Greve in Chianti, Figline /Incisa – Poggio alla Croce, un tranquillo borghetto chiantigiano, dal 2017 è stato protagonista di una delle migliori esperienze di accoglienza di migranti in Toscana. Il sistema di accoglienza italiano consiste nel distribuire i migranti il piccoli gruppi in tutto il territorio nazionale. Nel 2017 gli arrivi toccarono un livello record: a ottobre di quell’anno 191.000 le presenze nelle strutture di accoglienza, grosso modo due volte e mezza la cifra attuale di 76.000.
Di fatto le priorità sono dare una forma di sussistenza ai migranti e cercare di ridurre al minimo l’impatto del loro arrivo. I progetti di integrazione sono quanto meno labili. Poggio alla Croce rappresenta un importante esempio positivo. Un gruppo di abitanti ha costruito passo passo un rapporto con i migranti arrivando alla costituzione di una “scuolina” per una effettiva integrazione. La cosa ha avuto una certa risonza fra chi si occupa della questione. Merita attenzione. C’è chi la considera una riedizione della scuola di Barbiana di Don Lorenzo Milani. L’esperienza è raccontata da un bel documentario disponibile sul canale Youtube di TV2000 “Ubuntu. Io sono perché noi siamo” https://www.youtube.com/watch?v=hqv06BoAHoM&ab_channel=Tv2000it
Abbiamo deciso di farci raccontare quest’esperienza da Andreas Formiconi, uno dei principali promotori della scuolina di Poggio alla Croce.
Cominciano dall’inizio, come è nata questa esperienza della scuolina di Poggio alla Croce?
La nostra fu la reazione ad una reazione esagerata e incomprensibile, perché se no avremmo lasciato perdere. Per quanto mi riguarda la mia vita è già densa con tutte le cose che faccio con gli studenti, con i giovani. Io, contrariamente a quello di cui molti mi hanno accusato, lavoro per gli italiani. E lavoro tanto tanto per gli italiani e regalo tanto agli italiani. Non avevo intenzione di impelagarmi in queste tematiche che mi facevano anche paura. Se mi avessero chiesto «Ti vuoi occupare di mettere su una scuolina? Una scuolina per gli immigrati?», ovvero quella che poi si è realizzata, avrei detto «No! Ma nemmen per sogno! Non ce la fo, non ho tempo». Io non credo di dover avere un’opinione su tutto e dover assolutamente risolvere tutto. Avrei detto «No, grazie, chiedete a qualcun altro». Per di più ti dirò anche che io non sono buono, non mi interessa nemmeno ora esserlo, fra le mie priorità non c’è questo.
Poggio alla Croce è un paesino in cui sono amico con tutti, siamo 190 persone, dopo che ci stai trent’anni è come una famiglia allargata. Il problema è stato che mi vedo arrivare nella chat di WhatsApp che collega tutti gli abitanti questo messaggio «Abbiamo raccolto 230 firme contro». Più firme di tutti gli abitanti, probabilmente si sono mossi i parenti, gli amici. Le firme portate in Prefettura, un’operazione che a me parve subito insensata. So poco di queste cose, ma so che la Prefettura è semplicemente un organo esecutivo del ministero degli interni. Non è molto influenzabile con delle firme. Le ricevono. Ma è un organo esecutivo e le firme non sono servite a niente. Però io rimasi colpito e cominciai a telefonare, a chiedere agli amici del paese con cui siamo più in relazione. Di cinghiali e insalate parlo al bar con tutti, ma con alcuni ci sono più affinità. Cercai di capire. “Contro” che cosa? I migranti. Per me il migrante era quello che mi faceva ciao quando con la seicento del mio babbo si andava in Svizzera. Il babbo spiegava che erano italiani. Per me i migranti erano quelli. I migranti nuovi, che cos’è un migrante economico, che cosa è un rifugiato di preciso non lo sapevo, per come sono abituato a conoscere le cose. Un conto è essere informati, un altro è conoscerne le cose. Io non ne sapevo niente. Allora si disse «Perché non ci si trova dopo cena?» L’abbiamo già fatto per altre cose. Stavolta ci siamo trovati in una dozzina a farci domande «Ma cos’è un migrante economico chi è che lo sa?» Uno sapeva un brandello, chi un altro brandello.
