Scompartimento 6: il soffio caldo della vita nel gelo artico russo

Firenze – Ci sono film che si preannunciano solenni, attesi come nuova prova  del celebre regista, già di gloria onusto, cui dare credito a prescindere. Se poi  il film risulta ripetizione stanca , di maniera, di stilemi che ai bei tempi il Nostro aveva sviluppato con ben altro vigore e originalità, si finisce per farselo bastare.

Ci sono invece film come Scompartimento 6 del finlandese Juho Kuosmanen , che di solenne non hanno niente, né attese né nomi, e nemmeno pretendono di mostrarsi in bella accattivante grafia. Musica per esempio: solo quella emessa dallo stereo di auto veicolanti i due ‘eroi’ della storia tra una tappa e l’altra dell’interminabile viaggio in treno; segue poi ballata con chitarra d’un passeggero. Eppure, privi anche dell’onnisciente voce fuori campo, nelle immagini  post-neo-realiste di questa coproduzione  finnico-russa, s’impigliano refoli di ciò che si dice spirito del tempo: di un’epoca. E di sentimenti.  A distanza di due mesi dalla prima volta in cui mi aveva catturato, sono tornato iersera per rileggerlo meglio. E mi si è confermato che  senza clamori, ma con tenacia, “scava la vecchia talpa scava”, con un cinema di magia antica e di stile fresco e sorprendente che supera i generi e li mixa in una straordinarietà del normale: da due mesi e oltre, il passaparola, ha fatto in modo che al Flora, alla Compagnia e altrove a Firenze e Toscana il film continui ad essere replicato.

Niente di ruffiano e rutilante. Nemmeno il supposto riferimento a Checov delle Tre Sorelle che gridavano e anelavano “ A Mosca, a Mosca”, mentre qui si va in senso opposto in un treno ansimante che lascia Mosca per il Circolo Polare Artico lungo un viaggio di 1500 km, di 24 ore e più, sulle tracce antiche  della Via Carela fino a San Pietroburgo, e poi su ancora nei pressi del  Mare di Barents a Mursmank: coi suoi quasi 300.000 abitanti, il nucleo urbano di umani più numeroso e più a nord del Circolo Polare Artico, sorto solo nel 1915 come base navale per la Grande Guerra dell’Impero russo sul fronte Orientale.

La fotografia è volutamente “sporcata” e su pellicola (anche di 16mm), riversata in digitale solo in postproduzione, la steadycam segue visi, corpi  oggetti, e ne marca segni/etnemi dello Zeitgeist nella Russia primi anni 90, mito sovietico crollato, macerie anche spirituali.  Nel prologo, in casa di Irina, sofisticata docente di letteratura, amante della studentessa finnica di archeologia Laura, è convenuta una borghesia intellettuale moscovita completamente staccata dalla realtà del popolo. Ambienti ben arredati, quadri e luci soffuse, convitati in un gioco di società che divinano – da minimi semi-esoterici gesti stilizzati a’ la Meierhol’d – titoli di film internazionali d’autore. Laura viene  presentata dalla padrona di casa  come “ecco la mia grande amica finlandese che partirà domani per Murmansk alla ricerca dei petroglifi!”(un migliaio di disegni e figure scoperte in quegli anni ’90 , incisi oltre diecimila anni fa dalla specie sapiens sulle rocce delle regione del Lago Onega  e del Mar Bianco). Uno dei presenti, non ce  la fa a non distillare all’impronta la sua insipida ‘perla’: “E brava, sì, certo, benissimo, per capire il presente bisogna pur conoscere il passato! ”.

Da quel momento in poi il piano antropologico culturale si intreccia con lo scavo dei sentimenti, senza soluzione di continuità, poche fulminanti brevi sequenze: Irina trascina a fine serata Laura in camera da letto, ci fa l’amore con desiderio, ma subito dopo ne marca la distanza  empatica e di classe, lasciandola galleggiare nel suo pozzo della solitudine, mentre declina il viaggio già programmato assieme. Nella penombra brilla umido lo sguardo glauco di Laura nel vuoto.

