Firenze – Cerchiamo il nostro posto per tutta la vita. Può essere dove siamo nati, ma può essere altrove, anche molto lontano; a volte è ovunque, nel mondo. Per Clara Vannucci, giovane fiorentina doc, forse è nei progetti che la portano a cercare risposte nei luoghi dove la vita non scorre liscia, dove è difficile capire cos’è «casa».
Il suo babbo, come spesso succede, le insegnò a far foto e lei, sedicenne coraggiosa, nel corso di una vacanza con la famiglia fece i suoi primi scatti in bianco e nero, su rotolino di cellulosa, e poi espose il suo lavoro. Comincia così la storia, ancora oggi in prospettiva, di una giovane e già famosa fotografa che fra i suoi tanti progetti mette in primo piano le persone che finiscono ai margini della società. I suoi scatti non contemplano l’illusione della bellezza patinata, ma l’odore forte della vita vera.
Come ti è venuto in mente di fare questo mestiere?
Mi proposero di fare una mostra dei miei primi scatti, fatti in un viaggio in Etiopia coi miei, in un locale di via Panicale che ora non c’è più. Poi mi iscrissi ad architettura, disegno industriale, decidendo di non fare scuole di fotografia. Avevo deciso che avrei provato a fare quel lavoro, e così partì il mio primo progetto, sul teatro nel carcere di Volterra, pubblicato su varie riviste internazionale. Quel progetto, sul lavoro di Armando Punzo, partì nel 2007 e non è ancora finito, è a lungo termine.
Poi cosa è successo?
A 23 anni mi sono trasferita in America e ho iniziato a lavorare nelle carceri là, a New York, con Donna Ferrato, grande fotografa americana famosa per progetti sulla violenza domestica. Lei mi propose un lavoro su Rikers Island, l’isola carcere fra il Queens e il Bronx dove vengono messi i detenuti in attesa di processo. Lì ho iniziato a lavorare nella sezione donne che avevano commesso crimini dopo essere state oggetto di violenza e ho fatto partire dei progetti che porto avanti tuttora. L’ultima storia che ho seguito è quella di una donna che ho conosciuto nel 2011 quando aveva ucciso il compagno nonché padre delle figlie; uscita dal carcere mi ha contattato per raccontare la sua storia e così ho fatto, lei ha scritto ed io ho scattato
Quando sei partita per New York avevi già deciso di fare professionalmente questo lavoro?
Avevo mandato mille mail a tutti quelli con cui avrei voluto lavorare, e sono andata poi a lavorare alla Magnum (una delle più importanti agenzia fotografiche del mondo. Fondata nel 1974 da George Rodger, Henry Cartier Bresson, Robert Capa, David Seymour e William Vandivert n.d.r.) dove conobbi dei fotografi molto importanti, fra cui Paul Fusco e in particolare Donna Ferrato, che mi ha dato un’impostazione con cui continuare il progetto del teatro in carcere, che avevo appunto iniziato in Italia.
A quel punto il teatro in carcere è diventato il tuo più importante progetto?
Si, vivevo a New York ma ogni tre mesi tornavo a Firenze e portavo avanti il lavoro iniziato a Volterra.

Come hai conosciuto Punzo e il suo impegno?
Lavoravo come fotografa in un gruppo di teatro (OSA Teatro) che faceva documentari su tutte le realtà dei carceri della Toscana, e quando vidi quella di Punzo capii che si era su un altro livello. Mi sono innamorata del suo lavoro e l’ho fatto uscire ovunque, in Europa e in America
Cosa pensi, in generale, del teatro in carcere?
Penso che in tanti casi sia, oltre che una questione di rieducazione, un vero e proprio tentativo di professionalizzazione del detenuto, per reinserirlo poi nella società civile, come per esempio è successo con Aniello Arena, che è diventato un attore professionista, protagonista di vari film, dopo aver scontato 30 anni di carcere.
Scrivi qualche volta i testi dei tuoi progetti fotografici?