Quindi all’inizio si trattava solo di aver chiaro il problema?
La notizia che a Poggio alla Croce sarebbe stato alloggiato un gruppo di migranti era venuta a ciel sereno. In paese c’è un edificio che chiamano “il palazzo”, nato come albergo ai tempi degli alberghi al Saltino, quando c’era gente che faceva la villeggiatura in campagna, cosa che oggigiorno non esiste più. Infatti tutti i proprietari che si sono avventurati a possedere questo coso si sono pentiti. Che fare di una struttura con quaranta posti letto su tre pian in un paese come Poggio alla Croce? Siamo nel Chianti, a seicento metri di altitudine, è bello, ma la gente va da altre parti. L’ultimo proprietario sentita la notizia che la Prefettura cercava posti del genere ha accettato la triangolazione. Come tanti altri. La triangolazione è fra albergo, prefettura e una cooperativa, che a quei tempi nel nostro caso era la Cristoforo. I tre si misero d’accordo. La cosa che era difficile da far capire alla popolazione. Non la capivamo nemmeno noi, ma l’abbiamo compreso ben presto. Il ministero degli interni aveva questo problema, collocare questi migranti disperdendoli nel territorio. Dice al suo braccio esecutivo prefetture «fate degli accordi con dei privati che posseggono immobili fase dei bandi con dei requisiti minimi di varia natura, dopo di che noi decidiamo chi mandare dove». Punto. Non è stato interpellato nessuno. Non era per nulla democratica questa cosa. Era inutile rivalersi con le amministrazioni locali perché erano tagliati fuori quanto noi. Li hanno sparpagliati nel territorio in dei modi anche vergognosi.
Anche voi eravate critici
Bisogna intendersi, noi ci siamo trovati, io in particolare, in acuto contrasto, con la Lega locale e questo è stato un contrasto imbecille perché io non stavo tentando di dire che ero favorevole agli africani. Il dialogo pubblico è stato così polarizzato in quel periodo per cui, immediatamente, o eri per gli africani o eri per gli italiani. È un modo completamente imbecille di vedere. Io mi ero posto il problema. Può sembrare brutto ma non me ne fregava niente degli omini neri o me ne poteva importare tanto quanto del figlio di un operaio italiano in cassa integrazione che fa fatica ad andare a scuola. Sono problemi. E quindi c’era quest’equivoco. In realtà, se diversamente non si fosse voluto giocare per motivi elettorali in maniera così proditoria alcuni argomenti della Lega erano corretti. Alcuni sicuramente: state dando soldi alla mafia alle mafie; in realtà state facendo un’operazione di puro tornaconto economico. Verissimo. Io non so in che misura sia vero, non sono in grado di dirlo, ma mi pongo la domanda. La percezione che ho avuto in questa attività di due o tre anni mi porta cioè mi porta a dire che stavano facendo un sacco di soldi un sacco di furbacchioni. Mettere 70-80 di questi ragazzi in strutture alberghiere che hanno occasione per lavorare d’inverno in borghetti abitati da 20 o 30 pensionati. Questi chiaramente sono terrorizzati. E poi magari i ragazzi stanno al freddo, gli danno una pastasciutta scotta in un piatto di plastica.
In questo equivoco micidiale noi che facemmo? Noi cominciammo a trovarci tutte le settimane e studiare questo problema, raccattare notizie, poi si decise di fare delle interviste perché salta fuori che a Palazzolo, un paesino a 5 km da noi, c’era un centro d’accoglienza da tre anni. Allora andiamo a sentire che fanno. Siamo nei mesi dopo l’annuncio, i ragazzi non erano ancora arrivati La vicenda delle firme scattò nell’aprile del 2017. I ragazzi sono arrivati nell’agosto. In questo periodo noi 12-15 ci siamo visti una sera tutte le settimane. Una volta si incontrava per esempio il portiere del CAF, del centro di accoglienza di Palazzolo, oppure il presidente del progetto accoglienza di Borgo San Lorenzo. Talvolta alcuni di noi andavano a trovare esperienze, per capire e imparare e così ci siamo auto formati in qualche misura.
