Welfare State e sostenibilità, un modello ancora possibile

Cambiano le politiche, cambia l’economia, oscilla l”opinione pubblica”;  ma la domanda eseenziale, in particolare per le società occidentali, è: il welfare state, quello che tutto sommato caratterizza il mondo occidentale nonostante la grande ubriacatura del neo-liberismo, è ancora sostenibile? Per rispondere a questa domanda, abbiamo contattato Giovanni Calì, esperto di economia e marketing, ex-funzionario della Regione.

Da dove nasce la crisi del welfare state?

“La gravissima crisi del debito che ha fatto seguito alla ben più grave recessione del 2008, ha fatto nascere molte voci dissenzienti sulla possibilità di finanziare il moderno welfare state.  In effetti, il mondo nel quale viviamo in questo primo scorcio del XXI secolo (specie dopo la grande recessione) non è quello che abbiamo conosciuto nei decenni precedenti. È se qualcosa è rimasto immutato è la presenza del W.S. (welfare state) nella vita quotidiana dei cittadini dei Paesi sviluppati. I quali, nella quasi totalità, beneficiano di qualche programma pubblico di carattere sociale nato da quel sistema, si tratti di un sussidio di disoccupazione, di una pensione o della sanità pubblica. Mettere in dubbio il futuro del W.S. significa mettere in discussione il futuro della nostra forma di vita. Allora, diventa importante capire quali sono le sfide e i problemi che si devono affrontare”.

Quali sono le sfide principali che dovremo affrontare, nell’ottica di mantenere vivo uno stato sociale che si prenda cura delle fasce più indifese della popolazione?

“Il più importante dato critico è sotto gli occhi di tutti, l’invecchiamento della popolazione, causato tanto dall’aumento della speranza di vita quanto dal basso indice di natalità. Quest’anno ci siamo persi 86mila italiani. (Secondo i dati Istat pubblicati di recente sulle “stime 2016 degli indicatori demografici”, i residenti in Italia al primo gennaio 2017 erano 60 milioni e 579mila, 86mila in meno rispetto al primo gennaio del 2016 (-0,14 per cento). Il guaio è che continua il calo delle nascite: nel corso del 2016 è stato battuto il record negativo che risaliva all’anno precedente, il 2015, quando le nuove vite erano state 486mila; siamo scesi a 474mila). Tutto ciò, provoca una riduzione del numero dei contribuenti per ogni beneficiario di aiuti pubblici. Un altro fattore di carattere sociologico è il profondo mutamento della famiglia tradizionale. Per esempio, negli ultimi anni il numero delle famiglie monoparentali (in cui l’adulto è con maggiore frequenza la donna) è cresciuto notevolmente Nel nostro Paese sono 192 mila le famiglie mono genitore, dove c’è solo la mamma ed è disoccupata, quindi secondo i criteri statistici è in cerca di lavoro. Questo è quanto emerge dalle tabelle dell’Istat aggiornate al 2016. La cifra è in aumento rispetto all’anno precedente (+5%)”.

Quali sono le ricadute economiche conseguenti ai dati esposti?

“Tutto ciò riduce le entrate medie e aumenta il rischio di impoverimento che peraltro è sempre più diffuso. A questi e ad altri fattori interni se ne aggiunge uno di natura sovranazionale: la globalizzazione. Non vi è dubbio che l’inarrestabile internazionalizzazione dell’economia ha accresciuto la competizione non solo tra i Paesi, ma anche tra i lavoratori, dato che oggi è diventato più semplice (in alcuni casi necessario) delocalizzare le attività produttive per ottenere una riduzione delle tasse e delle imposte oltre che una considerevole riduzione del costo del lavoro. Tutti questi accadimenti hanno determinato in alcuni Paesi come per esempio l’Italia, una contrazione di salari e stipendi, una diffusa precarizzazione e un forte aumento della disoccupazione soprattutto nelle generazioni più giovani, e di conseguenza una diminuzione dei contributi  (che in parte sono sostituiti dai contributi versati dai lavoratori immigrati in Italia, si stima che i lavoratori non Italiani hanno consentito il pagamento degli assegni previdenziali per più di 600.000 persone) destinati a finanziare i programmi del W.S.  Un altro tema è quello dell’immigrazione”.

