Rsa, ancora caos in attesa di un cambiamento che non arriva

Firenze – Ci fu qualcosa, nell’opinione pubblica che,  un anno e mezzo fa circa, aprì le porte a grandi aspettative generali. Si sta parlando delle Residenze Sanitarie Assistite, ovvero le Rsa, dove “finiscono” gli anziani. Il qualcosa fu la dichiarazione dell’ex presidente della Toscana, Enrico Rossi, che nell’aprile del 2020 dichiarò che le Rsa sarebbero state reinternalizzate. Trecentoventiquattro strutture in Toscana, secondo le recenti rilevazioni regionali, con una grande varietà di tipologie: dalle ex aziende pubbliche a quelle private, a quelle miste, a quelle con dipendenti diretti, a quelle pubbliche con gestione privata e operatori dipendenti da cooperative che si  aggiudicano di volta in volta  l’appalto. Un mondo che non gode di buona salute, speronato dal Covid, che ha visto emergere proteste e malumori. Ed è recente, di questi giorni, la notizia che una delle strutture storiche del territorio, la RSA Principe Abamelek, versa in uno stato fisico di forte disagio. La Cub Sanità segnala  continue perdite alle tubature, spazi allagati, camere e bagni inutilizzabili, ed altri disagi sia per gli operatori che per gli anziani, che ha portato al blocco degli ingressi con la presenza di soli 30 utenti a fronte di una capienza di 58 posti. Un problema che va a riflettersi sulle lunghe liste di attesa. Per quanto riguarda la struttura, il Comune di Firenze è proprietario dell’immobile,e quindi l’ente a cui fa carico la manutenzione della struttura , anche se  l’ASP Montedomini gestisce lo spazio e la cooperativa Di Vittorio è l’attuale aggiudicataria della gara di appalto. slla questione il gruppo consiliare d’opposizione Spc ha presentato un’interrogazione urgente.

“Un anno e mezzo fa – spiega Anna Nocentini, presidente dell’associazione di utenti ADINA, raggiunta da Stamptoscana – l’opinione pubblica mise il focus sulle Rsa. A quei tempi l’allora presidente Rossi parlò di ripubblicizzazione. Si creò così nei cittadini un’aspettativa di cambiamento profondo del sistema. Il problema è che si continuò a parlare di grandi principi: mettere al centro la persona, ricostruire il rapporto territorio-ospedale, ecc. Tutto molto bello,  che produsse progetti finali che vanno tutti molto bene. O meglio, andrebbero tutti bene, se si aggiungesse, in un angolino, le risorse umane e risorse finanziarie. A fronte di una dichiarazione così significativa e di un sentire popolare così forte rispetto al cambiamento per garantire una diversa qualità di vita ai vecchi, che cosa si propone di fare la Regione Toscana a un anno e mezzo di distanza?”.

Mettendo a fuoco la delibera regionale 843, che dovrebbe rappresentare il vero punto di ripartenza del sistema Rsa regionale, ad ora, dice Nocentini, a parte il fatto che le informazioni ricavate con lo studio scientifico del territorio sono quasi del tutto collimanti con quanto da tempo sia le associazioni che i sindacati riportano, non è stato attuato quel cambiamento radicale “che ci si era sentiti autorizzati a sperare dall’intervento dell’ex governatore Rossi. Insomma, l’impressione è che la delibera in questione, informata e ben presente nei principi, sia rimasta ad ora solo una bella carta d’intenti”.

Un cambiamento radicale che insiste intanto su di un aspetto più volte emerso, da parte sia delle associazioni degli utenti, che dei sindacati come la Cub Sanità, molto attivi nelle Rsa, ma che  anche rilevato dai gestori delle stesse residenze sanitarie assistite. L’aspetto è quello della presenza sempre più maggioritaria di utenti sempre più vecchi e sempre più malati, con patologie sempre più gravi: dai terminali agli psichiatrici, passando da tutte le gradazioni delle patologie. “Perciò – continua Paola Sabatini della Cub – è assolutamente necessario incrementare la parte dell’assistenza sanitaria nelle strutture, prevedendolo non solo come impegno futuro, ma mettendo a disposizione le risorse necessarie”. Un punto importante della delibera è anche quello che prevede la natura di questo potenziamento del servizio sanitario. Una questione di chiarezza, come spiega Nocentini: “Da nessuna parte c’è scritto che questo di più di sanità debba essere inserito nel sistema sanitario nazionale, o meglio, si parla di servizio sanitario nazionale, ma non pubblico. Infatti, ormai è invalso che quando c’è la dicitura SSN, si tratti di sistema misto o privato, inserito nel SSN. Non siamo autorizzati a pensare che sia pubblico, dal momento che non c’è scritto. L’altra cosa che manca, che secondo noi, è il tema del controllo pubblico. Ovvero, di una forma nuova di apertura di queste strutture al territorio, che non sia solamente l’aspetto sanitario, ma che dia, gestione privata o mista che sia, la possibilità di definire queste strutture residenze e non ghetti. Per fare questo servono progetti specifici, per cui si abbia un rapporto col territorio non solamente che non riguardi solamente il medico, ma l’intera vita del territorio. Quello che ci preme è che la realtà, con tutto quello che esiste sul territorio, possa entrare dentro le strutture in qualche maniera, sia per vedere cosa si svolge all’interno delle strutture stesse, ma anche per interagire con gli utenti oltre che con la gestione dell’Rsa. Un processo, in definitiva, di democratizzazione. Questo manca assolutamente. Vorrei che venissero fuori queste cose. La delibera contiene progetti e tempistica per i gruppi di lavoro che devono predisporre i progetti. Da queste linee guida, usciranno gli atti esecutivi tra cui anche le coperture finanziarie”.