Immagino che in paese che ci fosse questo gruppo in paese lo sapessero tutti, magari senza capire bene cosa facesse
Ormai si era già sparsa la voce che c’era un gruppetto di cittadini a favore degli africani capeggiati dal Formiconi. Così son diventato quello che vuole gli africani.
Ho cercato di spiegare, l’ho scritto l’ho detto. L’ho detto ai giornalisti. Non c’è stato verso. È stato molto angosciante e allo stesso tempo istruttivo, interessante vedere come oggi comunicare sia un’operazione estremamente complessa perché ci sono dei livelli di banalizzazione, di polarizzazione per cui occorre molta abilità e forse anche un bel po’ di fortuna per riuscire a far passare i messaggi come sono nelle tue intenzioni. Come cercare di acciuffare una calamita, ti scappa di mano. Ci sono concetti attrattori. È devastante.
Parallelamente ebbero luogo due o tre assemblee fra gli amministratori e i rappresentanti della Cooperativa Cristoforo e la popolazione. Siccome siamo a cavallo di due comuni c’erano due sindaci e assessori. Fu una terribile serie di assemblee. Mostruose. C’erano i carabinieri. Un giorno un carabiniere prese uno per la collottola e lo portò via. Si rischiava di andare alle mani. Questa era l’atmosfera.
La trasformazione delle persone mi lasciava allibito. Ad esempio la mamma trentacinquenne che ogni tanto avevo trovato in treno e che siccome sapeva ero un professore mi parlava della cultura eccetera e qui minacciava «Attenti a quello che dite perché vi metto in Facebook!»
Ricordo un’altra signora che diceva che sua figlia non sarebbe più potuta uscire, oppure un’adorabile vecchietta, che ora non c’è più, che aveva paura per la sua virtù. Erano queste le cose che si dicevano in paese. Questo immaginario dell’uomo nero è storicamente comprensibile. Abbiamo le coste piene di fortini perché c’erano corsari mori che potevano arrivare e fare razzie. Anche questo è molto interessante, queste cose son rimaste. C’era il terrore ti dico. La sorpresa da persone che sembravano tutte perfette, tutte democratiche. Ad esempio una delle affermazioni è fatte al barretto da un’altra giovanissima donna «Era meglio se veniva 30 buchi invece che 30 neri». C’è un mondo dietro questa affermazione.
La scoperta di questo mondo, e noi che si credeva d’essere in un altro mondo.
E poi?
E poi vennero questi ragazzi. In agosto. È arrivata silenziosamente l’astronave con gli omini neri. Il giorno dopo feci una piccola escursione. Andai sulla collina di fronte. Da lì si vede l’albergo. Avevo il binocolo e guardai. Non vedevo niente. Ogni tanto qualche faccina. La prima mandata saranno stati 25. Ventenni. Cosa poteva succedere?
Si fece una gran fatica a fare una prima riunione con questi ragazzi. Noi si volevano agganciare. A questo punto per curiosità, te lo dico francamente. Sono ricercatore e se mi si dà un problema apparentemente irrisolvibile mi eccito, sono curioso. Il gruppo di una dozzina di persone si era intanto allargato, non c’era una spaccatura netta con gli altri abitanti, c’era una zona grigia di persone più possibiliste. Una prima volta ci tocca disdire all’ultimo momento perché viene fuori il discorso «Sì, sì facciamo questa prova ma ai carabinieri chi telefona?» Chiamare i carabinieri per averli vicini perché non si sa mai. Non perché ci fosse un qualche obbligo. Macchè. Va bene la paura, ma per un primo incontro era troppo. Sono una persona benestante, che fa un lavoro meraviglioso, che avrà la pensione e mi devo presentare ad un primo incontro con un ragazzo che viene da chissà dove con un carabiniere accanto? Non è proprio accettabile. Quindi non trovandoci d’accordo si disdisse un primo incontro. Poi si fece, ma per dare un’idea dell’atmosfera dopo un anno, forse di più, che le cose andavano bene incontro un signore e sua moglie, molto per bene, benpensanti, iperreligiosi, e si parla di come va questa storia. Gli dico che si sta rivelando affascinante. E lui mi dice «Bene, perché effettivamente non ci sono stati mai problemi di ordine pubblico, i carabinieri non hanno mai avuto problemi». La lettura del fatto si limita a questo. Una cosa che non finisce di sorprendermi.