Per quanto riguarda l’immigrazione, è vero, come alcuni sostengono, che rappresenta la “tomba” del welfare? 

“Anche se inizialmente il W.S. del Paese di arrivo deve assumersi i costi dell’accoglienza e della integrazione sociale degli immigrati, la loro età, spesso inferiore a quella della popolazione generale, tende a fare di loro dei contribuenti netti non solo nel presente ma soprattutto nel lungo periodo. Su questo punto allora, occorre fare molta attenzione, perché la minaccia più grave nei confronti del W.S. proviene sicuramente dalla tentazione di chiudere le frontiere, una decisione che avrebbe conseguenze deleterie sulla crescita economica e demografica. Su questo punto occorrerà soffermarsi con maggiore attenzione, per studiare le implicazioni economiche del fenomeno migratorio, argomento che avrò cura di sviluppare e analizzare in un altro momento e al quale dedicherò un “capitolo” a parte. La mia attenzione è quella adesso di cercare di dare una risposta alla tendenza del W.S. di crescere sempre più. In nessun settore tale tendenza risulta così evidente come nella sanità, dove il progresso tecnologico aumenta le opzioni terapeutiche a disposizione degli utenti, facendo crescere i costi totali, oltre naturalmente il fatto che, l’invecchiamento della popolazione aumenta da par suo la domanda di sanità. Quindi, se la crescente disuguaglianza che caratterizza la nostra società nell’ultimo decennio in particolare, non verrà fortemente attenuata attraverso nuove e più efficaci politiche di sviluppo economico che dimezzino la disoccupazione e la precarizzazione, assisteremo ad un aggravarsi della situazione sociale e all’impossibilità di sostenere un modello di W.S. così come lo conosciamo”.

A questo punto del nostro percorso, è inevitabile una  domanda: a che cosa ci riferiamo esattamente quando parliamo di W.S.?

“Pur essendo un concetto che occupa, a vario titolo, molto spazio nei mass media e non solo, non è facile cercare di definirlo. Soprattutto perché non esiste un modello unico di W.S. (in Europa almeno tre macro- modelli) ma ce ne sono diversi, ognuno con le sue sfumature e le sue peculiarità. Ciò nonostante , una possibile definizione ( una ricca ed esauriente definizione di W.S. la potete leggere sull’enciclopedia Online della Treccani) sarebbe quella di un sistema per il quale la Pubblica Amministrazione indipendentemente dal “sentire politico” del governo in carica ( di fatto, è stato inserito nella costituzione di molti Paesi, nella nostra Costituzione si parla di “sociale” in molti articoli), garantisce ai suoi cittadini una serie di servizi sociali fondamentali, soprattutto nel campo della sanità, dell’istruzione, della previdenza, della disabilità etc., con lo scopo di migliorare le loro condizione di vita e di promuovere l’uguaglianza di opportunità di realizzazione personale in linea con quanto stabilisce la nostra carta costituzionale del 1948”.

Si tratta dunque di un sistema “ideologico”? 

” E’ innegabile che tutto ciò si ispira ai principi di democrazia, libertà e solidarietà affermatisi alla fine della II guerra mondiale. Ma non è tutto:  infatti, è legato anche  all’assunto che il mercato da solo non riesce ad offrire quei servizi a costi sostenibili. Di fatto, che il mercato abbia dei limiti, anche di una certa importanza, è un concetto che oggi si accetta senza discussione.  Questa concezione però non era diffusa prima dell’opera pionieristica di John Maynard Keynes, l’economista più influente del XX secolo. La teoria Keynesiana deve molto a teorici del calibro di Paul Samuelson e Amartya Sen, i cui principali contributi attengono proprio al campo dell’economia del benessere e del welfare. Su questo tema del welfare e sull’intervento dello Stato in economia, si sono negli ultimi decenni dati battaglia due tesi contrapposte e sostanzialmente anti–keynesiane. I critici dell’intervento dello stato in economia come Friedman e Hayek che sostenevano che il mercato è più efficiente dello Stato e, aggiungevano che gli amministratori pubblici tendono ad agire nel proprio interesse anziché per l’interesse generale. I casi di malversazione, di corruzione darebbero ragione a queste tesi, ma non si può generalizzare e farla diventare una regola, come dall’altro canto non si può demonizzare il mercato tout court. Ancora più interessanti appaiono le obiezioni sul piano dei valori da parte dei critici liberali dell’intervento statale. Sostengono ad esempio, che qualunque intervento statale in economia equivale a un’invasione illegittima dell’autonomia decisionale dell’individuo. Scrive Maurizio Viroli sul suo libro “Repubblicanesimo”: “Il Liberalismo è stato formidabile a difendere gli individui contro le interferenze dello Stato o da altri individui; molto meno a raccogliere le esigenze di libertà degli uomini e delle donne che devono tenere gli occhi bassi o bene aperti per scrutare gli umori del potente che può in ogni momento costringerli impunemente a fare quello che vuole, dunque a servire”. Questa stessa scuola di pensiero ha accusato il W.S. di favorire la dipendenza dei cittadini dal governo, che non si limita a da loro un lavoro, ma fornisce i beni e i servizi di cui hanno bisogno. Tale dipendenza, protraendosi per lungo tempo, avrebbe fatto sì che un ampio strato di cittadini si consideri meritevole di aiuti consistenti senza badare ai costi che ciò comporta per la sua società nel suo insieme”.