La ragazza di mattina in partenza dalla stazione, come poi nelle varie altre tappe, cerca invano l’amica col gettone in cabina, per una parola dolce e di conforto, l’ansia di un contatto vero nella distanza che avverte ora enorme e incolmabile. Ma Irina sarà sempre di fretta, occupata con altri, solo convenzionale, e alla fine non risponde più. Laura entra nello scompartimento con una tempesta nel cuore e di fronte si ritrova Ljoha, giovane skinhead, “di quelli che sembrano fabbricati in serie”, che scola vodka a canna e ci mangia sopra salame. Ha tutto per essere sgradevole: è un minatore rozzo, forse xenofobo e omofobo, torna a  Mursmank di malavoglia solo per lavoro, parla solo russo, l’approccia con volgarità varie e a le chiede anche come si dice ti amo in finnico.

Laura gli risponde e scrive “haista vittu”(vaffanculo in realtà), lo osserva beffarda come lui si trastulli tra sé meccanicamente col termine che crede ben altro. Laura vorrebbe cambiare posto, ma altrove sul treno è un’autentica gehenna di tipi accatastati, ubriachi e vocianti. Kuosmanen fissa  attraverso la camera a mano della ragazza, che funge da diario visivo per Irina, alcune immagini: due vecchiette, una scatola di cetrioli, le orme di scarponi sul terreno innevato, e in un attimo respiri tra interni ed esterni fumo, afrori, fanghiglia, malmostosa spiegazzata precarietà di quella Russia postsovietica alla deriva.

Laura inquadra anche Ljoha che è sceso a una sosta del treno per sgranchirsi le gambe, e ora rigidamente scoordinato e brillo, afferra palle di neve e prova invano a calciarle al volo imitando le mosse dei suoi miti pedatori, fino a che cade rovinosamente sul ghiaccio. Laura ride per la prima volta nel film.  E qualcosa cambia verso il ragazzo. Non vede adesso disteso il tipaccio violento appalesatole in primis, ma un coetaneo goffamente sprovveduto, le sale un aculeo di tenerezza, inizia poi a giocarci e scherzarci con  complicità adolescenziale, anche se il gioco nelle mani di una donna prelude a fili erotici sottili che la s-ragione maschile  spesso non comprende.

Nella sosta notturna di questo interminabile viaggio nel cuore dell’inverno russo, Ljoha propone a Laura, in alternativa alla cuccetta del treno , di andare a trovare una sua antica amica “più che una madre per me”. È infatti una simpatica spiritosa pensionata già insegnante di fisica, grassoccia e rubiconda, che gli fa trovare ogni ben di dio della cucina locale né disdegna bicchieri di vodka d’un fiato e  li ospita in confortanti camerette. Il fagottino di cibarie che la Mommy russa le affida al mattino per il viaggio, la legna spaccata da Ljoha all’alba per la sua super-mamma putativa, la bottiglia di liquore regalato per simpatia pura da alcuni operai di turno notturno: Laura che ha continuato a ridere felice , nella ruvida bonomia della gente comune di popolo russo, riceve aliti montanti  di calore familiare, mai vissuti nell’ovattata intellighenzia moscovita dalle buone e raffinate maniere.

Più si avvicina al gelo dell’artico, più viene avvolta da  un “caldo” emotivo. E’ il paradosso ellittico-metaforico pregnante del film. Che è un viaggio interiore e assieme coglie micro-frammenti d’un’epoca in transizione (L’amore al tempo del gelo post-Muro?). E nel vagone ristorante, all’appropinquarsi dell’arrivo a Mursmank, la ragazza cerca un minimo appiglio per fermare la storia con Ljoha: gli regala il ritratto di lui dormiente che ha schizzato a carboncino, vuole dargli il numero telefonico. Lo esorta a fare altrettanto , ma Ljoha la ferma, si sottrae , e con una smorfia dolorosa rantola tutto il conflitto profondo di chi sa  insostenibile lasciarsi andare a una storia senza difese e futuro per un dropout come lui : “No, no, lascia stare…Non serve, non serve!… Eppoi io non so fare nemmeno uno sgorbio!”.

Ormai sono nello scompartimento, una manciata di minuti all’arrivo, la luce divenuta d’incanto rossa soffusa come quella di un’abajour. Come in Fallen Angel di Kar-Way.  Laura gli si avvicina e lo bacia, lui sembra ricambiare ,poi  le si sottrae alle labbra, ma non all’abbraccio. E in primo piano risalta il riflesso dello sguardo lucente di lui, viso incassato sulla spalla di lei, desideroso e disperato, come un gatto in braccio all’ amica umana , agitato tra  fusa e fuga. Laura esce allora fuori nel corridoio, ha bisogno di un tè caldissimo dispensato dal samovar della provodnìtsa che ne avverte lo scompiglio e le chiede  delicata solo “se va tutto bene”. Quando Laura rientra, Ljoha non c’è più. Svanito come un banco di nebbia, nel nulla da dove era  venuto.

