Funeral football

Calciopoli: l’ira genitoriale del Rontani furioso

Bob Rontani

Il recentissimo scandalo sulle partite truccate con tentativi di avvelenamento e fuoriuscita stradale dell’intossicato di turno, portano inevitabilmente ad alcune considerazioni.

Premetto innanzitutto che poco m’importa dell’aspetto prettamente sportivo e disciplinare della faccenda: in questo caso le pene che verranno comminate (retrocessioni, sospensioni, multe ecc. ecc.) scalfiranno di poco tutto il caravanserraglio che si muove intorno al pianeta calcio. Questo non è che l’ultimo pentolone scoperchiato in ordine di tempo, e tranne qualche isterico tentativo nelle passate situazioni (leggasi quella assurda norma sulla responsabilità oggettiva), poco si è voluto risolvere.

La situazione della giustizia italiana (in primis ordinaria, ma anche sportiva) è quella che è. D’altronde siamo in una realtà oggettiva, strutturata, nella quale il calcio si trova come ogni altro tassello del quotidiano italiano, e non può fare miracoli. Ma se un pezzetto di indipendenza esiste ancora nella giustizia sportiva (ne dubito), qualcosa andrebbe davvero fatto. Partendo dalla base. Anche qui le cronache non dipingono un quadro esaltante: piccoli campioni che devono crescere, a tutti i costi, calpestando le elementari aspettative ludiche tipiche della loro gioiosa età. Genitori inferociti urlano dagli spalti invitando senza mezzi termini i propri a spezzare le reni all’avversario. Perché l’importante è vincere. Zero sportività, zero vergogna. E spesso, tra genitori drogati di speranze di contratti a tanti zeri, ci scappa anche la rissa. Basterebbe questo per spiegare il tutto: il papà (il mio modello di ispirazione) mena sulle tribune: allora io meno sul campo (e viceversa).

Allora se il modello fondante educativo, che parte dal padre ed arriva sublimato alla TV, con tanto di rubrichetta che mostra gli inganni dei superpagati di ogni serie, nel mezzo c’è lo spazio per tutte le storture educative sulle quali lì, con un pò di buonsenso, i singoli potrebbero intervenire. Il campioncino in erba, già abbondantemente sovraccaricato di responsabilità, totalmente sradicato dalla concezione di puro divertimento (e pensare che dovrebbe essere l’età della spensieratezza) approderà al Club con tanto di orgoglio paterno. E non dovrà fallire: pena un serbatoio di delusioni e rimpianti. I primi approcci ai club a 12, 13 o 14 anni comportano una serie di impegni tali, in termini di ore e di spremitura psicologica, oltreché fisica (da notare che si parla di giovani virgulti non ancora completamente sviluppati), che la prima a farne le spese è l’educazione scolastica. Certo, attualmente, la scuola non riesce a dar molto, ma qualcosa fa. I genitori, spesso, non hanno dubbi: precedenza al calcio. E da lì, la storia è ancora più lineare: i primi risultati sul campo, i primi emolumenti e la carriera comincia. Ma finisce, quasi sempre, l’adolescenza.

Alla fine (o se preferite all’inizio), contratti con molti zeri a qualche centinaia di individui, che mortificano un esercito di aspiranti . E lì, altro stress da gestire. Nel calcio odierno (qualche decennio fa la cose erano un pò diverse), arrivano atleti già condizionati da un contesto altamente selettivo sotto molti profili: raggiunta la vetta, non scandalizziamoci se i comportamenti di quest’ultimi non riescono a sposare gli elementi fondanti del calcio stesso. Lo spirito di abnegazione, di correttezza, il senso di squadra ( “ a mio figlio faccio fare calcio, sai gli sport di squadra insegnano così tanto…” se, ciao!..) di fair-play, il senso di appartenenza ad un club (lo spirito di bandiera di medievale memoria): tabula rasa. Smessi poi i panni dei protagonisti, dopo carriere con emolumenti sproporzionati e fuori mercato (non dimentichiamoci che i bilanci delle squadre di calcio si fondano su velleitarie valutazioni gonfiate a dismisura), dicevamo fuori dai riflettori, ex-campioni rivelano quello che sono: uomini monotematici, poco inseriti in contesti anche solo marginalmente culturali ed inevitabilmente attaccati a tenori di vita dai quali non riescono a separarsi. Per qualche migliaia di euro che finiscono in tasca, si passa sopra a tutto. Ciò non significa che non vi siano stati, o tuttora vi siano o che vi saranno atleti che invece possano portare con loro tutte le caratteristiche che io amo nello sport ed è anche vero che fa molto meno notizia una carriera post calcistica (vedi, tanto per fare il primo esempio che mi passa per la testa, l’ex portiere della Reggiana Lamberto Boranga, medico apprezzato e uomo assolutamente squisito), che i comportamenti “discutibili” del Balotelli di turno.

Non faccio di tutta l’erba un fascio, ovviamente, come tengo a sottolineare che molte società di avviamento allo sport del pallone continuano a privilegiare l’aspetto più ludico e gioioso dello sport più seguito al mondo, almeno nel nostro territorio. A loro tanto di cappello, non facendo fatica a credere quanto sia difficile confrontarsi, oggigiorno e ogni giorno, con le regole del business calcistico, del padre che spinge, della furbata ad ogni costo. Insomma a tante cose, meno che alle aspettative spontanee del ragazzotto pallonaro.

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