Per me la meraviglia di aver scoperto un universo. Proprio nel primo incontro che riuscimmo a fare ci mettemmo in cerchio. C’erano 13 di loro e noi eravamo un po’ di più, 15 o 17 non ricordo. Per iniziare si fece questo gioco: s’è attaccato un foglio al muro e con un pennarello si scrivono poche parole di presentazione. Cominciai e scrissi «Andrea, sono italiano, parlo italiano». Poi passai a quello dopo. Eravamo tutti mescolati, neri, bianchi, colorati. C’erano anche due americanine che aiutavano nell’agriturismo. Ognuno doveva andare lì a scrivere quelle cose. In quella giornata mi si è aperto l’universo perché mi resi conto in questi 13 ragazzi c’erano 10 lingue diverse, alcune delle quali non le avevo mai sentite nominare. Ho visto per la prima volta in vita mia dei veri analfabeti e mi sono reso conto che era facile riconoscerli perché tenevano il pennarello nel pugno. Si alza uno e fa un disegno, un geroglifico che riconosciamo come suo nome. La cosa sconvolgente è che ho saputo dopo qualche giorno che fra quei 13 uno invece era venuto via dall’Eritrea al quarto anno di matematica. Ci ho parlato due pomeriggi sull’integrazione delle equazioni differenziali di Newton per calcolare le orbite dei pianeti. In quei tredici! Capisci la cosa sconvolgente? Dopo qualche giorno mia moglie mi ha chiesto dove fossero in casa i romanzi in francese. Glieli aveva chiesti un altro che io pensavo fosse analfabeta perché stava sempre zitto e non si faceva mai avanti. Era solo timido, ma in realtà lui aveva fatto studi umanistici di filosofia in francese, la sua seconda lingua, e gli ho prestato “Il rosso e il nero” di Stendhal e “L’Emilio” di Rousseau che ho in originale. Fra questi tredici.
Così ho cominciato a dire che in realtà noi a Poggio alla Croce stavamo viaggiando nel mondo senza spendere niente. L’operazione che stavamo facendo era viaggiare, conoscere un mondo nemmeno immaginato.
L’avresti mai dette delle cose del genere? Però queste sono letture che se uno non le vuole assumere non le assume, c’è poco da fare, non c’è niente da fare è andato. Chi ha voluto è andato avanti, è nata questa scuola.
A quel punto è nata la scuolina per i migranti
Con i migranti direi. Stamani avevo le tesi. Si è laureata con una tesi di educazione degli adulti una delle studentesse che ha lavorato con me. La famosa narrazione che Formigoni lavora per gli africani è una grande sciocchezza. Con questa cosa ho veramente lavorato tanto per gli italiani. Abbiamo fatto dei due progetti della Regione e i soldi per circa l’ottanta per cento sono andati a questi miei giovani collaboratori per far fare loro l’esperienza di insegnamento in condizioni, diciamo così, estreme, particolari. Hanno imparato a scrivere progetti perché il secondo progetto l’hanno scritto loro con il mio aiuto. Hanno potuto provare a organizzare una cosa del genere, un’opportunità per gente che si occupa di educazione degli adulti. Infatti sono stato ricoperto di lodi dai miei colleghi, ora mi vogliono tutti infilare nei progetti perché questo è stato un lavoro strepitoso. Ho lavorato tanto per gli italiani. Queste ragazze stanno trovando lavoro grazie a queste cose qui e sono delle persone meravigliose. Alcune si sono spese in una maniera sorprendente. Una veniva da Pescia. Per due mesi due volte alla settimana ha fatto 160 km per fare due ore di scuola con questi ragazzi. Capisci lo spessore delle persone? E quindi in realtà ho portato benefici a italiani.