Non solo questo. Come dice Paola Sabatini, sindacalista della Cub, qualche discrasia, nel lavoro scientifico presentato nella delibera, esiste. “Ad esempio, laddove si parla degli alti livelli di soddisfazione riscontrati fra il personale, dato che sembrerebbe contraddetto dal fatto che, appena si apre un concorso pubblico  (uno recente nei giorni scorsi), i lavoratori “fanno le corse” per “uscire” dal sistema Rsa entrando nel sistema pubblico. Sostanzialmente, lo fanno sia per carichi di lavoro, ma soprattutto perché sono pagati meglio. Tutte le figure che hanno corrispondenze nel pubblico, guadagnano mediamente un 30% di meno rispetto a chi si trova nel SSN. Inoltre, a minori tutele e minore stipendio, si aggiunge il problema del cambio d’appalto, che di fatto mette sempre in crisi di precarietà gli operatori”. Una situazione che si scontra con il meccanismo della qualità del servizio: ” Se si vuole ottenere qualità nelle Rsa – continua la sindacalista – serve anche una continuità nel personale, una formazione specifica dei lavoratori, val a dire va espletato il diritto alla formazione. In realtà, negli appalti è prevista, ma è quella minima di base: sicurezza, antincendio, ecc. Ad esempio, manca una formazione adeguata per l’approccio ai pazienti gravi, che sono sempre di più, a quelli psichiatrici. Su quest’ultima categoria, ricordiamo che i pazienti psichiatrici, una volta  raggiunti i 65 anni, vanno tutti in Rsa”.

Queste criticità che gli estensori della delibera hanno scientificamente analizzato, “dal nostro osservatorio emergevano anche prima del covid – continua l’esponente della Cub – grazie a una piccola indagine che poneva un questionario agli operatori, dove si rilevava esattamente la stessa cosa: l’aumento degli anziani malati gravi, non autosufficenti gravi, psichiatrici, ma anche problemi delle strutture, quelli della (mancata) integrazione socio sanitaria, il problema della sicurezza delle cure, della mancanza di infermiere notturno in molte strutture,dal momento che non vengono considerate strutture di cure sanitarie, ma residenze”. In sintesi, da 40 anni a questa parte, l’utenza è profondamente cambiata. La richiesta, da parte della Cub e della maggior parte delle associazioni, Adina in testa, è che le Rsa vengano considerate più consapevolmente alla stregua di strutture sanitarie.

Quest’ultimo punto si interseca con i problemi del personale.  Continua Sabatini: “Per quanto riguarda gli operatori, sono calcolati in base ai parametri regionali . Attualmente per la Regione Toscana sono previste giornalmente  per ogni anziano in RSA:  2 ore e 20 di assistenza di base,40 minuti di assistenza infermieristica e 10 minuti di fisioterapista e animatore.  Su questi parametri dovrebbero essere fatti i controlli delle commissioni. Spesso, nell’orario ufficiale, tutto torna. Ma se l’operatore che deve fare le ore non c’è e non c’è sostituzione, quelle ore, pur segnate nell’orario ufficiale, non vengono fatte. Noi consideriamo questi parametri insufficienti a garantire una qualità delle cure e una qualità del lavoro, ma vogliamo anche segnalare che spesso nemmeno questi vengono rispettati e non ci sono controlli “a sorpresa”. 

