Firenze – Tanta gente nella grande aula teatro del carcere di Sollicciano. Tanti ragazzi, insegnanti e adulti che hanno partecipato a un progetto che permette un confronto fra studenti liberi e studenti reclusi e che ora tutti assieme ascoltano il concerto dell’Orkestra ristretta dei detenuti che conoscono, amano la musica o comunque la considerano un momento importante per alleviare la loro vita di reclusi.
Quest’anno però manca qualcuno. C’è un particolare tipo di percezione dell’assenza soprattutto nelle comunità che le circostanze rendono umanamente intense, dove si creano corrispondenze e affetti duraturi. Non detti, per convenzione o per pudore, ma più forti di qualunque regola o condizione imposta dall’esterno.
Manca Nicola Zuppa, coordinatore del gruppo di insegnanti che hanno scelto la scuola del carcere. Il 16 settembre 2016 Nicola è stato sconfitto dalla malattia che lo aveva colpito da un anno lasciando la moglie Simona e le figlie Alice e Agnese. Una battaglia affrontata anche con leggerezza, come riesce a fare chi è stato a contatto con la sofferenza e ha maturato una serena consapevolezza della fragilità dell’esistenza.
Bisogna dare parole a quella assenza. E’ un compito importante ricordare una persona che rappresenta quel mondo di impegno e dedizione verso gli altri, così poco visibile, ma che è la vera indistruttibile eredità per chi rimane.
Invitato come ogni anno dagli insegnanti del carcere a tenere conversazioni sul giornalismo, ho accolto il desiderio degli studenti di parlare di quella persona che per più di dieci anni è stata interlocutrice di una modesta attività di volontariato.
Frammenti di testimonianze colti al volo nelle aule di scuola, a cominciare da quella a lui intitolata il 16 dicembre 2016, e nei corridoi del carcere. Qualcuno non ha nascosto la sua commozione. Daniel bibliotecario, e poi Giovanni, Fiorenzo, Riccardo, Arcangelo e i detenuti della tredicesima sezione “protetta” dove ha insegnato, e Alessandro, Yu Wen, Andrea, Francesco e Daniele del “Solliccianino”, la Casa circondariale a custodia attenuata “Mario Gozzini”.
Poi i suoi colleghi Claudio Pedron, Paola Trotter, Patrizia De Majo, Fulvia Poli e i suoi referenti come Margherita Michelini la direttrice del Mario Gozzini e Giorgio Sapuppo, il comandante delle guardie di quell’istituto.
Le loro parole scolpiscono una personalità capace di modificare la routine del carcere con un’incessante attività di dialogo e mediazione con le autorità carcerarie e una disponibilità totale. Insegnante e animatore, un po’ amico e un po’ psicologo, pur restando rigorosamente nei limiti di un’istituzione di pena rigida e totalizzante.
Nicola aveva scelto a 24 anni di svolgere la sua missione di insegnante nel 1978 in quella che allora si chiamava Prigione scuola, l’istituto penale minorile di via Ghibellina, a due passi dal Tribunale per i Minorenni allora presieduto da Gian Paolo Meucci. In questo istituto e nel riformatorio mise progressivamente a fuoco una capacità di rapporto fuori del comune: “Partendo per esempio dal calco, con lui i ragazzi parlavano di cose che non riuscivano a dire con lo psicologo o l’educatore”, dice De Majo.
Il calcio gli era utile per entrare in relazione anche con gli adulti quando nel 1987 fu assegnato dal CPIA di Firenze come insegnante di ruolo al nuovo carcere di Sollicciano, che nel 1983 era diventato il principale istituto di detenzione della città. Un mezzo per conoscere le persone, capirne i punti deboli e le sfumature del carattere.
Tutti ricordano che a nessuno chiedeva mai perché erano in carcere. Partiva dal rapporto personale per costruire nell’aula percorsi di istruzione non convenzionali in grado di catturare l’attenzione dei potenziali studenti, e “fare uscire di cella quante più persone possibile”: la lettura del quotidiano, il gioco didattico. Persino le carte da gioco diventavano un veicolo per imparare a seguire le regole, a tenere a freno l’emotività, a capire strategie e scaltrezze dei rapporti umani. Non è facile, soprattutto quando le circostanze favoriscono l’aggressività e il rifiuto.
Nicola era riuscito a conquistare il loro rispetto . Sapeva ascoltare e andare il più possibile incontro ai desideri dei suoi studenti: chi chiedeva la storia, chi la musica, chi l’astronomia e chi anche lo yoga, l’inglese o la capoeira. Insieme ai suoi colleghi e a rappresentanti degli studenti aveva creato il CIC, Centro informazione e consulenza, che selezionava i vari argomenti per l’anno in corso.
Da lì partivano le idee e le intuizioni alcune già messe alla prova con i ragazzi del minorile. Come il teatro: con una parodia sulle favole aveva coinvolto detenuti e agenti di custodia, per realizzare tutto ciò che serve per un allestimento scenico.
Cominciarono ad aprirsi le porte del carcere a professionisti, operatori di vari settori, intellettuali, medici, tutti coloro che potevano dare risposte alle domande de suoi allievi e accrescerne la capacità di attenzione, condizione per raggiungere il suo obbiettivo: “La tipicità della scuola in carcere deve essere una forza riconosciuta”.
Ed ecco le uscite sempre più frequenti, l’ospitalità alle scuole (il progetto si chiama “Il carcere a scuola, la scuola in carcere”), i tornei di calcio: “E’ riuscito persino a far venire in giorno di festa il comandante delle guardie per rendere possibile la disputa di una partita di calcio”.
Otteneva tutto ciò prima di tutto grazie a una straordinaria capacità di mediazione con la burocrazia carceraria tutt’altro che predisposta agli esperimenti e ai mutamenti della prassi. “Riusciva a spianare la strada, a tenere i rapporti con gli agenti e con gli educatori, a superare gli ostacoli in tempi rapidi”, dice Paola Trotter.
Così negli anni la scuola del carcere è cambiata. “Ti insegnava un modo di vivere e di affrontare la vita”, “Ho ritrovato me stesso”, “Ci ha aiutato a vivere qui dentro”, “Ci ha insegnato ad analizzare le cose e a trovare un modo per risolvere i problemi”, “sentivo che non mi giudicava e mi ha spronato a studiare”, “Quattro ore a scuola fuori dagli schemi”, “Era una figura maschile con la quale ti puoi rapportare”: sono i ricordi indelebili dei suoi studenti.
Loro rimpiangono con commozione i momenti della giornata quando arrivava Nicola e d’improvviso l’umore cambiava e il peso del carcere diventava un po’ più sopportabile. La sua presenza ora è un ritratto dipinto da uno di loro appeso al muro in una sala di ritrovo. Ma chi è rimasto sa bene che sulla strada tracciata da Nicola non si può tornare indietro.
Foto: Nicola Zuppa