Adesso sono i miei colleghi che spingono per andare avanti. La scuolina stava un po’ declinando in questi ultimissimi mesi. È prevista una riunione a novembre per decidere che facciamo, se rilanciamo oppure decidiamo che questa è una bella storia che ha una sua fine. I miei colleghi però mi hanno letteralmente assalito dicendo che hanno idee, progetti, che dobbiamo mettere a sistema questa cosa. A questo punto intravedo qui la possibilità, anche se vado in pensione a novembre, di continuare a creare questo collegamento fra questo bacino di studenti di Educazione degli adulti, Formazione Primaria e educatori, che significa dai 300 ai 500 giovani l’anno, a cui attingere. Studenti che collaborano. La scuolina è stata portata avanti tantissimo da loro perché per loro è formativa. Anche se aderisce una piccola percentuale, una manciata di una decina di persone si formano attraverso questa esperienza. Si può creare un circolo virtuoso che aiuta a risolvere problemi. Problemi che non è il mero imparare l’italiano, può essere accompagnare, aiutare a fare il curriculum eccetera
La scuolina di Poggio alla Croce poi ha traslocato..
Il centro di accoglienza Poggio alla Croce è durato fino al 2019, poi è venuto meno il contratto fra proprietario dell’albergo, la cooperativa Cristoforo, che si è ritirata da questo settore, e la prefettura. Questi ragazzi sono stati semplicemente distribuiti a Firenze. A quel punto ci eravamo consolidati, ci siamo fatti una cultura e una rete di relazioni. Prima io non conoscevo il terzo settore, non ne sapevo proprio nulla e non conoscevo nessuno. Quindi nel 2019 avevamo voglia e potenzialità per continuare. Il COSPE era molto in linea con tutte queste cose, ha dei bei locali adatti. Per cui a quel punto facciamo la proposta: siccome i ragazzi sono a Firenze perché non venire da voi? Loro sono stati entusiasti, c’erano offerte di volontari locali, hanno collaborato anche con loro personale. Queste ONG sono piuttosto liquide, sono posti dove ci sono molti volontari di passaggio, sono organizzazioni dinamiche. Ci hanno poi coinvolto in dei progetti, aiutandoci, comprato dei computer. È stato molto bello, abbiamo fatto anche dei workshop artistici.
Poi è arrivato il Covid. Uno sconquasso, figurati una scuola di prossimità basato sul contatto uno a uno. Altro che batteri, lì si condivide tutto. Allora si decise di provare online. Siamo passati brutalmente dagli incontri faccia a faccia, uno a uno, agli incontri online. Dal 23 marzo 2020 ad ora sono state fatte più di una lezione di un’ora al giorno tutti i giorni. Tutti incrociati, cose del tipo Carla in contatto con Ali e Bakar, Francesco invece con Sako e Samba, sempre con questo spirito di affrontare assieme problemi. Molto spesso loro vogliono prendere la patente quindi li aiuti a imparare l’italiano e fare questi quiz. Oppure c’è quello che deve fare il colloquio di lavoro per fare il saldatore eccetera eccetera. L’atteggiamento è essere disposti a insegnare ciò che ti serve dell’italiano volta volta per il prossimo obiettivo rilevante della tua vita. È il modo di insegnare che funziona meglio: imparo per risolvere il problema che ho in mente. Qualcosa che è significativo per me ora. Quando non capisci perché lo impari come parte della scuola: le proteste per le poesie a memoria, che me ne farò del latino. Quello no, quell’altro no. Se tu ne vedessi un chiaro vantaggio per te domani o domani l’altro. Noi umani siamo fatti per imparare, però tendiamo ad imparare ciò che ci sembra utile. Anche questo è abbastanza sano.
Così questa scuola è andata avanti. È ancora adesso on-line. Entro la fine di novembre dovremo ritrovarci e provare a vedere come possiamo eventualmente continuare.
Questi ragazzi sono attrezzati?
Adesso tutti hanno il telefonino. Quel telefonino mette in rapporto con il mondo. Non esiste assolutamente un giovane che viene in questi paesi, che affronta queste cose senza. Io associavo lo smartphone a costi elevati e ho capito che sbagliavo. Infatti in questi mesi ho girato con uno smartphone che ho pagato qualcosa come 40 euro. Ho scoperto che ci sono aggeggi così. Se vai in questi negozietti, specialmente quelli gestiti dai pakistani, cingalesi, ne trovi. C’è sempre Android dentro, c’è gmail, quindi siamo tutti cittadini di Google di fatto. Cosa perversa ma è un fatto di cui tener conto. Quelli più vispi che ho conosciuto hanno perfettamente capito la valenza di questi strumenti, sanno perfettamente che cosa sia il cloud oggi. Sanno che il telefonino glielo possono rubare ma non gliene frega niente. Nel posto dove approderanno la prima cosa che fanno, prima di andarsi a comprare un paio di mutande nuove, prima di tutto, è cercare il cellulare da 30 euro che abbia Android. Dopodiché hanno i loro account e ripartono con i loro contatti Facebook. Subito. Un amico pakistano aveva 5000 contatti, il massimo. Contatti con pakistani di tutto il mondo per cui se va a New York sa a chi rivolgersi, se va a Stoccolma sa chi rivolgersi. Sa perfettamente come recuperare. Nel viaggio in Africa figurati se gli lasciavano il telefono. Appena arrivato in Italia ne ha preso un altro, ha rimesso i suoi dati, agganciato tutti i suoi account ed è ripartito ugualmente. Lo smartphone non è un lusso, è la sopravvivenza. Loro così trovano lavoro, alloggio.