Ricapitolando, e nonostante la realtà toscana, grazie al fatto che le Rsa sono più piccole e arrivano ad un massimo di 80 utenti, sia migliore rispetto al nazionale, i punti critici, a un anno e mezzo di distanza e nonostante la dichiarazione d’intenti della delibera 843,  sono sempre gli stessi e non cambiano: problemi riguardanti le strutture , che spesso necessitano di interventi sugli edifici , il personale,sia in termini quantitativi che per necessità  di formazione , il bisogno sempre in crescita di figure sanitarie  dal momento che gli utenti sono sempre più malati.  L’altro aspetto, che riguarda le misure anticovid è che, come spiega la presidente di ADINA, “queste strutture rischiano di diventare sempre più  ghetti. L’irrompere sulla scena della pandemia non ha fatto altro che esasperare problematiche che già esistevano, di scollamento col territorio e le sue realtà. In generale, ciò che si dovrebbe fare è un’altra cosa, a partire dal controllo che dovrebbe essere diverso, affidato anche ai parenti che vanno a visitare gli utenti, un controllo che renda l’ambiente un ambiente vitale e non un ghetto. A livello psicologico, se gli anziani si sentono chiusi in un ghetto, subiscono un impatto devastante. Il covid ha “solo”  messo l’accelleratore a questa situazione. Fra l’altro non entrano più i volontari, con aggravio di lavoro e peggioramento della qualità del servizio. Il famigliare deve essere coinvolto in prima persona, il controllo ad ora è i mano ai soli proprietari, siano essi pubblici o privati”.

Per quanto riguarda il lavoro, il vero buco nero è l’appalto. “E’ veramente deplorevole – spiegano Sabatini e Nocentini – che si continui ad andare avanti con le gare al massimo ribasso. l’appalto è veramente importante, in quanto se si continua col massimo ribasso, si vanno a intaccare servizi primari come il mangiare, la sicurezza, le pulizie. Le cooperative girano, si vincono appalti contraendo ad esempio gli operatori per diminuire i costi, prestando il fianco allo sfruttamento del lavoro, mentre le rette rimangono alte, si parla anche di 3600 euro al mese per le famiglie che devono mantenere tout court un anziano in struttura. Un costo alto, che dovrebbe dare una garanzia che invece non c’è”.

Andando ad analizzare il meccanismo con cui la Regione stabilisce il budget, l’ente regionale lo stabilisce prendendo in considerazione un dato intervallo di tempo, su una ripartizione che si avvale di una serie di dati che sono la popolazione, il numero degli anziani, e altri parametri che determinano il numero di posti nelle Rsa che hanno diritto alla quota sanitaria a carico della Regione. Gli anziani che in base alla valutazione del gruppo multidisciplinare  del distretto socio sanitario , vengono considerati bisognosi dell’inserimento in RSA vengono inseriti in una graduatoria.

Si tratta dello stesso meccanismo degli asili nido. “Chi resta fuori dalla graduatoria o va in RSA a completo suo carico, oppure sta a casa. Fra il 2010 e il 2011, a seguito di una lotta dell’associazione ADINA, passò una delibera in cui si stanziavano 800mila euro in più per l’Asl di Firenze (ancora non c’era stato l’accorpamento), in questo modo si arrivò ad azzerare la lista di attesa. Poi, si tornò daccapo, con liste d’attesa che non sono nè trasparenti nè attendibili. Infatti ci sono anche i casi di inserimenti urgenti , che fanno bloccare le liste di attesa.  Se un anziano si trova in ospedale dove diventa non autosufficiente e non può tornare a casa sua e magari i figli sono impossibilitati ad ospitarlo o a occuparsene, è necessario per forza trovare una struttura,  Si tratta dei cosiddetti “codici rossi”, quelli che non hanno nessuno che possa provvedere a loro, e passano avanti nella lista di attesa. Ciò significa che le graduatorie delle liste di attesa non hanno andamento consequenziale al numero”.

Ma c’è qualcosa che funziona ancora peggio, ed è l’assistenza domiciliare, che potrebbe essere una “gamba” alternativa al ricovero in Rsa. Dice Bruno Bartoletti, associazione ADINA: “E’ ancora peggio che il ricovero in Rsa, perché di fatto non esiste. Se si vuole evitare o diminuire i ricoveri in Rsa, basterebbe fare un’assistenza domiciliare mirata, con assistenza vera, anche dando soldi ai famigliari che si occupano dell’anziano e che rischiano di perdere il lavoro”.

Infine, esiste quindi  il problema delle famiglie, che spesso si impoveriscono fino all’inverosimile per potersi permettere l’Rsa per il proprio congiunto. “La quota di parte sociale la dovrebbe pagare il Comune – spiega Bartoletti – la legge dice che è il Comune a rivalersi, se ci sono i requisiti Isee, sulle famiglie. Il decreto è del 2001”. Se questo è quanto prevede la legge, ad ora il meccansimo, come spiegano famiglie e sindacati, risulta invertito. Il problema è che, nella pratica, finisce per avverarsi direttamente il coinvolgimento delle famiglie, superando di fatto la legge. Il rapporto infatti diventa fra privati, famiglia-struttura, superando nei fatti il meccanismo previsto dalla legge, in quanto i familiari si impegnano a farsi carico del costo totale qualora le quote sanitarie restino bloccate, come ad ora succede. La conseguenza è che, se le famiglie non riescono a sobbarcarsi l’intero costo della retta, o s’indebitano, o gli anziani restano in lista di attesa. 

 

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