Il colpo di grazia me lo ha dato il fotogramma del neo eletto Presidente della Repubblica, statuariamente canuto nella sua panda grigia, in un’uggiosa giornata romana di fine inverno.
L’altro colpo, devo dire ben assestato, lo avevo già ricevuto nell’unico luogo nel quale mai mi sarei aspettato di riceverlo. Un luogo nel quale i ricordi di infanzia e di gioventù mi avevano trasmesso il senso doloroso e silenzioso dell’eroismo e del decoro. C’ero stato, dopo tanto tempo, durante un’estate lignanese: in un caldo soffocante, le lastre della “Via Eroica” ribollivano come un miraggio nel mare di cemento, sfumando la sequela lontana di “Presente”. Le cicale non erano cicale ma mille punti in grigio verde ed il loro frinire si declinava nel “Cosa comanda signor capitano, adesso che siamo arrivati?” “E io comando che il mio corpo in cinque pezzi sia tagliato.” Al culmine dei cipressi, sulla sommità del Sei Busi, lontano, si udiva quasi sommesso “…L’ultimo pezzo alle Montagne perché lo ricoprano di rose e fior!”.
Ci sono tornato, a Redipuglia, in occasione della Messa da Requiem magistralmente diretta dal maestro Muti. Una desolazione, una rappresentazione da paese mediocre, grigio, appunto. Sedendomi in platea continuavo ad immaginarmi come sarebbe stato altrove celebrato un momento così solenne e così intimo per una Nazione, al cospetto di oltre centomila morti. E invece no, nessun onore militare, un abbronzato ministro della difesa arrivato alla spicciolata e l’inno nazionale degli Stati confinanti, con tanto di vessilli innalzati e sventolanti. Lasciando il revanscismo, esiste (o meglio dovrebbe esistere) il senso del gusto e dell’opportunità di immaginare altri momenti nei quali celebrare la ritrovata pace europea. Mi sono sentito tradito nel vedere sfoggiare innanzi ai sessantamila caduti ignoti all’uomo (ma noti a Dio) l’orgoglio di Stati che nei loro emblemi sfoggiano i simboli delle terre per le quali quegli stessi uomini hanno immolato la loro vita. Una pena infinita, una rappresentazione mediocre, un non sense fraternista. Un colpo mortale.
Leggo poi dell’idea progressista dei mirabolanti ragionieri di prima pagina del Corriere della Sera di fare del Quirinale un museo. Preferisco non commentare. Sarebbero infatti gli stessi geni che avrebbero voluto non celebrare i 150 anni dell’Unità nazionale con una giornata di festa per evitare di perdere ore lavorative; quegli stessi campioni che poi corrono ad osannare il pietismo culturale introdotto da tanti saggi recentemente editi sul Primo Conflitto Mondiale, non cogliendo l’importanza che ancor’oggi ha, in una Nazione affamata di lavoro, il ritrovarsi in simboli luccicanti ed in una liturgia civica. Il credere in un sogno, anche di simboli, magari di troni e non di tronisti.
E’ chiaro; mi sono rassegnato ad un destino da Paese mediocre, grigio come la panda del Presidente, scialbo come la pelosa straccioneria di tante celebrazioni ufficiali sparpagliate nel nostro Paese. Anche il Papa ha scelto, per vocazione culturale e (acuta) intelligenza personale, la strada della mediocrità, del basso profilo: telefona.
Di fronte ad un destino così crudele, di Paese triste e museale, riposti i sogni coronati, viene davvero da rimpiangere le generose farfallonerie del Cavaliere, le fiamme scintillanti delle serate di villa Certosa allietate da Apicella.
O tempora o mores!