Poi bisogna fare delle differenze, c’è molta diversità fra queste comunità. Questo comportamento che ho descritto direi che è standard in comunità come quelle dei pakistani dei bengalesi, che sono più furbi, più accorti, più vispi. I telefoni li hanno anche gli altri, gli africani, ma molti africani che ho conosciuto sono culturalmente diversi, molto più fragili quando vengono qui. Queste sono affermazioni a spanne molto molto grandi, e mediamente, dove il nostro mediamente è costituito da senegalesi, maliani, qualche eritreo, ma non tanti, Nuova Guinea, Ghana.
Del Congo conosco il prete, acculturato ma simile per certi aspetti a loro. È uno che ha fatto la scuola secondaria e l’università belga in Congo, sa autori francesi a memoria e sa anche a parlare in latino. Eppure uno così non ha malizia. Un uomo estremamente intelligente ma non ha la malizia dell’occidentale bianco. Almeno quella che alligna dalle nostre parti. Fa fatica a pensar male.
Cerco di spiegarmi. Tieni presente che lui è nero, proprio nero nero. Dopo secoli di parroci italiani ne arriva uno del Congo! Immagina come può aver reagito della gente all’idea di farsi confessare da un nero. Ma siamo pazzi!? eccetera eccetera. Allora, quando lui viene a trovarmi o io vado a trovare lui si beve un bicchiere di vino. Siamo adulti, si può fare, è normale, con questo non siamo ubriaconi. Invece le malelingue stavano espandendo la voce che visto che accetta il vino forse è un avvinazzato, un ubriacone. La perversità era offrire, insistere e poi dire che beve, che gli piace bere. Lo avvisammo «Stai attento perché tu lo fai per cortesia ma ti si può ritorcere contro». Rimase sconcertato. Non se lo poteva immaginare. Mi resi conto che riteneva inconcepibile che qualcuno potesse offrire il vino e poi dopo dire che era un avvinazzato. Mentre io non me ne stupivo per nulla. Sono strade in salita.
Poi ci sono delle problematiche di inserimento da un punto di vista, come dire, tecnico. In questo nostro mondo la pianificazione nel futuro è cruciale, la capacità di pianificare la giornata, la settimana prossima, mettere le cose in fila considerando se una ci sta, quanto dura. Questa cosa quanto mi durerà? Sei ore, ce l faccio, oppure non c’entra e la devo mettere domani l’altro? Molti vivono sul presente. Cascano dalle nuvole quando il fare una cosa risulta incompatibile con farne un’altra. Non sono abituati a questa pianificazione della vita. E questo rende molto faticoso stargli dietro. Vale anche per le procedure burocratiche, i documenti. Pezzi di carta.
Spesso sono i datori di lavoro che provvedono a questo perché sono locomotive per i lavori che i nostri figli non fanno, sono dei collaboratori strepitosi. I datori di lavoro allora non li mollano e questo aiuta molto quando si integrano bene. Altri invece restano indietro, continuano ad avere lavori più sul precario. Diventa difficile seguirli, aiutarli. I nostri ragazzi li conosciamo, li abbiamo seguiti, sono quasi tutti sistemati ora. Direi che i quindici-venti che hanno seguito regolarmente la scuolina, che ci hanno frequentato in maniera un po’ significativa, sono tutti sistemati, qualcuno molto bene. C’è uno che ha fatto il saldatore, poi è entrato in officina, è diventato amico del principale e non mi stupirei sono giorno rilevasse l’azienda.
