dopo un ictus sa ripetere solo, emblematicamente, “In Den Wolken” (testa) tra le nuvole); la terza è una coppia di coniugi ingegneri che contemplano il loro catalogo di mine antiuomo con la tenerezza che si riserva ai loro gioiellini-pupi. Infine – dotato di escort – un solitario sviluppatore informatico di app per codici riservatissimi e internazionalmente strategici. Come interlocutore – mattatore il comandante del veliero, un Woody Harrelson calato felicemente nel ruolo di micidiale loro irridente webleniano dissacratore, duro e puro vetero-marxista, sempre in bilico tra i fumi dell’alcool e degli spinelli. È sempre nella sua cabina , sempre sbronzo, e uscirà solo per la cena obbligatoria col Comandante (cioè lui). Spassosissimi gli scambi all’interphono col magnate della “merda”, su capitalismo e social-comunismo, sulla storia della Russia dalla Rivoluzione d’Ottobre e sulle sue degenerazioni.
Ma, come in Forza maggiore e in The Square, la focalizzazione introspettiva è alla fine anche qui sul rapporto di coppia, illuminato e rovistato nei suoi chiaroscuri e ambivalenze, dove il confronto uomo-donna è attualizzato nella dimensione di una società che sbandiera a getto continuo emancipazioni e nuovi diritti (molte volte solo legittimi desideri) , ma corrosa nel suo fondo limaccioso dalla tabe dell’avere e delle cose, rispetto all’essere e le persone. In questi confronti Ostlund riesce ad avere una felicità espressiva e capacità d’empatia con tutti noi , perché arriva al cuore del perturbante rimosso mai così complesso e conflittuale della condizione umana del terzo millennio dell’Occidente avanzato.
In Forza Maggiore la coppia in crisi sulla codardia di lui; in The Square invece il fantastico confronto tra il curatore creativo e la giornalista incalzante e che non fa sconti nemmeno sul terreno erotico-sentimentale: due carenze a confronto, col narcisismo infantile, con tratti ossessivo-compulsivi di lui, e sindrome latente dell’abbandono da parte di lei; in Triangle of Sadness, invece c’è la coppia di due bellissimi modelli, Carl e Yaya, coppia asimmetrica, soprattutto nella percezione del maschio: sono invitati nella crociera in quanto lei è un’influencer famosa e di tendenza cool, che guadagna molto più di lui; lui ha anche il marchio incipiente del c.d. “ triangolo della tristezza”: tra un sopracciglio e un altro la crepa sottile di ruga che lo renderà tra poco “fuori mercato”. La “smarginatura” di quest’asimmetria “di forza contrattuale” si gioca sulla frustrazione di lui e sulla tremenda inquietante e insostenibile scena sul conto da pagare alla fine della cena, dove lui continua a tornare per principio: Ostlund sa scovare il tanto non detto, non nominabile, che avvelena e contamina di competizione e utilitarismo meschino anche gli amorosi scambi tra un maschio e una femmina, seppur bene assortiti in partenza.
C’è da dire che in tutti e tre i film dello svedese, le donne risultano, pur nelle loro insicurezze, molto più intense e coraggiosamente franche rispetto agli uomini: la moglie ferita dalla defaillance del marito in un momento topico; la giornalista che mette a nudo l’ingaglioffirsi paranoico del brillante curatore di mostre, sottraendogli la deposizione del preservativo usato dopo il rapporto e facendogli confessare che non si ricorda nemmeno il nome di lei. Meravigliosa ironica Elisabeth Moss, bassina bionda e fiammeggiante tra goffaggini e lampi di intelligenza, laddove in Forza maggiore spiccava di suo la delicata norvegese Lisa Loven Kongsli, zigomi alti e sguardo profondo e a volte assorto.
Ma indimenticabile sopra a tutte resta per forza Charlbi Dean, la bellissima sinuosa silfide castana Yaya di Triangle, perché la fine della sua parabola umana è anche incredibile metafora del film : Charlbi , sudafricana top model, destinata a un luminoso futuro di attrice carismatica, è infatti scomparsa pochi mesi dopo il trionfo a Cannes, a soli 32 anni. Era New York ed è stata uccisa da una setticemia fulminante indotta da un batterio fatale per le sue precarie difese immunitarie: aveva subìto anni prima l’asportazione della milza per un incidente stradale. Il Caso riproposto a la Kieslowski ? Una fine straziante e beffarda , che richiama in modo profetico la fine del suo personaggio, unica vittima sacrificale al termine del film.
Yaya resta qui il personaggio più “umano” e meno stereotipato: un’ influencer non solo dell’effimero, e i suoi occhi di velluto sono attraversati dal mix di tristezze e incertezze rispetto a un sentimento amoroso che riteneva più profondo di quanto il suo uomo manifesti ora. Lei, malgrado tutto perdona il tradimento “prostitutivo” del suo fidanzato, e rimane ancora fiduciosa della vita e della gente, tanto da farsi accompagnare ignara da colei che alle sue spalle alzerà la grossa pietra che le sfonderà il cranio. Ma Yaya è ferma lì, nel suo voltarsi indietro, e sbarrare gli occhi, nell’ultimo fotogramma con cui si chiude improvvisamente il film, speranzosa sino ai suoi probabili ultimi attimi di vita, che Carl, finalmente pentito e resipiscente, arriverà a perdifiato a salvarla prima che la sua carnefice calerà la pietra sul suo capo.
