Tra tutti i concetti più mal compresi, male utilizzati, abusati, sfruttati di tutti i tempi, occupa un posto particolare – se non al primo posto, certo sul podio o attorno ad esso – quello di Democrazia; un qualcosa di vagamente compreso e di non meglio definito nella stragrande maggioranza dei casi che investe con la sua forza evocativa gran parte del nostro dibattito politico e civile e lo orienta in virtù dei postulati sui quali sembra basarsi. Postulati che vengono spesso citati, nominati, ventilati, ma che poi oggettivamente sono in pochi a sottoporre a verifica alla luce della realtà contemporanea, e ci si ritrova con un mucchio di carta stampata buona per dare il via ad una simpatica grigliata o, peggio ancora, mari di parole virtuali che nemmeno a quello sono buone. Eppure, in tempi di continua campagna elettorale e di inviti all’espressione di un parere, di un voto di vincolo diretto su questioni fondanti la vita dei Paesi come possono essere appunto le iniziative referendarie, forse una qualche riflessione è il caso di farla.
Il dibattito sul cosa sia o non sia Democrazia, tanto per cominciare, origina in tempi talmente remoti che oggi fa girare la testa anche solo pensarci, e gran parte del substrato culturale dal quale queste idee nascono oggi è sparito per sempre, frantumato sotto i colpi della modernità e di una idea di democrazia molto più democratica di quella in cui credevano quelli che la parola l’hanno inventata. Ad esempio: Platone ed Aristotele, pur immaginando Repubbliche talmente perfette da essere ideali, in questo concetto di partecipazione diffusa dei cittadini alla vita della politica (l’amministrazione della Polis, della Città) infilavano senza difficoltà alcuna la schiavitù nell’equazione generale, escludevano donne, stranieri e caste umili dal numero degli aventi diritto e, giova ricordarlo, di nuovo, parlavano non di governo di uno Stato (idea che nasce qualcosa come duemila e più anni più tardi), ma della partecipazione alla vita di una città. Vale a dire: nonostante la dimensione delle polis greche, siamo sempre attorno al concetto illustrato così bene dal Numero di Dunbar, che pure con le sue 150 persone al massimo delinea una comunità molto coesa e ristretta; in ogni caso una comunità.
Noi, è appena il caso di dirlo, non viviamo più, e da un bel pezzo, in una comunità, ma bensì in una società; la distinzione di Weber tra Gesellshaft e Gemeineschaft, ovvero gruppi di persone contraddistinte da legami di relazione oppure, come è nel nostro caso, da dinamiche di interrelazione, cioè del soddisfacimento di bisogni. E’ la differenza che intercorre tra un organismo ed una macchina, insomma. Una società è infinitamente più complessa, ha necessità e funzioni più articolate e più slegate tra di loro e, soprattutto, è meno interconnessa, perché i vincoli tra i suoi componenti vanno e vengono come vanno e vengono le rispettive utilità. Questo sovrapporsi di micro comunità, di famiglie dotate di familismo amorale, di necessità reciproche che possono essere bypassate rivolgendosi alla concorrenza in barba ai rapporti umani fa di noi collettivamente ciò che siamo; vale a dire, un insieme di istanze molto difficile da soddisfare, nel suo complesso. In queste condizioni, la coscienza della collettività e dei suoi bisogni superiori, con buona pace di quanti pensano che la società sia qualcosa di emergente rispetto alle parti che la costituiscono, è qualcosa di assai difficile da realizzare; i bisogni sono difficili da comporre, perché non vengono percepiti quasi mai come comuni.
E il passaggio dalla cittadinanza dello Stato (mai veramente costruita, specialmente in Italia) alla percezione di una dimensione globale (o glocale, come direbbero a buon titolo molti sociologi) non ha semplificato il problema. Ma forse, il più grave problema della democrazia è proprio insito nella sua natura: quella di essere una forma di governo esercitata da un ampio numero di soggetti, il più possibile dotati di uguale peso nella decisionalità o, nel nostro caso, di uguale rappresentatività alle urne. Quale sia il pericolo che si innesca a questo punto, vale la pena di farlo dire da Aristotele stesso, con parole vecchie di 2300 anni ma giudicate voi quanto ancora valide: “In realtà, negli stati democratici conformi alla legge non sorge il demagogo ma i cittadini migliori hanno una posizione preminente. Invece dove le leggi non sono sovrane, ivi appaiono i demagoghi, perché allora diventa sovrano il popolo la cui unità è composta di molti, e i molti sono sovrani non come singoli, ma nella loro totalità. E quale «plurisignoria» Omero dica «non buona», se questa o l’altra in cui sono numerosi quelli che comandano come singoli, rimane incerto. Un popolo di tal sorta, in quanto signore assoluto, cerca di esercitare la signoria perché non è governato dalla legge, e diventa dispotico, sicché sono tenuti in onore gli adulatori; una democrazia di tal fatta corrisponde in proporzione alla tirannide tra le forme monarchiche” (Aristotele, “Politica, libro IV).