A volte sì, a volte propongo delle storie a delle riviste (collabora col New York Times, Vogue, Vanity Fair, I Meridiani ,D e altre n.d.r.), e sono storie molto più fotografiche che scritte, ma il più delle volte le riviste mi assegnano dei giornalisti che scrivono il loro pezzo, oppure anche può succedere che gli editor mi assegnano un compito, di fotografare un luogo preciso, poi c’è un giornalista che scrive, o ha già scritto, il pezzo. Ci sono anche le occasioni in cui il lavoro è condotto insieme col giornalista: partiamo insieme per dei viaggi e facciamo il pezzo come vogliamo noi. È uno dei lavori che preferisco (purtroppo ora fermo a causa delle misure contro la pandemia) perché mi permette di vedere posti che altrimenti non avrei mai visto.

Il tuo compagno (il regista Manfredi Lucibello n.d.r.) ti segue qualche volta in questi viaggi?
Abbiamo fatto dei progetti insieme, per esempio un documentario sull’Eritrea nel 2016, pubblicato poi su Time, ma in genere tendiamo a tenere separati i nostri impegni
State insieme da tanti anni, non è facile tenere insieme una coppia con questi continui trasferimenti
Ora il lockdown ci ha aiutato tanto in questo senso. Un po’ avevo anche bisogno di fermarmi, ero arrivata a febbraio stanchissima dopo viaggi impegnativi e convulsi, saltando da un fuso orario all’altro. Tuttavia questo periodo sta durando troppo per il mio lavoro: sono saltati dei progetti che non recupererò mai
Torniamo all’America. Oltre al progetto sulle detenute che avevano commesso atti di violenza in seguito ad abusi, ne hai fatti partire altri?
Ho lavorato a un libro sul «bail bond», il sistema della cauzione, che muove un giro di soldi immenso e di cui in Europa non sappiamo nulla. Se non hai soldi tuoi per pagare una cauzione, o vai in casa circondariale o chiedi aiuto al garante di cauzione, il bail bondman, al quale dai, per esempio, la tua casa in ipoteca e lui garantisce per te. Ci sono dei veri e propri negozi per questo.
Quando sei libero su cauzione devi rispettare determinate regole, se non le rispetti torni in carcere. Ma se non ti trovo assumo un cacciatore di taglie, come nel vecchio West. Io ho lavorato con queste figure, facendo esperienze incredibili, andando con questi cacciatori a stanare le persone ricercate, col giubbotto antiproiettile, trovandomi talvolta in situazioni di grande tensione. Questo lavoro era stato commissionato da Fabrica, il cui direttore aveva accettato di farmi proseguire ciò che avevo iniziato in America, e che poi è stato pubblicato come libro e come reportage su varie riviste. Ho conosciuto anche un bail bondman italiano, torinese, che viveva in Arizona e che mi aveva contattato dopo aver letto il libro: ne nacque un servizio che fu pubblicato su Vogue
C’è un lavoro fra tutti quelli che hai fatto che sia stato particolarmente interessante per qualche motivo?
Il documentario sull’Eritrea, dove sono stata con Manfredi, mi ha davvero colpito molto. Ci siamo stati oltre un mese, e sembrava di essere tornati indietro nel tempo, agli anni ‘50, soprattutto per l’architettura, ma anche perché gli eritrei parlano italiano e mantengono ancora molte usanze italiane. È strano per chi viaggia nel mondo ritrovare l’Italia all’estero.
In che forma poi si è realizzato questo documentario?
C’è stata una mostra che ha girato da diverse parti, poi varie pubblicazioni, dal Time Magazine ad altre
Progetti futuri?
Da giugno ho ricominciato a lavorare, ho fatto un lavoro questa estate sul carcere dell’isola di Gorgona, e lavoro tanto in Italia per varie riviste, con la paura che si richiuda tutto. Sono un po’ preoccupata e sto molto attenta. Ci sono progetti nella mia testa ma non ne parlo nemmeno.
Tutte le foto sono di Clara Vannucci