All’Alfieri Billie Wilder in due atti: il libro di Gabriele Rizza e “Prima Pagina”

“E’ il cinema bellezza”, il libro discusso con l’autore da Marco Luceri e Luigi Nepi

Firenze – “Vado negli studios perché non posso sopportare il rumore dell’aspirapolvere di mia moglie e anche perché non riesco a trovare tre partner per il bridge o qualcuno per giocare a tennis. E lavoro anche per impedire a qualche falso talento di vincere degli Oscar”. Il programma di Billy Wilder, non potrebbe essere più chiaro. Sarà il segno distintivo della sua carriera di autore cinematografico: caustico, indocile, ironico, quando non beffardo, gran narratore di storie.

Nessuna esclusa. Wilder attraversa tutti i generi. Dal noir al mélo, dal biopic alla satira al film storico e/o di denuncia (vedi la sfaldarsi del mito hollywoodiano) e naturalmente, al centro del suo percorso, la commedia che con lui raggiunge vertici inauditi, di cui è riconosciuto fra i massimi interpreti. Sono queste storie apparentemente brillanti, certo divertenti, a una lettura superficiale ma in realtà sono mosaici fiti di tessere e densamente problematici.

Di Billy Wilder, già giornalista fra Vienna e Berlino, soggettista e sceneggiatore nella Germania prenazista, che stacca il biglietto per l’America nel 1934 appena in tempo, lui ebreo, si parla stasera allo Spazio Alfieri (a partire dalle 21) in due sequenze: prima la presentazione del libro (edizioni Clichy) “Billy Wilder. E’ il cinema bellezza” curato da Gabriele Rizza (con l’autore intervengono Marco Luceri e Luigi Nepi) poi la proiezione di una delle sue più celebri (caustiche e feroci) parabole sulla “insensatezza” della società e della cultura americana: “Prima pagina” (1974), protagonisti al massimo dell’esplosività Jack Lemmon e Walter Matthau (con loro David Wayne, Susan Sarandon, Carol Burnet e Vincent Gardenia), terzo adattamento per lo schermo della celebre commedia di Hecht e MacArthur. La macchina hollywoodiana (fra scomuniche e incomprensioni, denunce e censure, voltafaccia e scandali) ricambierà comunque il lavoro di Billy Wilder, la sua “disordinata” creatività con una bella manciata di Oscar.

Per Wilder, sublime incantatore, lo stile è una questione di “touch” (come lo sarà per Ernst Lubitsch), la classicità è una rete di belle trame dove affondare lo sguardo, i generi sono una panoramica di incroci, sfumature e ombreggiature, dove calare le pedine di un gioco che conosce le regole ma dialetticamente le incrina. Il cinema di Wilder è una magnifica tavolozza che profuma di libero arbitrio, inventiva, ironia, malinconia, trauma, farsa e tragedia, innocenza e cinismo, una dissolta emergenza della vita “proiettata” su una tela che sfugge a qualsiasi organica sistemazione critica.

In foto Billie Wilder

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