Non sappiamo cosa succederà. Quello che succede invece prima nel resto della story , malgrado la sua rutilanza e pretenziosità , sinceramente ha il sapore di quanto un classico dell’estetica antica, Lo pseudo-Longino, definiva “gonfiezza”: una delle tante categorie insuperate di quest’opera. Come anche quel “para-tirso”, che si merita Triangle: cioè indurre scene per produrre emozioni che in realtà non emozionano, tanto per “épater le bourgeois”; nella scena madre della cena col Comandante , il mare agitato fa sì che gli attempati ospiti , vomitino con lo champagne e le ostriche anche l’anima e le budella, affogando poi nel loro stesso vomito e deiezioni varie, in modo misero e ridicolo, invadendo ogni anfratto del panfilo di effluvi disgustosi.
Ma se scene simili ne La Grande Bouffe di Ferreri esprimevano la cupio dissolvi – grottesca e comunque intrisa di terribilità – della nera parabola di un eros annientato alla fine dal thanatos nei quattro personaggi del film, qui invece sul panfilo di Onassis non smuove nemmeno Schadenfreude (gioia maligna) da tanto degrado della società opulenta, perché non c’è mediazione simbolica adeguata, troppo pacchiane e pretestuose le intenzioni di rappresentazione nella deriva dei ricchi. E dire che invece in The Square Ostlund è capace per tale fine di ben altra raffinata sapienza registica e di scrittura : quando cosparge , con un crescendo di scene esilaranti, lo sviluppo delle contraddizioni e dei vicoli ciechi dell’arte contemporanea, ci trasmette tutto il non sense insito in certi eccessi. Che poi rimandano a quelli della intera civiltà occidentale. Ma lo fa con una sapiente sofisticata eccedenza culturale, giacché tutte ‘le scene delle beffe’ sono cucite tra loro e ricevono un vero senso unitario nel sottotesto dei sublimi vocalizzi operati dal grande Bobby McFerrin . Un qualcosa del genere fa Sorrentino ne La Grande Bellezza.
Poi la terza e ultima parte di Triangle: alcuni naufraghi approdano di fortuna in un’isoletta sperduta: i pirati avevano prima rapinato e poi affondato il panfilo. Dovrebbe essere una specie di apologo della rivincita degli “ultimi”, i manovali dello yach , nella figura dell’addetta alla cucina, Abigail, che essendo l’unica a saper far qualcosa come accendere il fuoco, procurare cibo e cucinarlo , prende il potere e schiavizza in cambio Carl a fornirle quotidiane prestazioni sessuali.
Di questa rinnovata dialettica “servo-padrone” basterebbero venti minuti e invece Ostlung allungo il brodo per un’ora. No, questa volta , pur dando anche qui prova, in vari tratti, di qualità e invenzioni registiche , dobbiamo riconoscere che, prima di questa nostra recente seconda visione , non avevamo colto – presi dal “tifo” comunque per questo brillante autore – che si fosse spinto “alla deriva” anche lui , con questa sua pletorica sparata sulla deriva dell’Occidente. Sbracando. Ha nella faretra ben altre frecce per l’arco e un suo patrimonio di cinema introspettivo, ma anche universale , che sa davvero parlarci di noi dall’interiorità, più vicino alle questioni del Decalogo e Tre colori di Kieslowski che a un altro Diego Fusaro. Ruben O. non ha ancora 50 anni , è colto e ben motivato. Una settimana fa nel penultimo L’Espresso ha annunciato le riprese autunnali del suo prossimo film . Dal titolo sparato dal magazine “ Ora basta coi ricchi”, e da quello effettivamente scelto, sembrerebbe promettere bene : “ The Entertainment System Is Down” , laconico avviso che su un aereo di linea transoceanico , e nella classe economica, i sistemi digitali sono improvvisamente tutti in tilt: non sono i ricchi ora a essere presi di mira, ma la gente comune di varie età, sesso e ceto. E a osservare le loro reazioni di panico e insostenibilità nell’ essere deprivati della “connessione” possibile e vitale da essi ritenuta unica e insostituibile nelle loro vite. Niente di familiare nei nostri dintorni?
Ostlund è partito da un serissimo ed esteso esperimento psicologico: due terzi dei maschi e un terzo di femmine, piuttosto che rimanere fermi in una stanza senza far niente da 6’ a 15’, optavano per una scarica elettrica non dannosa ma molto dolorosa. È quindi sempre nel sondare il perturbante e l’innominale che è in noi, che l’aspettiamo, interessati. Non a sbragare invettive a buon mercato contro il sistema. Quello lo sanno fare tanti.