La scuola è andata avanti e può proseguire perché spinta sia dagli stranieri che dagli italiani
Un’affermazione che poi è diventata uno slogan è “noi abbiamo bisogno di voi”. Sembra una provocazione buonista. «Ma quando mai, ci rubano e basta». Invece si è rivelata profondamente vera. C’è gente che si è intristita quando un’attività è finita. È una forma di terapia. Feci un intervento a psicologia insieme a un etnopsichiatra, uno specialista che studia e si preoccupa non della singola persona ma della comunità, quando la comunità si ammala. Si occupa di immigrazione perché quando arrivano le ondate migratorie si infiamma il tessuto umano, crea anticorpi e allora l’etnopsichiatra arriva, per così dire col camice da medico, per cercare di quantomeno di trovare un antinfiammatorio. Ha lavorato tra l’altro anche a Riace. Meglio se si agisce sulle cause, ma questo come al solito è più difficile.
In quell’occasione raccontai la nostra storia e lui si entusiasmò. Disse che eravamo un caso concreto della sua teoria dove però avevamo avuto curiosamente la capacità di curarci da soli. Che in realtà avevamo agito con l’idea della cura. Era vero, era effettivamente ciò di cui mi ero reso conto. Avevamo reagito con una forma di cura della comunità, cercando di blandire le pulsioni negative e mettere in luce gli aspetti positivi, evidenziando che avevamo ricavato anche dei vantaggi materiali.
Guarda quanta gente ha partecipato: 616 al 10 novembre di quest’anno. Le persone hanno dato un contributo temporaneo. Questa cosa si adatta bene per la natura della dell’azione didattica di questo tipo di scuola che è uno stare su una perenne emergenza. Affrontare un problema per volta quando emerge. Non si deve finire un programma, non si deve arrivare a fare la letteratura italiana e poi c’è l’esame. Ogni giorno si fa ciò che serve. Saltano fuori abbastanza facilmente delle connivenze, per cui Roberta lavora molto bene con Jamal, ma per esempio a un certo punto Roberta sparisce, poi le subentra Carletto. Magari lì per lì all’inizio occorre un aggiustamento, però poi si riparte abbastanza bene. Con questo tipo di lavoro, molto liquido, molto fluido, questo continuo ricambio non è un grande problema perché genera una grande ricchezza di approcci, ognuno porta un po’ di sé. È un fiume, quindi passa sempre, turbolento e ricco di energia. L’ho visto un po’ così. Vale per tutti. Quelli a quali interessava prendere la patente una volta presa spariscono, poi ci sono altri o magari riappaiono in seguito se pensano che possa servire per un nuovo problema.
Mi sembra ci sia una polarizzazione anagrafica: studenti e pensionati
La mia classe è un laboratorio, una cosa da tre crediti. Agli studenti offro la possibilità di seguire gli incontri in affiancamento. Poi molti si appassionano e restano per un po’ di tempo perché piace loro questa esperienza. Poi continuano la loro vita, i loro studi. L’altra parte sono cittadini, ad esempio il professore di liceo in pensione che era molto assiduo.
Certo, prevalgono i pensionati e gli studenti. C’è anche qualcuno che lo fa nel tempo libero dal lavoro, ma sono una minoranza. Il contributo dei pensionati è di qualità, davvero prezioso. Con competenze molto varie, il potatore, l’artigiano rilegatore e il magistrato per fare alcuni esempi che abbiamo incontrato. Il pensionato non è uno mezzo rincoglionito che se ne sta da una parte a borbottare contro il mondo. È uno magari che studia come un matto delle cose particolari che ha sempre desiderato fare. Felice di collaborare. È pieno il territorio di questo tipo di pensionati.