“Demagogo”, il cui significato alla lettera è “trascina-popolo”, è uno che è capace, senza mezzi termini, di orientare il sentimento, e quindi il voto, di un elettorato; di fare sì che le decisioni dell’assemblea (e sono ancora parole di Aristotele) siano in grado di superare il dettato delle leggi. E con esso il loro spirito, le loro funzioni e le loro ragioni. Vale a dire che in una realtà in cui le leggi siano confuse, deboli, inapplicabili, disattese, ignorate, trasgredite, la possibilità per uno in gradi di rivolgersi alla pancia delle persone di influire sulle loro azioni e quindi sulla vita della comunità tutta è sempre presente, e tanto più grande quanto i cittadini abbiano poca dimestichezza con le leggi suddette e col loro senso. Non saremo noi a dare un giudizio circa la responsabilità civica e la conoscenza delle leggi e del loro senso, letterale o in spirito, del cittadino italiano medio. Ci limitiamo, certamente non tra i primi, a segnalare il problema, in questi tempi in cui più le cose sembrano farsi complicate e più si fa largo l’idea che rivolgersi ai voleri del popolo per risolverle sia la strada maestra. La strada migliore, e migliore soprattutto perché più “democratica”. Quasi che il fatto di essere presa dal maggior numero di persone di per sé sia garanzia di riuscita di una decisione; non l’equità, non la giustezza, non la razionalità rispetto allo scopo o al valore (e torniamo a Weber, sì?), ma – e come Cyrano, tocchiamo al fin della licenza, il fatto forse che la responsabilità sia condivisa col maggior numero possibile di soggetti, e quindi, in un certo senso, la colpa più lieve, come nei rapporti di classe nei quali la classe va a catafascio ma i singoli possono sempre dire che sono stati tirati dentro per i capelli nella rissa.
Democrazia, quindi, forse in fondo più come assoluzione che come effettiva capacità di partecipazione. Non che si tratti di un problema solo italiano, beninteso. Il fatto che noi abbiamo insegnato a tutto il mondo, migliorando (e di molto) la struttura del dibattito civico a partire da quello rubato ai Greci, e che da noi la vita politica sia tutto sommato particolarmente vivace e, è il caso di notarlo, ancora civile, ancora capace di autocritica profonda e sottoposta anche a critica esterna capace di lasciare segni profondi è indice di un certo buon grado di maturità, checché se ne dica. Nel mondo vi sono fulgidi esempi di quello che si può ancora peggiorare nella democrazia: le attuali elezioni del Presidente USA con gli orripilanti teatrini di cui sono costituite, la grottesca presa per il culo degli elettori britannici nel caso Brexit, al tempo stesso sottovalutato e sopravvalutato come esempio di studio, fanno scuola. Non è mai stata forte come oggi la possibilità da parte di un latore di interessi privatistici di influire sul destino politico del Paese utilizzando proprio, distorcendolo ai propri fini, quello stesso strumento – il voto democratico – che si dice garanzia di giustizia. I mass media attuali, ivi compresi i Social Network, la polverizzazione e mercenarizzazione dell’informazione, la sostanziale ignoranza delle masse, pur composte di tanti tasselli diversi, unite ai tempi di crisi o supposti tali costituiscono un humus particolarmente fertile per la nascita di fascismi, stretto senso o in guanti bianchi, che poi sono i peggiori; perché il cittadino si ritrova satollo in casa sua con l’unica cosa dimagrita tra tutte proprio quel senso civico che invece dovrebbe essere sovralimentato a beneficio proprio e della collettività. E neppure la via di scampo di poter identificare il tiranno contro cui combattere. Perché in ultima analisi, la tirannia, quella sì, è stata equamente redistribuita.