A fine anni novanta, per poter funzionare, l’unione monetaria doveva necessariamente porre dei limiti alle politiche fiscali nazionali. Tante politiche fiscali creavano infatti il rischio concreto che un paese godesse dei benefici di una politica espansiva, trasferendone i costi sugli altri paesi membri.
Per questo nacque il PSC, Patto di Stabilità e Crescita firmato ad Amsterdam nel 1997 su iniziativa tedesca e basato sul principio generale della stabilità. Ha previsto due meccanismi: uno di sorveglianza multilaterale e uno di sanzioni inducendo i paesi membri a correttivi della spesa, al fine di tendere ai due parametri cardine del Patto, ovvero un rapporto tra spesa annuale in deficit (cioè superiore alle entrate fiscali) e Prodotto interno lordo (Pil) pari al 3%, e un rapporto tra debito pubblico e Pil pari al 60%.
Un patto nato per prolungare gli sforzi di riduzione dei disavanzi pubblici intrapresi in vista dell’adesione all’Unione economica, ma che negli anni ha evidenziato inadeguatezza a fronteggiare le crisi insite nella globalizzazione, come quella indotta dal crack dei “sub prime” americani nel 2008. Lo spirito del patto che nasceva sul presupposto della stabilità ma anche della crescita, si è pian piano snaturato. Gli accordi di Deauville tra Merkel e Sarkozy nel 2011 aprirono poi la strada al cosiddetto “Fiscal Compact” una rottura degli accordi europei e dello spirito degli anni Novanta. Accordi subìti più che discussi dagli altri paesi, e che scatenarono le crisi dei “debiti sovrani”, nome ingannevole in quanto sarebbe stata proprio la posizione punitiva su quel tipo di debiti da parte della governance europea di allora a determinare feroci crisi sui mercati, e con esse la fine di una idea di Unione voluta da europeisti del calibro di Carlo Azeglio Ciampi o Jacques Delors, improntata cioè a solidarietà e crescita comune.
A un quarto di secolo dalla sua nascita, il Patto di Stabilità è stato di fatto molto “di stabilità” e molto poco “di crescita”. All’Unione Europea continua a mancare una politica fiscale comune, “federale”, come negli Stati Uniti, in grado di fronteggiare i cicli economici con dislocazioni di risorse o procedimenti adeguati, in presenza di crisi o shock asimmetrici. Per molti è stato lo stesso Patto di Stabilità, così snaturato, a causare spirali di stagnazione, anziché consolidare la capacità di tenuta, ridurre la disoccupazione strutturale e rafforzare produttività e potenziale di crescita dell’area.
Il limite principale del Patto è stato quello relativo agli investimenti pubblici: non distinguendoli dalla spesa corrente (la cosiddetta “Golden Rule”) li ha di fatto stigmatizzati. Salari fermi, consumi bassi, riduzione di competitività sono tratti salienti comuni alle economie di molti paesi membri, mentre le disuguaglianze sono cresciute, i servizi pubblici sono stati depotenziati e la ricchezza si è concentrata sempre più nelle mani di pochi. Mentre il Patto di Stabilità alimentava politiche economiche di austerità che, nel corso degli anni, hanno finito per produrre altri tagli agli investimenti, alla sanità alla scuola e alle politiche sociali, le altre aree del mondo investivano dirigendo risorse pubbliche alla crescita.
Vi è poi un ulteriore problema di fondo del Patto di Stabilità: un paese indebitato ha nei vincoli fiscali un freno alla crescita con conseguente aumento del rischio di mancato rimborso del debito e aumento del tasso di interesse sui titoli pubblici.
E’ questo il caso dell’Italia. Altra spirale. L’Italia ha oggi un debito che supera il 140% del Pil, il secondo più grande della zona euro, dopo la Grecia, un peso che causa vulnerabilità di bilancio e benché dagli anni duemila si sia riusciti a ritrovare il pareggio e persino a generare avanzi primari, in un contesto come quello attuale in cui i tassi di interesse sono aumentati, con i molteplici rialzi decisi dalla BCE per contrastare l’inflazione, la diffidenza o attenzione degli altri paesi membri ai nostri conti è comprensibile. I numeri meglio di altro rendono l’idea: il nostro Stato quest’anno verserà circa 80 miliardi di euro in interessi sul debito, nel 2024, 90 miliardi (in termini di deficit già lo 0,5% del Pil), nel 2025 il costo del debito salirà a 95 miliardi e a 105 miliardi nel 2026, triplicando quanto ci costava tre anni fa. Questo è il punto sul quale l’Italia sta giocando parte della sua partita sul nuovo Patto di Stabilità: escludere dal conteggio il peso crescente sul deficit di spese da interessi.
