
La recente inaugurazione del Mercato coperto ha scatenato, more solito, un intenso dibattito dal quale pare impossibile sottrarsi senza accettare la disdicevole logica degli schieramenti pro-contro che poi, inevitabilmente, conduce chi porta argomenti critici a essere bollato con i consueti (e convenienti) epiteti detrattoriali.
Ma, in tutta franchezza, elementi di riflessione ve ne sono e sono piuttosto numerosi.
Il primo: con rare eccezioni, non sono presenti i prodotti tipici reggiani e tantomeno i produttori e i rivenditori, diversi dei quali inspiegabilmente esclusi.
Non sono noti i criteri di ammissione agli spazi e sarebbe un doveroso atto di trasparenza produrli almeno ora.
La partecipazione della Trattoria Rinnna è infatti temporanea, nonostante sia stata sbandierata come presidio di reggianità.
Mi domando e domando a voi lettori: come può il nuovo Mercato Coperto, nel centro della “food valley” (per essere compreso dai nostri amministratori anglofoni), uno dei luoghi dove si mangia meglio al mondo, essere definito un “eat & meet” (vedi sopra) dove sono presenti catene che nulla hanno a che fare con il territorio e, forse, neppure con la qualità?

Questa avrebbe potuto essere una grande occasione per creare come nelle vicine città una grande vetrina delle nostre eccellenze e della nostra cultura ma, e lo affermo con grande rammarico, così non sarà, anche se i conti dei gestori (stranieri) dovessero quadrare.
Il Sindaco ha definito il progetto “una scossa per il centro storico”, ma le domande cui egli non risponderà sono le seguenti:
– che cosa differenzia realmente un centro storico dai centri commerciali che ormai circondano tristemente le nostre città?;
– che cosa può preservarne la peculiarità e il desiderio di abitarvi e di frequentarlo?
– si ritiene che luoghi pieni di colore ma identici al duty free di un aeroporto qualifichino l’identità di un luogo o lo omologhino ai non luoghi fisici e mentali dove trascorriamo buona parte del nostro tempo?
Il secondo: si è riflettuto sul fatto che un bene pubblico è stato assegnato a una multinazionale per un periodo a me non noto che così realizzerà (forse) profitti su ciò che appartiene alla collettività?
Il terzo: essendo quasi tutte le catene non reggiane, gli incassi relativi non resteranno sul territorio. Mi permetto di azzardare una parziale risposta ai quesiti sopra riportati per ricordare una delle mie proposte, cadute purtroppo nel vuoto. Sarebbe stato un atto di coraggio e di visione non puntare sul commercio compulsivo soprattutto rivolto ai giovani, bensì sulle piccole botteghe artigiane.
Il loro lavoro a stretto contatto con la gente, la filosofia del riparare e del recuperare i beni, contro quella del consumo e dell’usa e getta, dell’uso dei piccoli spazi contro quella delle grandi superfici, è infatti prezioso e in controtendenza con chi ragiona quasi esclusivamente in termini di offerte commerciali tradizionali.
Sia chiaro, non mi auguro il fallimento economico del progetto: ma l’inserimento in un luogo storico e simbolico dell’ennesimo agglomerato desolante di catene commerciali in concorrenza con quelle all’esterno appare proprio un duty free da aeroporto, tanto per mantenere almeno una suadente intitolazione anglosassone.
Francesco Fantuzzi