È una esperienza che si sviluppa via via
Non è nata da un progetto, anche se poi tutti ne parlano in termini di progetto e sono stati fatti due progetti finanziati dalla regione Toscana con un sacco di partner. È nata come un’esperienza spontanea da un’emergenza del territorio. Ci siamo trovati dentro. Barbiana, Don Milani è stato il riferimento andando a cercare la chiave di soluzione su come portare avanti la relazione con queste persone. Ci si domandò: che si fa? Si fece quel cerchio la prima volta, poi se ne fece un altro, poi era chiaro a tutti che non si poteva passare il tempo a fare cerchi con i giochini, mangiare noccioline e patatine, bere coca e aranciata. Anche se piaceva da morire non poteva continuare così. Allora venne fuori l’idea di aiutarli con l’italiano. Io cercai confusamente nell’armamentario della mia esperienza dei riferimenti nella formazione e mi sembrò che il paradigma più sensato a cui rifarsi in qualche maniera fosse quello di come Don Milani agiva con quei ragazzi. Del resto mi tornava molto il parallelismo dell’occuparsi degli ultimi. Gli ultimi che aveva incontrato Don Milan erano quelli di Barbiana oppure i figli degli operai a Calenzano. Tante volte mi ero domandato negli anni precedenti pensando a Barbiana dove fossero, chi fossero gli ultimi. Mi ero un po’ intortato su questo discorso perché facevo fatica a riconoscerli. Fra le categorie dei nostri figli non è tanto semplice riconoscerli. Ma questi sbarcati con un sacchetto di plastica almeno per ora qui sono davvero gli ultimi. Meno di questi non ce n’è. Allora cosa possiamo fare? Facciamo quello che faceva don Milani.
Ho cercato di dare suggerimenti e fare domande. Ai miei concittadini che si sentivano spersi, che dicevano «Non abbiamo metodo, non siamo professionisti» suggerivo di lasciar perdere questi dubbi, mettersi accanto a quei ragazzi e fargli delle domande, chiedere di cosa hanno bisogno. Uno dice «Ahmad sembra arrabbiato perché ieri gli hanno fatto la multa perché non aveva il biglietto». Benissimo, lavora su quello e spiegagli che c’è nel biglietto, anzi chiediglielo e poi dopo prova a spiegarglielo perché lui il sistema biglietto non ce l’ha. Piano piano questa cosa è cresciuta, era un modello che funzionava, i ragazzi hanno imparato a relazionarsi con noi molto semplicemente. Facendo un programma italiano? Certamente, ma nessuno gli ha fatto il verbo avere. Incidentalmente può capitare. Se vedi che è pronto gliela molli la nozione grammaticale, ma solo quando vedi che è proprio lì, pronto, maturo per raccoglierla. Allora se ne serve. Ma se no aiutalo brutalmente proprio sulla necessità specifica che ti pone. In maniera che la prossima volta che vede un biglietto almeno capisca qualcosa. E così via, così via. A saper usare gmail perché poi spedisci il curriculum a un datore di lavoro. Definito il metodo il programma di lavoro si sviluppa spontaneamente.
Cosa diresti ad altri?
Non ho un ricettario, però potrei suggerire di ispirarsi ad un modello importante. Un modello che abbia delle assonanze. La laureanda di oggi ha proprio messo al centro della tesi i modelli che sono d’ispirazione per questa esperienza. L’ha descritta in termini meravigliosi. Infatti ho preso un suo brano e l’ho messo in cima al mio blog come descrizione emblematica. Ha messo come fonti Don Milani e Freire.
Ora mi viene in mente che mi ha fatto molto riflettere quando lessi il tuo messaggio di richiesta di intervista. Parlavi di imitare di Barbiana. La parola imitare mi è subito dissonata perché per cose di questo tipo in ambito umano evoca o il comico, penso ad Alighiero Noschese che fa l’imitazione, allora ridiamo e va tutto bene, oppure evoca lo scimmiottare, il ripetere. Ma l’esperienza umana è sempre irripetibile, è improprio parlare di imitazione. Ha invece molto senso parlare di ispirazione. Questo sì. Non mi sentirei mai di dire che a Poggio alla Croce è stata imitata Barbiana. Non mi permetterei, è anche scorretto perché poi i contesti sono totalmente diversi. Ci sono degli elementi comuni. L’ispirazione sì. L’idea di mettermi accanto e dire «Ma te di cosa hai bisogno?» Io che apparentemente ho tutto, anche se poi non è poi così vero, e tu che apparentemente non hai niente, che poi non è così vero, perché va a finire che io imparo parecchio da te. Tenti di praticare questo atteggiamento perché sei ispirato. Così mi torna. Sostituirei imitazione con ispirazione.
Foto: SMS Poggio alla Croce