Esiste un “metro” su cui si può calcolare quanto sia sostenibile o meno un sistema sociale, economico e giuridico? 

“Credo che ogni istituzione e organizzazione umana sia essa pubblica come il W.S. o privata come può essere una banca, debbano essere valutate in funzione dell’efficienza con cui compiono le loro azioni e realizzano i loro obiettivi, nonché della trasparenza e dell’onestà con cui vengono utilizzate le risorse pubbliche da parte della P.A. e i risparmi dei cittadini da parte delle banche. Allo stesso tempo penso anche che, quale che sia il risultato di tale valutazione, non si può negare che il W.S. sia stato fondamentale nello strutturare la convivenza sociale e nel promuovere il progresso economico dei Paesi con una democrazia consolidata e un’economia di mercato. Benché possa sembrare che sia così da sempre, al tempo stesso logico e normale, non è sempre stato così. Il processo che ha portato alla nascita del W.S. è stato lungo, pieno di lotte e di sacrifici da parte delle generazioni che ci hanno preceduto, ma è stato anche un momento di grandi conquiste sociali e democratiche”.

Una previsione per il futuro è possibile? 

“I cittadini europei considerano il W.S. come un elemento in più del paesaggio democratico dove viviamo: confidano in esso se vi è necessità. Non tutti i cittadini hanno la percezione dell’importanza del W.S. e del ruolo che deve avere lo Stato nella ridistribuzione della ricchezza, c’è chi appoggia l’intervento dello Stato anzi che lo ritiene indispensabile, c’è chi, invece, ritiene il compito dello Stato sussidiario. Nonostante queste oscillazioni dell’opinione pubblica, è stato dimostrato che c’è più di un fondo di verità in queste parole del sociologo Claus Offe: “La contraddizione sta nel fatto che il capitalismo non può convivere con il welfare state, ma non può nemmeno farne a meno”. In ogni caso, per assicurare la sostenibilità del W.S. davanti a tutte le sfide considerate, è necessario riformarlo, e la direzione più auspicabile è verso un maggiore coinvolgimento degli stessi utenti, vale a dire dei cittadini. I governi a tutti i livelli territoriali devono indicare quali sono gli ambiti che l’iniziativa privata non è in grado di coprire. La collaborazione fra settore pubblico e privato è essenziale affinché il W.S. realizzi la sua funzione. Da questo punto di vista, in Italia, a mio parere, dovrà avere un ruolo ancora più importante il terzo settore. Basti solo ricordare che rappresenta una rilevante realtà economica e sociale nel nostro Paese. Infatti, impiega quasi 5 milioni di volontari e oltre 95.000 addetti e contribuisce al PIL per circa il 4%. Chiudo con una citazione di Amartya Sen: “l’individuo solo non può assolutamente nulla”. E aggiunge: “Tutta la base dell’economia di mercato gira intorno alla capacità di interagire, di dipendere gli uni dagli altri, di poter fare cose per altri e consentire agli atri di farne per noi” È questo forse il bene più importante che il welfare state deve promuovere, difendere e rappresentare”.

 

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