Firenze – Perché dopo aver visto i Fratelli Karamazov si esce dalla Pergola con una sensazione di inadeguatezza di fronte ai terribili dilemmi che ci pone il capolavoro di Dostoevskij? Confrontarsi con i grandi interrogativi della natura umana, il senso della vita e l’esistenza di Dio, in questi tempi così irrimediabilmente meschini del possedere e del godere, sembra quasi fuori moda, addirittura “non politicamente corretto”.
Eppure quelle domande senza risposta sono necessarie per dare un po’ di dignità al nostro essere provvisti di ragione e devono essere costantemente riproposte anche grazie a operazioni culturali come la versione che ne hanno fatto Glauco Mauri e Matteo Tarasco in scena in prima nazionale al teatro fiorentino.
Allora andiamo fino in fondo e accettiamo la sfida scambiando qualche idea con chi cerca tenacemente di tenere in primo piano questo livello alto e altro del nostro flusso quotidiano di parole e pensieri. Dostoevskij, ha scritto Sergio Givone nel suo ultimo libro “Quant’è vero Dio”, mette l’uomo di fronte a un aut – aut: o il cristianesimo o il nihilismo.
I personaggi di quel “dialogo teologico con delitto” allestito dalla Compagnia Mauri Sturno sono la personificazione di questa alternativa radicale nelle sue diverse articolazioni. Ivan, il nichilista razionale; Aleksej, l’ingenuo e fragile ricercatore del sentimento religioso; Dmitrij, deviante passionale; Fiodor, il padre corrotto e debosciato; Smerdjakov, Katerina e Gruschenka, gli esecutori materiali del male e del bene che proviene da quei personaggi.
Intanto bisogna distinguere fra ateismo e nichilismo, suggerisce Givone: “L’ateo nega Dio ma lo afferma, mentre il nichilista lo afferma per negarlo, togliendo di mezzo ogni riferimento alla trascendenza: invita a pensare l’essere così com’è”.
In poche parole Dio non serve, basta la scienza e il comportamento razionale: “La scienza è l’unica autorizzata a dirci come stanno le cose: veniamo dal caso e andiamo verso il nulla”. Con tutto ciò che ne consegue e in primo luogo un’assunzione di responsabilità: io sono alla radice dei valori, dunque colui che costruisce un senso possibile.
Ma davvero la verità si lascia declinare solo al singolare?, si domanda il filosofo. Esiste un altro tipo di risposta che è contenuta nella storia dei Karamazov. “La verità della scienza potrebbe coesistere con un’altra verità, declinata non al presente ma al futuro, che dice che è possibile che in un tempo di là da venire quello che ora appare insensato si riveli carico di senso”.
Questa è l’essenza del messaggio di Dostoevskij: “Trovare la felicità nel dolore non vuol dire strumentalizzare il dolore per espiare o per diventare più buoni – dice ancora Givone – ma c’è una una ragione più misteriosa che si rivela alla fine: sullo sfondo del puro non senso spunta qualcosa, un sorriso, il riconoscimento di un vero sentimento d’amore, qualcosa più forte dell’assurdo”.
Da qui l’importanza dell’operazione di Mauri-Sturno. I fratelli Karamazov è un’opera di attualità perché “tira fuori un filo perduto nel groviglio di tutti gli altri fili che portano da tutt’altra parte e che potrebbe rivelarsi il filo d’oro del senso possibile della vita”.
Mauri dà una dimostrazione della sua grande arte nel ruolo di Fiodor Pavlovic Karamazov, canaglia anche simpatica, ubriacone e dissoluto, falso e bugiardo. Roberto Sturno è convincente nella parte di Ivan, anche se il racconto del Grande Inquisitore raggiungerà una vera maturità artistica nel susseguirsi delle rappresentazioni.
Bene tutti gli altri: Pavel Zelinkij (Aleksej), Luca Terrracciano (Smerdjakov), Laurence Mazzoni (Dmitrij), Paolo Lorimer (Starec Zosima), Giulia Galiani (Katerina Ivanovn) e Alice Giroldini (Gruschenka).
La regia lineare ed essenziale di Tarasco con le scene di Francesco Ghisu e i costumi di Chiara Aversano, accompagna con discrezione e aiuta la comprensione del dramma dei Karamazov
(fino a domenica 3 febbraio)
Foto: Glauco Mauri