Nel marzo 2020, a causa della crisi sanitaria causata dal Covid-19, la Commissione Europea aveva attivato la clausola di salvaguardia sospendendo il Patto di Stabilità per consentire agli Stati di far fronte alle conseguenze economiche della pandemia. Questa clausola si applica fino al 1° gennaio 2024 e già nel 2022 l’Ecofin ha iniziato a chiedere il ripristino del Patto di Stabilità: la grande maggioranza degli Stati membri e dei gruppi politici del Parlamento europeo concorda sulla necessità di riformarlo.
Sullo sfondo vi è l’annoso scontro tra i paesi nordici ortodossi dei conti (Svezia, Finlandia,Austria, Germania, Olanda in testa), alcuni dei quali forti di avanzi di bilancio possono sostenere la crescita, e le preoccupazioni reali di quei paesi che, Italia,Francia e Spagna in primis necessitano di maggiore elasticità per garantirsi ripresa economica. Ecco che il nuovo Patto di stabilità si avvia verso un principio di maggiore “flessibilità” nella procedura per i disavanzi eccessivi, che dovrebbe essere adottato tenendo proprio conto dell’onere del debito. Secondo l’ultima bozza nel caso di deficit eccessivo l’aggiustamento strutturale passerebbe ad una riduzione di almeno lo 0,5%-1% del PIL , una sorta di clausola temporale per il triennio 2025-2027 dalla quale potranno essere scorporati non solo gli interessi sul debito ma anche alcuni investimenti nella transizione ecologica e digitale relativi al PNRR. Un passo avanti per paesi ad alto debito come il nostro, in questa partita ovviamente l’Italia dovrà ratificare il MES, Meccanismo Europeo di Stabilità.
Si tratta di un negoziato impegnativo nel quale rispetto al passato l’Italia sembra meno sola e la Germania meno rigida, con la Francia dalla parte dei paesi preoccupati di aumentare gli investimenti in una fase nella quale l’Europa deve tra l’altro ammodernare la propria economia. Nel corso delle ultime settimane tuttavia su pressione in particolare della Germania il testo era stato rivisto in senso più restrittivo mentre negli ultimi giorni è cresciuta l’opposizione di molti paesi. Bruno Le Maire Ministro dell’Economia e Finanze francese ha parlato di “progressi essenziali”, dicendosi fiducioso che un accordo su un nuovo Patto di Stabilità potrà essere raggiunto grazie anche al lavoro della presidenza spagnola dell’Unione europea, entro fine anno. Questo accordo stabilirebbe regole coerenti e riconoscerebbe l’importanza degli investimenti e delle riforme. Concludendo con un: “Andiamo avanti!” Bruno Le Maire ha quantificato nel 95% la progressione dell’accordo. Dall’altro lato il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner ha dichiarato che una intesa sulle salvaguardie da utilizzare sul fronte del deficit e del debito c’è, ma che ora si tratta di trovare la giusta calibrazione, tenendo conto per esempio delle spese per la difesa e che quanto ai deficit eccessivi, questi devono essere “ridotti e non scusati”. Il ministro tedesco ha parlato di accordo al 92%.
Vedremo quale sarà la versione definitiva del testo ma forse una considerazione possiamo già farla. Oltre al Patto di Stabilità l’Europa dovrà accellerare il programma di investimenti comuni (oltre che nazionali) evitare di tagliare le spese in ricerca e sviluppo, scuola e istruzione, in tutti i campi nei quali i singoli paesi europei hanno primeggiato per tanti secoli. Solo una programmazione economica su ampia scala che ingaggi le sfide nei settori in cui è difficile entrare come singoli paesi (figuriamoci come singoli distretti) eviterà di perdere la possibilità di crescere, con l’inevitabile conseguenza già vista in passato di dover piano piano fare delle ulteriori politiche di taglio della spesa corrente del welfare etc.
Cambiare l’impostazione dell’Unione europea trasformandola veramente in una Federazione, che possa condividere più armonicamente politica industriale e politica fiscale (con budget strutturali e non solo emergenziali), ci permetterà di giocarci le nostre carte nella partita globale. Se consideriamo che la politica fiscale dell’unione europea è appena il 3% del prodotto interno lordo aggregato europeo, si capisce che con queste cifre è difficile competere stretti tra Stati Uniti, Cina e India. Con un debito al 140% del Pil l’unica strada è crescere.
In foto: Giorgia Meloni