A Mursmank arriva nell’ albergo prenotato da Irina per loro due, e gli dicono che è impossibile accedere alla zona dei petroglifi nella stagione invernale, non ci sono vie di comunicazione né per terra , né per mare…  Che sarà ora di  Laura , senza Irina, senza Ljoca, senza petroglifi?

Il resto –  ed è tanto ancora –  “lo scoprirete solo vivendo” il film , salendoci  sopra in un viaggio fatto di montagne russe, di dentro e di fuori , peripezie per mare e terra , in un geniale montaggio pervaso da un’ironia  allegra,  dolce e non sentimentalista, ma anche struggente, sempre ad occhi asciutti e  sorriso sulle labbra : come quello meraviglioso di Laura , indorata dal sole, nella scena finale in un taxi che la riporta a casa, dopo avere ricevuto un disegno vergato da una mano primitiva con due parole sotto, si appoggia quindi sognante al finestrino , continuando a ridere beata e liberata  alla pienezza della vita, alla meraviglia del caso, quando uno si mette in viaggio col batticuore , ma col coraggio di farsi abitare da altro :  anche se t’han rubato la videocamera, hai ora l’anima piena d’immagini che t’accompagneranno per tanti altri viaggi della vita.

A dar vita, vitalismo autentico, al rozzo impacciato minatore skinhead -­­ misteriosamente complesso, nei suoi contrasti di chiaroscuri e pulsioni, scatti rigidi, ossessivo-compulsivi, ma l’unico poi affidabile, scintille d’umanità che pur brillano sotto ceneri d’un’infanzia siberiana –  si scopre con sorpresa essere l’astro emergente della cinematografia non solo russa ma ormai internazionale (è attualmente presente in cinque produzioni di paesi diversi): Jurij Borisov, 29enne, Accademia d’arte drammatica Schepkin di Mosca, fondata il 1809 da Alessandro I. Nel suo lavoro sul personaggio, impronte di Stanislavskij e Mejerchol’d, ma  nessun cigolio di meccanismi/schemi nel fluire intenso del suo acting : il Ljoca di Borisov, ci scivola lieve e naturale per tutti i  70’ dalla sua entrata in scena, veloce e compatto come un treno nella notte, vero e inverosimile, presente e sfuggente, come un arcobaleno o  uno  stambecco bianco.

Quanto a Laura sappiamo che ha il volto intenso e le fattezze morbide di Seidi Haarla, che trascolora in un attimo dalla malinconia alla radiosità, dalla speranza alla paura, accendendo lo sguardo di grigio o azzurro a seconda del cielo (interiore) grigio o azzurro. E’ finlandese, 37 anni,   Academia russa d’Arte drammatica di San Pietroburgo, poi  un master in teatro, regia e drammaturgia all’Università delle Arti di  Helsinky . Haarla ha ricevuto al  festival di Berlino del 2021 il premio Shooting Stars  Awards per gli attori emergenti della Unione Europea. E nella sua videointervista a CinemaEuropa c’è tutta la  consapevolezza determinata di un percorso di formazione ancora da completare, malgrado l’importante prova con Kousnamen. Sogna ora una co-sceneggiatura e un ruolo con la tedesca Maren Aden , non a caso un’autrice che come lei ama filmare storie e personaggi ai limiti di un realismo fantastico fuori dagli schemi e dal senso comune (Everyone Else, 2009, Orso d’Argento a Berlino ; Toni Erdmann, 2016 , European Best Film Award) .

Si tenga presente che Scompartimento n. 6 , ha vinto assieme al già celebre Farhadi ( ex aequo col suo Un eroe), il Gran Prix Giuria a Cannes 2021, e  nomination al Golden Globe ; e  che il 42 enne Kuosmanen, a Cannes ha già vinto altri due premi: Il ‘Prix Cinefondation Cannes’ nel 2010 con The Painting Seller, e ‘Un Certain Regard’ con La vera storia di Olli Maki nel 2016. Se ne parlerà a lungo.

 

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